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I graffi della lunaChissà cosa si sarebbero potuti dire Auguste Comte (1798-1857), filosofo iniziatore del Positivismo e propugnatore di abominevoli pregiudizi sull’”evidente inferiorità relativa della donna, molto meno adatta dell’uomo all’indispensabile continuità come alla grande intensità del lavoro mentale, sia in virtù della minor forza intrinseca della sua intelligenza, sia per la sua più viva suscettibilità morale e fisica” (Auguste Comte, Sull’evidente inferiorità della donna da Corso di filosofia positiva (1830-42), Utet, Torino 1967, pp. 351-353), e Sigmund Freud (1856-1939), iniziatore della psicoanalisi dai cui studi derivò l’intero filone letterario basato sul concetto di “flusso di coscienza” (tanto caro a Joyce, Svevo, Virginia Woolf, Keruac e altri), se si fossero potuti sedere allo stesso tavolo, diciamo in un bistrot parigino, a conversare sulla poesia di Roberta Degl’Innocenti.
Non ci sono, per una volta, pretese di razionalizzazione dei massimi sistemi o di giustapposizione delle incongruenze esistenziali entro paradigmi rassicuranti o catastrofici. C’è solo (nel senso di una solitudine che riempie) l’amore, a farla da protagonista. Focalizzato al centro del Terzo occhio della poetessa, liquida sostanza vitale che colora lo sfondo del desktop esistenziale, cangiante e rilucente come in un salvaschermo dei luoghi più belli del pianeta nei quali ambientare la nostra crescita personale, le nostre piccole e grandi vicende, esso permea scene e pensieri, costruendo, a suo modo, della continuità nell’interruzione libera e costante del verso slegato, tuttavia al contempo correlato alle onde emotive che si espandono nel mare magnum di un generoso dettato. Tale continuità-discontinua si determina progressivamente nella mente del lettore, attraverso l’osservazione delle numerosissime occorrenze con cui taluni vocaboli o binomi semantici, si vengono a ri-presentare lungo le sfaccettate declinazioni versicolari. I colori ed i fiori sono ovunque ingredienti che denotano la sensuale femminilità dell’opera, le labbra rosse (nella loro ammiccante ambiguità metaforica), i palpiti battiti brividi guizzi le promesse ed i sogni galeotti, le ciglia la luna le nuvole la neve i seni suggeritori silenti e la tentazione serpentiforme; la viola i gerani il fiordaliso la rosa il gelsomino il caprifoglio la mimosa il muschio e il ciclamino, il pervinca turchino azzurro giallo rosso passione oro verde nero argento cobalto rame e carminio, le principesse fanciulle elfi gnomi fate fattucchiere e sirene, i “grilli graffiacielo” le farfalle e le lucciole, rappresentano i tipo di punto che vengono ricamati con l’insistenza musicale di un’ouverture che circuisce, a patto di lasciar cadere ogni aspettativa cibandosi di sonorità, sentimenti e sensazioni, prima che di logiche e teoremi. Sensualità che raramente lambisce l’erotismo conclamato, nella possibile intenzione di creare aspettativa e amplificarne l’effetto in talune scene, fedele forse al motto less is more, coniato dal grande architetto Ludwig Mies van der Rohe. Se davvero la donna fosse un essere a prevalenza sensitiva (in un’accezione sensoriale amplificata) anziché a prevalenza cogitativa, non si farebbe difficoltà ad associarne l’immagine mentale all’opera di Roberta Degli’Innocenti, tutto ciò nell’ottica di una semplice quanto determinata volontà comunicativa e senza null’altro a distoglierci sulla via del ragionamento intrapreso perché, come ella stessa ci dice: “Noi donne siamo esseri di vento, | di terra bruna al guizzo della serpe, | fronde di un’onda incerta sulla danza, | farfalle stanche sui colori accesi”. Seguendo la risacca e le maree emozionali, per lo più cullati in una dimensione piuttosto differente dal minimo comun denominatore di tanta poesia contemporanea (che spesso è filosofia denutrita mista a poesia stitica), si viene a trovarsi scossi sul fronte d’onda, da versi talora più efficaci di altri, piacevolmente sorpresi come: “Il desiderio è onda che comprime, la | mano sulla pelle, rumore delle alghe | che danzano la riva. | E non ho mai smarrito labbra rosse, | nel cerchio delle rose. | Di perle e spine, folletto e meraviglia”. Un che di magico e rituale pervade certi passaggi. La sensualità della luna-testimone d’amore