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Natura morta
Già al primo approccio con la poesia di Paolo Ruffilli il lettore può notare
come essa riponga gran parte delle sue potenzialità nel tentativo
sostanzialmente gnoseologico e definitorio dei fondamenti e delle espressioni
della vita. Si tratta innanzitutto di uno sforzo di penetrazione, comprensione e
circoscrizione della “cosa” poeticamente indagata con le armi di un’acutezza
mentale, di una raffinata sensibilità e di una disponibilità emotiva sempre
nuova e feconda. Dunque poesia come processo creativo ma, prima ancora, come
atto cognitivo. E perciò indagine, enquête, ricerca, investigazione; poi
rivelazione o svelamento, illuminazione non clamorosa, grimaldello per ulteriori
approdi. Il resto viene dopo, da sé, perché Ruffilli, come tutti i veri poeti,
dà voce all’ineffabile, anche nel significato di cosa che gli altri non osano
trattare.
Già in “Affari di cuore” si mostra “scandaloso”: ma non per la capacità
di dire l’amore direttamente e senza veli, anche se il linguaggio spesso
attutisce, quanto per essere spudoratamente nuovo e inedito nel dire dei sensi e
dei sentimenti, di impulsi e di battaglie, del cuore gonfio di sangue vitale,
di vene e arterie che pulsano impazzite. Crudo e delicato, dichiarato e
allusivo, il dettato poetico di Paolo Ruffili significa la natura ossimorica
dell’amore, dopo averne scardinate le difese e acquisite contezza e ragione in
modo quasi autoptico, se non fosse che l’aggettivo richiama qualcosa di freddo e
inanimato, mentre qui urge un fervore inaudito: i corpi s’incontrano e si
scontrano, si respingono e si fondono ferocemente, si prendono con assoluta
voracità, con spasmi di piacere e di dolore. Siamo di fronte a una esplosiva e
insieme raffinata fisiologia, anzi a un’anatomia, dell’amore pervicacemente
indagato, scoperto, gustato, patito attraverso un’esplorazione che si configura
come una vera e propria descensio ad inferos fin nel magma tumultuoso della
passione da cui , avvolto e sconvolto, l’io poetante viene infine eruttato in
una situazione di sostanziale sazietà o, se si vuole, di matura consapevolezza
di “ chi ha / già avuto tutto / e non si aspetta niente”.
A dire l’intensità emotiva di questi “affari di cuore” è deputato il verso
breve, talvolta scolpito in tre/quattro sillabe, che dice l’ansimo della
passione, lo scoppio dei sensi. Eppure questo verso è, sì, breve, ma solo
all’occhio; perché è lungo alla mente e al cuore per la dilatazione provocata
dall’enjambement, per la portata semantica e per la tensione gnomica. Certo la
lingua è sottoposta a severa pressione da uno scavo verbale che non fa sconti,
con il supporto di un gioco di rime disegualmente disposte e con un corredo
suppletivo di richiami asso-consonantici a tessere ricami di corrispondenze
allusive e suggestive. È significativo poi che l’ultimo verso di ogni
componimento rimi quasi sempre con un verso precedente (spesso con il
quartultimo): ciò può avere valore, sia pure momentaneamente, conclusivo, cioè
può rappresentare la fine del frammento di esperienza espresso nel componimento,
il punto fermo di un attimo intensamente vissuto: oppure può legare fonicamente
due o più parole in profili segnici che rimandano a significati e aspetti
fonosimbolici e metatestuali.
“Affari di cuore” offre una percezione inedita e ardita dell’amore vissuto con
straripante sensualità dall’io poetante che si pone anche come puntuale
notatore di ogni pur minima vibrazione del cuore e dell’intelletto.
In “Natura morta”il primo impatto non anodino
viene dalla materia poetica disposta in versi scarni, irti, verticali. Il
colpo d’occhio grafico allarma, invita a preparare gli ordigni giusti per
entrare in simbiosi con i testi, o almeno a porsi sulla stessa lunghezza d’onda.
A mano a mano che avanza
tra le pagine, il lettore non tarda a maturare la consapevolezza che Ruffilli
sia tanto smisurato nel sentire quanto asciutto nell’esprimere, convinto com’è
che la poesia non possa essere altro che sottrazione estrema, anche feroce.
Condizione dalla quale scaturisce un dettato conciso e distillato, come è
evidente, prima ancora che nell’opera di cui si parla, in quelle precedenti, in
prosa e in versi; un dettato antilirico, con radicamenti filosofici nel pensiero
antico e moderno rivissuto in modo personale e maturo. Siamo di fronte a una
poesia che si fa cosa, che cerca di annullare la distanza tra ciò che è e la sua
incarnazione verbale, tra significato e significante; e sotto la veste logica e
rassicurante, essenziale nel suo vago sapore lucreziano , il percorso creativo è
disseminato di intuizioni e scatti, di dissacranti svelamenti e di assunti quasi
imperiosi che scarnificano la realtà fenomenica e puntano al nucleo del reale,
oggetto della conoscenza, e alla professione del principio. È questa la ragione
per cui il tono ha connotazioni meditative, sentenziose, definitive. E i
diffusi richiami fonici (rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, ecc.)
tessono fitte tele di corrispondenze non solo intratestuali e forniscono
insostituibili chiavi interpretative soprattutto per quanto attiene al ritmo e
alla musicalità della versificazione.
Di questa raccolta,
sostanzialmente poematica, deve essere sottolineato un aspetto non secondario
che riguarda la sezione finale dal titolo ”Piccolo inventario delle cose
notevoli”. Qui Paolo Ruffilli, magistralmente, offre al lettore un tipo di
poesia che ri-crea e fa rivivere, o quanto meno riecheggia, in personalissima
interpretazione, il Regimen sanitatis Salerni, ossia quella raccolta di
precetti medici riconducibili all’antichissima Scuola medica salernitana; e
quindi mette in campo un tipo di poesia vivace e brillante, prescrittivo e
ironico. Segno di arte sicura e matura.
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Recensione |
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