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Relazione esposta in occasione della presentazione del libro
il 20 maggio 2008 alla Camerata dei Poeti di Firenze
Perché si scrive di ogni opera
scarselliana che è esente da egotismo? In effetti, potrebbe anche sembrare, in
contrasto quasi ossimorico con un Io Narrante che sempre ci conduce attraverso
le peripezie di ogni storia; ma tale Io Narrante è solo elemento d’uso ai fini
della dimostrazione dei teoremi scarselliani, i quali vogliono o finiscono con
l’offrire al lettore il reale e il virtuale d’un vissuto – una sorta d’inchiesta
su esperienze esistenziali di varia specie – che poi diviene esemplare metafora
propedeutica al recupero dello smarrito senso etico contemporaneo. Di questo
senso etico infatti, a dispetto di letture superficiali, Veniero Scarselli è una
roccaforte, un sacrario, un autentico Monte Athos, lui in persona.
Il lettore a
questo fine è condotto attraverso la poematica di Veniero ispiratamente e
insieme sapientemente fantasmagorica con l’epico fregio della sua fantasia.
Veniero infatti è stato sempre, e sempre rimane, poeta-narratore che sceglie
nelle sue lasse il tono affabulatorio che induce subito alla immediatezza della
comunicazione, che fa sentire l’eco degli incipit delle favolose storie di
Sheherazade: “nella popolosa città di Bagdad...”. Quante storie di “Mille e una
notte” iniziavano così! Il ritmo è quello; si considera l’avvenuto, da parte del
Narratore, con la stessa valutazione dei fatti che offriva Sinbad il Marinaio
facendo il punto d’ogni sua avventura.
Ogni volta si apre la pagina a un palcoscenico degli eventi
dalle grandiose quinte, eppure a misura d’uomo, nel teatro della vita e della
mente e nella prospettiva metafisica della angolatura del pensiero umano: ne
seguiamo la rappresentazione senza accorgerci che stiamo abitando il teorema
della metafora scarselliana: per prodigio di penna, infatti, essa si fa
inavvertibile, si veste da vicenda o da suggestiva “Istoria” come negli antichi
poemi cavallereschi.
Di questa inimitabile unicità del Poeta e Maestro è ancora una volta testimone
il sedicesimo poema Genesis – Fiaba della guerra e della
pace – la cui prima proposizione sta appunto nel titolo, ma subito si
dilata diversamente nell’elegante capriola dell’incipit, in cui non si parla
propriamente al presente di guerra e di pace, ma si compie uno zoom panoramico
sul risultato della pace distrutta dalle guerre; ci si colloca quindi non in un
cominciamento ma in un divenire in essere, un passato-presente-futuro come nella
Storia, in cui tutto persiste e, in commista contaminazione, ciclicamente
ritorna. Si addicono a questo incipit le linee metafisico-surreali del Dalì
raffigurate sulla copertina del volume, anche se qui viviamo sulla pagina
qualcosa di più avveniristico rispetto a quella rappresentazione premonitrice:
viviamo una specie di Day After.
Ma finita la potenza distruttiva e illusoria delle guerre
stellari, eccoci all’avventura del tentativo del recupero: oh, come riecheggia
consolante alla maniera di Robinson Crusoe questa tenue naufraga speranza! e
come il Poeta non trascura l’albo meraviglioso delle immagini! Come in un
bellissimo fumetto artistico colmo di suspence, egli, dal possesso d’una vecchia
mappa che segna l’ultimo angolo di verde terrestre ove gettare l’ancora
dell’auspicabile salvezza, ci conduce alla scoperta di certi anacoreti, abitanti
occulti di tale residuo pezzo di terra, dai quali viene peraltro declinata la
richiesta d’asilo, poiché la loro estasi-meditazione chiusa a riccio non
comunica assolutamente con quella questuante, francescana, del “Buon
Sopravvissuto”.
La vicenda ritorna, dalla drammaticità insostenibile della
catastrofe, a un ritrovato biologico fermento, testimoniato dalla consolatrice
presenza rinascimentale-barocca cellinianamente cesellata, ma anche
romanica-medievale, di un molteplice bestiario, sintomo della persistenza della
vita in quel luogo predestinato. Ma nella sponda ritrovata in questa felice
oasi, in questo animato Cantico Delle Creature, l’abilità dell’Autore non lascia
perdere il filo della suspence che regge sempre l’interrogarsi (e l’attenzione)
del Lettore per quello che potrà accadere ancora e poi.