praticato, evoca sabba di piaceri che incantano nella loro lusinga tentatoria: “Era l’ora dei lupi e delle trame, | le donne accese nei falò di luna, | si stringevano i seni fra le dita, | dritti i capezzoli al fumo della notte. | Quando la musica del flauto s’incatena | l’iride della luna si fa rauca. | Luci turbate nella notte insonne”, quasi a dirci che il lecito è stato infranto, in un gioco allusivo credibile e seducente. Talvolta i luoghi (Genova, Venezia, Madonna di Campiglio, Firenze), divengono complici di questi due “ragazzi innamorati”, universi ricorrenti tra le liriche e autosostenentisi a dispetto del contesto, come a “Venezia”, che ci accompagna con il suo “dondolìo della sirena, | che muove piano la sua danza estrema, | il gioco delle mani, il passo breve”, in cui quel “respiro perso in dedali di occhi”, dove una “Cantilena leggera sotto i ponti”, mentre “l’acqua si svela morbida d’attese”, sono gli elementi costituenti di un’ambientazione romanticamente perfetta per “la mano nella mano” di quei “due ragazzi, | a mormorare l’eco dei suoi passi”, a scambiarsi un “bacio rosso d’amore”, in cui divengono “Giuramento lo sguardo e le parole". Al di là di certi aspetti narrativi un po’ più retorici e liricamente altalenanti, comprendiamo qualcosa lungo il cammino, qualcosa che afferisce alla sfera psicologica senz’altro più femminile che maschile, di là da un concetto biologicamente fondato o meno, bensì creduto come facente parte di uno stereotipo da sempre ascritto ad una delle due componenti della personalità di ogni individuo (uomo o donna che sia, principi alchemicamente intesi). Ci riferiamo al senso di precarietà di una relazione, alla sensazione di non poter nulla con la forza, nel rapporto con l’altro che confina con noi ma che vorremmo annettere al nostro dominio interiore, nella consapevolezza che a nulla valgono i nostri cosmetici armamenti: “Mi guardo dentro adesso ballerina, | equilibrista sempre, in bilico sicura. | L’amplesso della luna, onda selvaggia, | mi graffia sulle mani cristalline, | rugiada delle ore, smarrimento. | Trema un sogno di rimmel e ciglia | umide, il fuoco del rossetto, la fata | che mi svela il suo segreto. | La pergamena colma delle ore. | Un sussulto pervinca le parole”, “un abito di brezza le ferite”. De Gregori e De Andrè fanno capolino con rimandi e sottofondi cadenzati: “In tasca spiccioli di sonno, a migrare | la luce, in sete bruna”, il treno cisalpino, i “due ragazzi di luce in filigrana”, gli stessi “in fuga due ragazzi come stelle” di un altro passaggio, un altro tempo o luogo eppure tutti questi assieme, sembrano accompagnati da note vagabonde e cantautorali. La luna, di tanto in tanto, fa capolino “meretrice strana”, creatura viva che “quando è allegra starnutisce”, “vagabonda”, che “tappa le orecchie ai versi, alle canzoni, | sogghigna delle lacrime disperse, | s’indigna degli improperi improvvisi”, “una briccona” che “promette spesso e non mantiene mai”, e quasi ce la immaginiamo femme fatale capricciosa, volubile e attraente. In questa roggia inclinata, che corre rapida verso l’amorosa turbina (senza per lo più incontrare affluenti a variarne l’ecosistema ed il clima), incontriamo però il Re della poltrona, piacevole digressione espositiva, Ode al gatto che distrae con consapevolezza verso un litorale che arieggia il rosa vertigine stemperandone il tono nella diluizione semiseria e carina di “quel batuffolo ramato e un po’ sornione”. Una poetessa che cerca nell’emozione e nel sentimento una via per l’immortalità dell’anima, a dispetto del corpo prono ai capricci del tempo, una poetessa il cui “rifugio inerme è l’avventura, | criniera della brezza”, che non ha paura di scrive un’Ode al cioccolato, che cerca “ancora le fate, le canzoni, | le principesse pigre come il tempo”, che insegue “sempre i sogni, anche se | più piano”, perché “la vita ha nudità antiche, un senso strano”, ultimo e altro, e forse più importante, vocabolo ricorrente, che è poi l’origine di quel senso di meraviglia che sos-tiene in vita, preservando il vecchio giovane dal giovane vecchio. “Innamorata strana | di canti e di bestemmie non importa”, sostiene l’autrice, purché innamorata, perché “sante o meretrici non importa | quando l’azzurro circuisce il cielo”. |
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