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“La sua stella brilla di una luce serena, armoniosa, costante, fedele. Lucia è messaggera di pace, di bontà, di meraviglia, di amicizia, calore, compassione. E' sulla terra per annunciare a tutti che la vita è una cosa meravigliosa e che bisogna viverla con coraggio ed energia”, così recita l’etimologia del suo nome, tratta dal web, righe rapite per capriccio o incipit d’irrefrenabile curiosità.

Fa un certo effetto, come già in passato rilevato, constatare che il motto latino nomen omen trovi spesso conferma lungo le strade del possibile, degli eventi, delle persone.

Lucia Gaddo Zanovello, poetessa, già insegnante di lettere, studiosa e ricercatrice in ambito filosofico morale e spirituale, è il suo nome. Un essere, un nome, un destino. Opere come propaggini del sé metafisico, a loro volta estensioni di un appellativo ricevuto, forse come augurio, forse come “foglietto illustrativo”, per istruire l’anima di una bimba al suo futuro, quel “futuro lontano | che oggi è ieri”, come recitano i suoi versi.

La poetica gaddozanovelliana è frutto donato (e da noi ricevuto, tramite le confidenze del testo Quando il silenzio accende), lo apprendiamo dall’autrice stessa, che deriva da quella “mia scomoda e tempestosa sensibilità, l’intimorita fragilità, le mie sgomente, pullulanti incertezze”.

Autentica ricerca spirituale muove la poetessa all’interno delle sue dimensioni espressive, dimensioni come aura arcobalenica che l’accompagna, atmosfera che le consente di respirare e vivere, non autorespiratore subacqueo, bensì benevola essenza che accompagna, consola, guida ed eleva effondendo fragranze tutt’intorno. Perché questa poesia è per lei “maternità dello spirito”, “quasi l’oscillazione di una culla, ove trova pace o comprensione l’ansia della quotidianità”.

I suoi mezzi lessicali e cognitivi sono di prim’ordine, lo studio linguistico è la sua via evolutiva maggiore, fatta di studio, dedizione, sacrificio, pazienza. E’ soltanto qui che la poetessa-anfibio respira a suo agio, forse raganella arboricola che ritorna alle acque dello stagno da cui prese origine.

E’ soltanto in questo en train de faire che ella può ricevere “largizioni di grazie intellettuali, di canali cognitivi, che dilatano la consapevolezza”, è attraverso la “parola-parabola-paragone-simbolo” che ella supera se stessa per progredire, certamente consapevole che “etica ed estetica non sono in opposizione”, “poiché non può essere che probo e degno di stima ciò che appare armonioso e suggerisce in chi lo gode, positività”.

Questo esistere preciso, irrinunciabile, coincidente, esatto, di un’anima rispetto alla sua forma ed alle forme delle sue opere terrene, si concreta in una sorta di fotopoiesi , intesa come atto creativo di una poesia fatta di luce (che è anche auto poiesi, nell’accezione di Humberto Maturana, cioè propria di un sistema che si autorigenera e sostiene).

Ovunque ritroviamo la luce, luce come flusso di elettroni che incanta, ma anche luce che è tutt’uno con sonorità melodiche, in una variazione di registro continuo, oscilloscopio che fluttua su terminazioni talora auditive, talora visuali, suggerendo multiformi adattamenti sensitivi nel momento in cui la strada pareva poter essere tracciata ed intuita.

Ne risultano tratti sorprendenti, gemme incastonate tra neologismi arcaici e “fonosimbologie”, come nella magnificente lirica Illuminillime, ove ogni nota, atomo auditivo componente lettere, componenti parole, è prezioso: “Innumeri rilucono | candenti | dei silenzi siderali esauste | le adonate stelle || e negli sguardi lunuli | si leggono in vessilli | volubili segreti ||. Nel flammeo ridanza | la gioia dolorosa dell’experiri, | memoria adusta di radianza || e senza posa scorrono | - eliotropiche spirali degli orienti - | le nascite risolte || murmurimando | guaiscono | di urente solitudine | in disveli germinanti d’albescenze || illuminillime.

Esiste un limite in questa poesia, che è pure cifra primaria e al contempo miglior pregio, come casa con arredo in stile entro cui ci si addentra con profondo rispetto: la materia prima del poetare rifiuta le parole “sporche”, è pudica non per innocenza, questo è il gran pregio, ma per scelta.