E difatti accade: il Sopravvissuto, rassicurato, rianimato,
rafforzato dalla pausa soft che ha raggiunto, fa involontariamente di tutto per
rinvigorire – quasi con l’innocenza giocosa e capricciosa del fanciullo – la
pianta del Male che ha sede nel suo DNA umano, che da irrequietezza d’indagine
si fa poi aggressività da conquista e da possesso. Così tradisce i begli
archetipi che ci aveva fatto intravedere: S. Francesco, l’Hippy felice, la New
Age, l’Emile, il Buon Selvaggio, l’Armonia Universale.
Per fortuna, nuovo basilare tassello, si inserisce una sorta di
Super-Io che comincia a martellarlo di rammarico, ma senza possibilità apparente
di soluzione. Si veda in quanti tasselli si articola la vicenda-metafora
facendoci sporgere sul profondo pozzo della suspence volta all’epilogo! Il quale
finalmente arriva luminoso e dapprima impercettibile, infine epifanico,
filosoficamente e dottrinalmente sconvolgente! Epilogo, esso da solo, da offrire
tema di infiniti dibattiti.
Arretriamo un momento alla precedente poematica dell’Autore: ci
ha indotti spesso a raffrontarla ad una psicoanalitica odissea d’un moderno
Ulisse, ma sempre nel mito iniziatico della peregrinazione; e fin qui saremmo
quindi all’esortazione dell’Ulisse dantesco a seguire “Virtute e Conoscenza”. Ma
ora si tengano forte tutti gli inamovibili cattedratici alle loro impietrite
tavole di dottrina, quest’ultima “storia” di Scarselli è con finale a sorpresa;
ecco qual era il traguardo della lunga suspence: un quieto quieto ma esplosivo,
dinamitardo attentato alla superfetazione di dogmi occidentali; ecco la lanciata
splendida pietra dello scandalo; ecco dove l’Illuminazione estrema, sotto forma
d’Amore, vuoi divino, vuoi umano, vuoi nutrito del dono della poesia, ha portato
il “Buon Sopravvissuto” (sopravvissuto anche al rovello della propria ragione) a
mostrare come la dimensione del tempo risieda unicamente nell’animo umano, nella
sua ricorrente ripetitività epocale di acquisizione della Conoscenza (“ingannevole
Fata Morgana | scaturita dal vizio della Ragione”). Essa è sospesa fra il
Nostos dell’Eden perduto ed è volta, d’istinto, al Bene di ritrovarlo e al Male
di distruggerlo, fino alla rivelazione luminosa d’un “Così Sia” d’Amore, stato
di Grazia che conduce a perseguire la semplice virtù di essere, paghi di questo
soltanto, “come tutte le umili creature | protette dalla grande foresta | che
nascono, amano e muoiono | contente d’avere vissuto | seguendo soltanto Virtute
| e rinunciando all’ingannevole Conoscenza”.
I sostenitori della Conoscenza, e soprattutto della Ragione ad
ogni costo, potrebbero suggerire che è proprio la lunga iniziazione ad essa che
ha portato l’Io Narrante del “Buon Sopravvissuto” all’epifanica scoperta, la
quale però è divario, varco che si apre d’improvviso proprio tra lui e la
Ragione, tanto più profondo nella misura della scoperta che il cuore umano, se
rivolto alla Virtute, non necessita di una Conoscenza proveniente dalla Ragione.
Così ci si monda dal Peccato Originale: Ommnia munda mundis, sia ciò
riconquista del biblico Eden, o prospettiva paradisiaca, o raggiungimento del
Nirvana.
Incomparabile, il Poeta potrà concludere il suo sedicesimo poema
con la coscienza di conoscere la Luce che ora può vedere in semplicità e “sempre
più irresistibilmente vicina” da cui sa “di essere atteso”. E’ una
chiarezza consolatoria, come si evince dai due splendidi versi a suggello
dell’opera: “Ma ora la morte non è più | il castigo per essere vissuti”.
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