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Diario de
Normandia
È davvero curioso come a volte basti una parola a creare riferimenti e a
stabilire corrispondenze fra cose differenti tra loro. A me è capitato quando ho
letto per la prima volta il titolo di questa raccolta di Paolo Ruffilli.
Diario di Normandia mi ha riportato alla mente un verso (“il primo caduto
bocconi sulla spiaggia normanna”) del Diario d’Algeria di Vittorio
Sereni. Io non so – né qui è il caso di indagare
– se e in che misura Ruffilli
debba qualcosa a Sereni e fino a che punto il termine “diario” e il territorio
normanno possano creare analogie tra le due opere. Non si è tuttavia lontani
dalla realtà se si sottolinea che entrambi i poeti hanno lucida cognizione
dell’assurdità della condizione umana, caduca, problematica e aleatoria, e ne
danno interpretazione diversa e spiccatamente personale.
La prima edizione di quest’opera di Ruffilli è del 1990. Egli ha già
alle spalle una serie di pubblicazioni di sillogi poetiche che l’hanno rivelato
al mondo delle patrie lettere. Il poeta del Diario non è dunque uno
sconosciuto ma un autore già esperto e maturo, con uno stile e una dimensione
artistica definiti e personali.
Intanto occorre chiedersi se in questo Diario di Normandia sia il
luogo a fornire occasione di poesia (così sembrerebbe dal titolo) o se la
poesia erompa in quel luogo di sua forza, per impeto proprio; o, più
probabilmente, fino a che punto o con quanta intensità il luogo abbia
collaborato alla genesi di questi versi. L’impressione è che l’esperimento
poetico del Diario costituisca un’ipotesi di convivenza determinata da un
incontro tra una res cogitans e una res extensa, tra una mente pensante e un
luogo, tra un io poetico ferocemente intimo e una sostanza esterna e materiale
quasi incombente, percepita con tonalità emotive mai uguali a se stesse.
Ma, per dire meno vagamente di questo Diario, val la pena di
entrare nell’opera, esaminarne la struttura. Sono in tutto nove composizioni.
Ogni titolo, un luogo e una data – l’hic et nunc
–, è come la porta della poesia
in cui i versi di Ruffilli entrano in forma di scrittura verticale, poiché egli
ormai ha scelto il verso breve e la struttura incastellata che obbliga il
lettore a fare i conti anche con gli spazi bianchi, a chiedersi il senso degli
accapo, a interpretare le scelte metriche (anche ricucendo, in lettura, due
lacerti a formare l’endecasillabo, più raramente il novenario) e la diffusa
musicalità, a incontrarsi e addirittura a scontrarsi con le parole se vuole
condurre a termine una corretta operazione esegetica.
Uno schema di fondo lega tra loro le singole composizioni in armonica
struttura: oltre al luogo e alla data che fungono da titolo (siamo in un
diario, non occorre ricordarlo), si incontrano due terzine di versi liberi in
epigrafe, poi una colonna di versi in unità strofica (con una eccezione a pag.
26, in cui le strofe sono due), infine altre strofe (da quattro a sette)
contenute in parentesi.
In particolare, predomina la visività nei sei versi corsivi in epigrafe
a ogni poesia e accenna a trasformarsi in visione: suggestiva, per via dei versi
scarni ma intensi, prevalentemente nominali, impressionistici, che slargano
l’orizzonte, gettano fasci di luce – a volte cupa
– sul paesaggio, lo definiscono
per caratteristiche e peculiarità; danno la nota dell’anima, la situazione
psichica del momento. Poi, al centro della pagina, in scrittura dritta, il
pilastro testuale suddiviso in strofe, tutte – tranne le prima (e in un solo
caso anche la seconda) – parentetiche. Nella prima strofa d’ ogni componimento
si amplia e si precisa il paesaggio accennato dai versicoli in epigrafe, si
arricchisce di presenze anche umane; si configura un quadro, un ritaglio di
vita. Che poi , improvvisamente, cede il passo a contenuti, appunto,
parentetici, di più complessa lettura, dove predomina il pensato, diversamente
da quanto accade nei versi in epigrafe e nelle prime strofe di ogni
componimento, dove prevale la visualità. E, dopo accurata riflessione che aveva
investito altre opere in versi di Ruffilli, già mi accingevo a definirlo
“poeta di pensiero”, quando, con un certo disappunto, ho scoperto che già aveva
provveduto in tal senso uno studioso molto più conosciuto e quotato di chi
redige questa nota.
Che comunque il Nostro sia poeta di pensiero è realtà
indiscutibile, anche se va sottolineato che concede il giusto alla fisicità
della rappresentazione, costruita eliminando ogni superfluità nello sforzo della
registrazione creativa. Tale pensiero, qui distribuito equamente nelle strofe
parentetiche, si manifesta per emersioni e picchi che sono disposti in brevi
unità sintattiche giustapposte e irrelate (apparentemente anche sotto il profilo
semantico), ma che, rapportate alla realtà interiore del poeta, ne svelano la
sostanziale unitarietà; e che annotano un flusso di coscienza ininterrotto e
deragliato dentro la curva delle parentesi, fitto di osservazioni,
constatazioni, riflessioni, scoperte, intuizioni. E anche va detto
dell’allusività di questa poesia (una per tutte: “Sedendo e mangiando” Tra
Trouville e Honfleur, p.26, è accenno di sberleffo o, almeno, richiamo
antifrastico e antilirico al famoso emistichio leopardiano de L’infinito),
densa di suggestioni e di ammicchi, più o meno evidenti, che chiamano in causa
il territorio, storico, geografico e artistico, cui il titolo di questo libro si
riferisce. Se si aggiunge che la scrittura poetica (ma non solo quella) di
Ruffilli stringe al massimo gli spazi, riducendo al minimo la divaricazione tra
il significante e il significato perché parlino le cose, siano cioè esse stesse
a comunicarsi –oggettivate – al lettore, ma senza perdere la loro portata
polisemica, allora si capirà quanto sia malsicuro il percorso di una lettura
superficiale e disarmata e quanto i versi di Ruffilli meritino attenzione e
preparazione specifica, trattandosi di una poesia di marcata, e a volte
criptica, densità.
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Recensione |
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