Amazzone della luce (parafrasando Il guerriero della luce di Paulo Coelho), la scrittrice è metaforica artista di light painting (il buio, per lei, tela non scelta), intende difendere il baluardo del bello e del positivo, della fede, volgendo il negativo al positivo, il dolore alla gioia, non ignorando l’esistenza dell’aspetto crudo dell’esistenza, ma facendosi forte e scudo nell’exemplum (nell’accezione medioevale del termine) quale miglior arma per ricacciare le creature degli inferi nei loro antri bui e maleodoranti.

Ciò facendo se ne trae, in talune circostanze, la sensazione che “i buoni alla fine vincono sempre”, la qual cosa, come nella recente e drammatica pellicola cinematografica dal titolo Come l’acqua per gli elefanti, può non corrispondere al vero, per buona parte di un tempo considerato, così come un epilogo positivo non giustifica mai, non sana e non compensa, se non raramente, una vita di patimenti.

Di là da queste considerazioni soggettive, troviamo invece la sostanza creativa che edifica dipinture sonore, grappoli di rime e assonanze che si aggregano come dolci acini magnetici sul digradar del pendio di versi e strofe: “Il vecchio pioppo spianta pio | arpionato in pieno petto”, “come rena su arena bagna | come fango su fango stagna”, o, come in Bianchi voli tra nidi, ci lasciamo cullare da rintocchi di diapason in un crescendo di croce-tace-luce-voce-truce-cuce.

E’ tanto sincera questa poesia quale mezzo d’indagine del sé, che desta ammirazione, soprattutto quando si distacca dalle convenzioni linguistiche per elevare il pensiero oltre ciò che il lessico aduso e stantìo, può pallidamente significare, ed a ciò tendendo, sospinge la parola verso isole aeree, definendo nuovi lemmi o attingendo a perle di confine (lúnule, prillío, albescenze, confidanza, nobillime, flammula, sono solo alcuni esempi reperiti sondando gli spazi di sovrapposizione tra idiomi antichi, moderni, immaginari).

Versi come preghiere augurali, capaci di rinfrancare, di curare l’anima abbattuta ed esausta: “Una veste di quieta misura | vi ceda una piana andatura | e un piede di piuma | vi voli sui tinti e diletti | prati dei vivi | a pieni polmoni, | riamati. | Ferma una fede vi nutra gioiosa | e ogni via | difforme o consueta alla mia | chiara e mai vana vi sia”, è qualcosa di una tale purezza che non può apparire se non come un respiro himalayano, seguito da un abbraccio di luce che pervade.

Come detto, questa poesia, rilucente e seducente, non ignora la dimensione del dubbio e dello sconforto, mostrandosi adulta, seppur come detto, il dolore sia talvolta esorcizzato come non-gioia, in una negazione del positivo che talvolta appare come atto non totalmente liberatorio, forse per timore che la contaminazione generi contagio, sempre e comunque per scelta ed intenzione precisa.

E se “fra gli errori svuotati rovistano le dita”, “Mi germoglia immersa, chiusa | un’inquietudine febbrile | una spina squisita che non cavo; | carezza e staffile mi sorprende | acuzie intensa | di voce che scompiglia” e “Pulsa il dolore nei conati di amare”, percepiamo intensità “urenti”, ben presto ci rendiamo conto come sorprendente sia la capacità di raffigurare scene sottili, giocate su variazioni di tono, alla ricerca del “conflitto d’ombre addestrate per la notte”, che “Dipana tenebre”.

Così come il poeta è strumento alla poesia (e non creatore e despota) ed egli o ella, lucciole di costei coglie in messi più o meno ricche e mai perenni, per accentuazione e accumulo di acme sensoriali (leggasi, ispirazione), così piacevolmente ci lasciamo digradare lungo i pendii zanovelliani, ora rapiti, ora in attesa dello sviluppo che avviluppa e solleva come improvvisa tromba d’aria primaverile, ora riflettendo, ora sentendoci parte di un disegno più ampio, nutrendoci di pensieri alti, provenienti da una fonte cristallina, rigogliosa di spunti arricchenti e note raffinate.

La lettura di questi versi conduce spesso a domandarci di noi stessi se adeguato sia il nostro legno, acero o abete rosso, giusta la stagionatura, affinché si possa fungere da adeguata cassa di risonanza per tante sensibili levità lessicali, per godere appieno di “quest’alea d’ala alba”.

