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Tre storie d’amore e morte: Scarselli, D’Annunzio, Parise

Rileggendo i Torbidi amorosi labirinti di Veniero Scarselli, una ardita storia d’amore e morte ripubblicata da Bastogi nel 2004 nel grosso volume che raccoglie tutti i suoi poemi (Il lazzaretto di Dio – Rospi, Diavoli, Aquile, serpenti) mi è capitato di pensare ad altre due opere che potrebbero essere i precursori di questo romanzo in versi. La prima, Trionfo della Morte del grande Immaginifico, D’Annunzio, considerandola però solo a partire dal libro V “Tempus destruendi”: un epilogo breve, a confronto della mole di tutto il romanzo, ma non così improvviso poiché fin dall’inizio lo preannunciano i motivi di funerea eleganza, cari al Decadentismo. Decadentismo siglato certamente anche nell’esaltazione delle pagine dedicate a Wagner e a Nietzsche, nonostante che il romanzo nella sua interezza denunci un D’Annunzio troppo preoccupato e influenzato da altre mode letterarie del momento. Ne deriva un’opera indubbiamente datata, degna di appartenere allo studio della nostra Storia  della Letteratura, e che può riemergere a tratti solo a seconda del contesto esistenziale o epocale che il lettore sta attraversando, ma che infine si fa leggere ancora tutta d’un fiato. D’Annunzio, com’è solito in tutti e tre i Romanzi della Rosa (Il Trionfo della Morte è uno dei tre con il Piacere e L’Innocente) si guarda dal di fuori con grande obbiettiva freddezza nella descrizione degli accadimenti e se ne disfa facendo quasi la autopsicoterapia di un se stesso debole e perciò non gradito ai suoi occhi di Superuomo, quasi come una serpe che si liberi, rinnovellata, dalle scorie della sua vecchia pelle.

A differenza del nipotino Veniero Scarselli, non c’è nella lussuria di D’Annunzio la sofferenza dell’impedimento divino, sublime, ultimo ed esterno limite dell’uomo; non è prefisso l’iter della Commedia dantesca, bensì la convinzione d’essere egli stesso quel dio da ricercare, sì che può cogliere tutte le lussurie ma non deve incagliarcisi mai; da qui l’ansia dannunziana di uscire dalle spire dell’eros quando troppo lo costringano, per portare avanti solo la supremazia del suo personalissimo e auto-predestinato Ego. Questo aspetto è assimilabile all’angoscia molto più modernamente annichilente che attraversa nelle stesse situazioni l’io narrante di Scarselli, con la differenza che Scarselli sembra placarsi rassegnato nella catarsi della tragedia, come recita anche la sua nota introduttiva: il poema infatti “non è solo la riflessione liberatoria di un maschio che spinge lo sguardo impietoso sui segreti delle camere da letto e sulle estreme conseguenze della liberazione sessuale; ma neanche puro esibizionismo di archetipi dell’immaginario erotico maschile che una cultura indulgente al femminismo tende a ridicolizzare; è soprattutto l’anelito dell’uomo a trascendere le miserie contingenti dei suoi rigidi schemi riproduttivi per attingere al mitico, irraggiungibile Amore Universale: l’Utopia, strenuamente difesa in una battaglia con se stesso che l’uomo tuttavia è incapace di vincere”

In D’Annunzio manca dunque il senso e il dolore cattolico del peccato diversamente dal nostro “eroe” dei “Labirinti” (ma anche dell’opera successiva, la terribile Priaposodomomachia) gemente nelle sue epico-didascalico-psicofisiche peripezie di materialista-mistico, ove pare ch’egli si sia strappato il segno del Battesimo; facendo precipitare nell’abisso la coppia perversa dei due amanti, Scarselli ci trasmette un se stesso ingombrante in una caduta senza fine avvinto alla donna che così, senza compromissioni, gli apparterrà in eterno.

Nell’Assoluto Naturale di Goffredo Parise, la lussuria prende un altro ossessivo aspetto: si maschera dell’ineluttabile evento “comandato” e “necessario” della procreazione, che la donna vuole imporre al protagonista distruggendo prima in lui la gioia dell’idealità estetico-erotica dell’amplesso e poi, a causa del rifiuto di lui di addivenire alle “leggi di natura”, eliminandolo. Attraverso questo originale dialogo, Parise muove per primo, agli albori degli anni Sessanta, la contestazione alla classe borghese indicando nella donna la pericolosa sacra Vestale delle Istituzioni, una donna vista con amore e rancore, irrimediabilmente compromessa, per costituzione psico-fisica, con la borghesia. In effetti, questa operina nasce dall’apertura di quella ostilità contro il sesso femminile che, propagandosi in tutti i ceti nei dintorni del ’68 proprio quando più pareva urgere la rivoluzione, ha scatenato le reazioni confuse e selvagge, ma indispensabili, dei movimenti femministi.

La sequenza, che si gode in questo libro, dell’accoppiamento filmato dei bombici e relativi commenti delle vecchie, è confrontabile con le simili descrizioni dei Labirinti e della Priaposodomomachia di Scarselli per la cura estrema nell’esattezza scientifica di registrare le convulsioni degli organi nell’implacabilità degli orgasmi: sequenze, sia in Scarselli che in Parise, esternate con dolorosa drammaticità, sebbene in Scarselli incomba un terzo invisibile trionfatore truculento sui succulenti pasti erotici delle vittime: il Male. Nei libri di Scarselli, gli infelici che si dibattono invischiati nelle viscerali vicende non ne traggono goduria: solo il Male se la spassa, e li lascia come una coltura flagellata da un’orda di cavallette. Inoltre, le sue epopee erotiche, rispetto agli altri due precedenti autori, investono i protagonisti con tutta la virulenza che può procurare quel vaso di Pandora scoperchiato che era, prima del timore dell’Aids, l’altrettanto ammorbante eccesso di libertà sessuale.

E’ interessante riscontrare queste affinità e differenze in tre opere che sono ciascuna in veste diversa: una di romanzo, l’altra di dialogo, quella di Scarselli in forma di poema. Le evidenti affinità si riscontrano nel comune progetto delle tre storie verso quella distruzione finale con cui terminano tutte e tre le vicende; tuttavia le conclusioni de Il trionfo della Morte di D’Annunzio e L’Assoluto Naturale di Parise appaiono essere più che altro metafore della fine e quindi si spingono ad essere più tragicamente ed emblematicamente estreme, mentre la conclusione dei Torbidi amorosi labirinti sembra essere la giusta dolorosa punizione divina della carne nel vano e desolato cercarsi degli amanti fra le “macerie post-belliche” della nostra epoca.

Recensione
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