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Marino Piazzolla è figura preminente nel panorama letterario italiano del Novecento, il suo profilo poetico è ormai solidamente radicato nella storia.

Critico d’arte e di costume, direttore di riviste (“Narciso”, “L’idiota”), poeta tra poeti, in simbiosi empatica con molti grandi artisti suoi contemporanei di orbita parigina (ove si trasferì nel 1931, all’età di 21 anni, in cerca di fortuna, dopo la morte dei genitori): Cardarelli, Eluard, Marinetti, Fiume, Claudel, Méjean, Breton sono stati alcuni illustri personaggi annoverati tra le sue frequentazioni e collaborazioni.

L’esilio di cui al titolo, Il suo, è paradigmatico di una condizione che accomuna molti suoi omologhi colleghi, i quali loro malgrado soffrono, poeticamente illuminati di dannazione ipersensibile, dacché sorge in noi spontanea l’impossibile equazione filosofica delle solitudini, le quali, seppur accomunabili, se accomunate, non sembrano scaturire un insieme di valori esprimibile nei termini di fratellanza, né di appartenenza, né tantomeno, di solidarietà. Ciò a dire che il poeta è sempre solo, e tanti poeti soli vicino, danno come risultante tanti universi singoli in uno spazio ristretto.

L’opera in rilievo in quest’occasione, può dirsi senza dubbio preghiera ossessiva.

Ossessione terapeutica che origina dall’esperienza della prematura e traumatica talea dai genitori, rescissione duplice di un legame evidentemente forte, patita in giovane età e dunque tanto più inaccettabile.

Tale condizione si sostanzia in una disperazione che non risiede nelle grida misurate (“questa sera | vorrei scrivere a Dio col mio silenzio | dirgli che vivo anch’io nel suo cerchio | di alberi depredati”) ed elevate alle solitudini innevate di una coscienza al confino interiore, bensì sottilmente sottratta agli sguardi meno attenti, si evidenzia nel numero di occorrenze-ricorrenze, terminologico-concettuali: luna, neve, buio, autunno, inverno, radici, pietra, ombre, occhio, ala, padre, madre, foglie, sono il suo Phi, la sua sezione aurea, tramite la quale cerca di espellere umori metafisici e afflati spirituali prim’ancora che religiosi, alla ricerca di risposte razionali per un’equazione evidentemente da sempre irrazionale, se non misurata tramite il campione normativo della Fede.

Quest’esilio è una lunga lettera poematica, una domanda-mulinello che riecheggia nelle sue vallate interiori, fin su tra le atmosfere rarefatte e le nevi azzurre che catturano il cielo imprigionandolo nei loro atomi di ghiaccio, in cerca di quel “Dio Nascosto” di cui parla Maria Zambrano.

Una domanda che spiraleggia in un gorgo, inabissandosi, portando con sé ogni umano destino, ogni simile eretico e presuntuoso intento indagatorio, ma che pur il nostro tenta di raffigurare in una sintesi icastica: “E lo vedrei sui vetri appannati | scrivere il suo tempo | celeste e la favola umana”.

“Io brucio | e tu m’inchiodi | a questa magra terra” è la rabbia del toro funebre (così veniva soprannominato l’autore), uomo dal temperamento passionale e sanguigno come la sua terra d’origine.

Egli rivolge al Dio Nascosto domande circa la propria condizione di straniamento: “M’hai fatto, tu, poeta | e a te devo innocenza | e questa vita che mi fa straniero | e ospite malcerto alla tua valle.”, sembra quasi stizzirsi di questo dono quando prosegue: “Forse io sono inutile | come è il buio | che scoppia nella notte” ed è allora che si vorrebbe placare un dolore altrimenti incontenibile: “Fammi di pietra; | chiudimi nel sonno | con la mano che ignoro.”, perché così alfine il ricongiungimento sarà completo, perché “O come ti somiglia | chi non respira | e più non apre gli occhi”.

Madre e Padre sono oggetti di ricerca e conforto, fantasmi venuti “con uno scialle d’aria bianca”, ma ben presto ci si rende conto della vacuità dell’operazione: “Tu che sei finito | e da anni vai esplorando | il tuo stesso deserto | come una piuma in esilio”.

Non mancano poi riflessioni incursive e meno cosmogoniche, immagini che fendono le spesse coltri nebbiose dell’anima sperduta nell’eremo, come trivellazioni di luce che liberano l’alba nordica all’interno e poi finalmente fuori dal tunnel norvegese di Laerdal: “Tu che sei fresco | nell’abito nuovo; | tu che il mattino | mesci nella tua voce | e ridi alla domenica | com’angelo spettinato”, “Vidi un negro dormire: | poi farsi bianco. | Per un istante, | la luna era caduta | nel suo sogno”.

In qualche scorcio, ritroviamo influenze surrealiste: “io goccia di rugiada e tu geranio, | a un’ora della notte. | Staremo uniti così fino all’aurora | finché io sarò sciolto”, che ci riportano a quel Per un bacio eluardiano: “La lampada è colma dei nostri occhi | Abitiamo la nostra valle | i nostri muri i nostri fiori il nostro sole | I nostri colori e la nostra luce | La capitale del sole | è ad immagine nostra”.

La nostalgia dell’infanzia si fa radiosa rimembranza: “La mia casa, laggiù, | ebbe la luna per vela. | Ogni giorno beveva sul verde;”,poi saggezza materna: “Allora ini disse mia madre: | non crescere figlio!”, tuttavia tali esempi sono parentesi digressorie in quest’opera, che sgravano, come albe a gettone, dal pervasivo senso di oppressione, d’irrisolto domandare ad una vetta, verso un susseguirsi infinito di altre cime che si sussurrano il testimone, di neve in neve.

Irrompe poi, in chiusura d’opera, la paura, sana e robusta costituzione dell’animo umano che tende a sopravvivere, paura della morte (come nell’ultimo Cara, De Palchi, Manzi): “Quando sarò vecchio, | non lasciatemi solo. | Amici cari, non m’abbandonate | nel buio delle strade: | non fatemi scavare le memorie. | io che amo il tempo verde, | voglio che sia festosa la vecchiaia. | Portatemi lungo i viali, | dove verranno ansiose | le agili adolescenti”, “Poi datemi da bere il fresco vino, | quello che dal bicchiere passa al cuore…”.

La supplica lentamente muta: “Amici miei, fra breve me ne andrò”, “e non mi rivedrete più fra voi. | Dove andrò non mi aspetta nessuno” “Sarà un viaggio d’andata, | senza orario, senza valige.”, a dirci che il coraggio si affievolisce quasi per tutti, mutandosi quantomeno in rassegnazione, malinconia, razionale delirio teso a spiegare l’inspiegabile: “Io vado in un paese senza vie, | dove il sole dimentica di nascere | e nessuna, nessuna voce umana | potrà chiamarmi per nome, più nessuna. | Vado a tacere, ad essere finalmente. | Pare che dove andrò sia sempre notte.”, è l’epilogo triste di un’elegia che pur vestendosi di spiritualità sentitissima, non riesce a sostentare il poeta per condurlo tra le braccia dei suoi cari defunti.

Certamente un plauso va infine riconosciuto alla critica: Domenico Cara, Gualtiero De Santi, Donato Di Stasi, Maria Zambrano, tutte voci che hanno saputo valorizzare gli esiti poetici del nostro, in altri casi di molto superati sotto l’aspetto del mero risultato formale e suggestivo, eppure così da loro ben connotato e sostenuto su solide basi interpretative.

Marco Baiotto

Recensione
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