La natura è per la poetessa il grande specchio di una magniloquenza superiore: “Silentissime si dice il fiore | dolcissima acuzie di grazia | et mater cerulea insiste | super omnia | senza ragione di stagione | a debordare | dal vivaio della perfezione | una cornucopia d’iridi vesti | per multiformi corolle, | un gloria di frattali e spirali | che in lanceolati nicchi zampilli | da fonte perenne in pistilli” (Sapienza viride), o ancora “Era scritta la pianura | tutta in codice di brina”, “Non valse l’abbraccio delle nevi | sulle cime | a fermare il volo sedotto della luna | sospinta oltre il mondo a risorgere | disposta ad altre meraviglie”.

Cacciatori di emozioni, seguiamo la sua “Lucertola il pensiero” che “snuda silente | dal rezzo di una breccia | fra le lastre incuneate | che portano a palazzo”, in quella “Confidanza”, “parola che danza”, che è gioia e gioco serio, per vincere le temibili incursioni che mirano a quell’”amore abbandonato sulla via aperta | lasciato ai falchi che lo prenderanno tenero”, per sconfiggere la constatazione che “Il colore della vita orna | l’enfatico sopruso della morte”.

Non solo luce, che peraltro percepiamo salvifica, altresì da queste liriche trasuda la comprensione che non v’è nulla di aureolato nella poetica di Lucia Gaddo Zanovello: c’è molto dolore che tracima in quel “turpe bagno nel fango | impantanato amore | non ci bastiamo, soli, | affoghiamo.”, “E’ qui che il figlio necessario | impugna i tuoi giorni tracimati, | che nello spaccato del tuo ramo | innesta il testimone | la vivenza sua”, ci schiaffeggia “quel grido di fiamma | che urla l’assurdo dolore | di amare di amaro amore”, “non concede strada il balzo, | il piede saldato alla polvere del campo”.

C’è consapevolezza che il mondo delle idee resta talvolta tale, e la traduzione dei moti del cuore in azioni, talvolta guastano il vino in aceto, come se nel passaggio tra cuori e ragioni differenti, anche il miglior traduttore dovesse fallire, come se nella comunicazione fosse insita la dispersione, il degrado del segnale, l’ambiguità, il mal-inteso: “Promesse smarrite disfano | dai nodi fragili di vincoli deboli | germogli labili | che un soffio spegne fievole”.

Eppure stoica la poetessa santifica la sua esistenza, sostenuta da una fede sensitiva e femminile (in apparenza non particolarmente aderente a canoni, formalismi e dogmi): “Riprende soma e tiro l’anima mula | che non fa preda in campo né vittoria in gara”, nonostante sappia che “il volo vive solo nel balzo | illusorio del desiderio”, nonostante dichiari “Ho scontato l’arroganza di volere | il mondo adatto a me”, nonostante che “Tutto ci sopravviverà”.

E come una Giovanna d’Arco delle Lettere, Lucia Gaddo Zanovello fa della poesia una fonte di sostentamento interiore, mezzo di ascesi mistica, dichiarazione di guerra pacifica alle tenebre, per vincerle dopo averle comprese, sofferte (“Non serberò rancore all’ultimo travaglio”),vissute, vivificate dall’interno, come carbone illuminato dall’azione del comburente innescato: “devo darmi a te, cavo rosso della santità, | con la chiarità del senno | che divide le ombre dalle luci”, consapevole che “tutto il dramma è che la cifra esatta dell’avere è il dare”.

Si staglia netta la paziente urgenza di delineare in maniera limpida ciò che non è parte del suo mondo (in effetti “la dritta via separa i mondi, | divide grano e loglio | sta sul colmo della lama”), ciò che conduce l’uomo a far sì che si scordi “il tepore denso | che sale dallo zoccolo al vitello | sull’erba | e l’infinità lucente nel pozzo | del suo sciente occhio | fisso al tuo | quando l’odori | per te fatto pasto sacrale | - da quando l’uccidi –“, perché a lettere di fuoco sia inciso che ella “possa non radicare a fondo | in questa terra cruda”.

Una ricerca spirituale affascinante, condotta nell’eleganza del gesto creativo, alla ricerca di quei “Filamenti d’amore” che “accendono la memoria”, alla ricerca delle voci flebili, eppur necessarie, di quei “morti, che ci conobbero | in nuvole setose di bambini”, anime che “sono canali tra i nostri fiumi | che nutrono il ventre dell’umanità”.

Recensione
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