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L'amore al tempo di Lili Marlen
Cronaca di una passione tenera e proibita tra due liceali.
La scoperta del fumo, del sesso e di una strana castità

Meg e io ci toccavamo. Non successe subito, ci volle tempo perché una conoscenza, poi amicizia, si trasformasse in un qualcosa di intimo e profondo, ma anche nebuloso e senza un nome definito: una torbida audacia forse, mi chiedo ancora.

Meg e io non ci siamo mai baciati. Sentivamo che, baciandoci, avremmo dato un altro senso a quanto ci accadeva, ma che non potevamo assumercene la responsabilità. Forse eravamo immaturi, forse volevamo restarlo. Solo una volta la baciai, e fu il giorno che dovetti salutarla perché lei e la zia sarebbero partite da Roma per seguire, al nord, quelli per cui la zia lavorava. Meg mi accompagnò alla porta, io uscii, mi girai verso di lei, restata sulla soglia della porta socchiusa. E fu allora che la baciai e lei mi baciò, e sentii il sapore delle sue labbra tumide. Sapevamo che l’allontanamento era definitivo, e che se anche ci fossimo ancora incontrati non saremmo stati più gli stessi e nulla più sarebbe successo di ciò che ci aveva così legati. Dovevamo in quel momento darci tutto quello che non ci eravamo concessi fino allora. Ci baciammo, le nostre salive erano calde. Piangemmo, anche.

Abitavo in una villetta del quartiere di ferrovieri che si stendeva, in una scacchiera di strade solitarie, al limite della periferia romana. Era una di tante altre villette disagevoli ma pretenziose, per lo più a due piani, immerse in giardini pieni di fiori ma anche di molta frutta, a ricordare i sentori contadini e rurali di cui quell’Italia era ancora carica. Il nostro era uno dei giardini più vasti e variati. Sul muretto di cinta, sulle colonnine di mattoni che avevano sostituito le cancellate di ferro requisite per la guerra, si accalcavano rose di ogni varietà e colore, generose, al tempo loro, di fiori, gonfi e bellissimi in boccio ma forse anche più belli quando, sfiniti e spampanati, spargevano tutto intorno petali sanguigni, bianchi, gialli, rosati. Fianco a fianco, si aggrappava al ruvido tufo, con oscure radici, un groviglio d’edera. All’angolo dove il giardino si affacciava su un crocicchio di strade il muretto, più alto e torreggiante, sosteneva una spalliera di gelsomino tra le cui foglie occhieggiavano gechi dal muso grottesco, come quello di E.T. nel film di Spielberg. Sopra il cancelletto d’ingresso si apriva la più bella e florida mimosa che si possa immaginare, inghirlandata a sua volta da un glicine arrampicato fino al secondo piano: all’epoca della comune fioritura, lo zolfo acido e violento della mimosa si fondeva col pallido glicine, invogliando i passanti ad intrufolarsi nel giardino per strapparne vaste bracciate. Tra i vialetti si aprivano le aiole, con bordure di santolina profumata e, al centro, alberelli di lillà, cespugli di biancospino e di ortensie. In fondo, nella parte posteriore e meno visibile, il giardino cedeva il passo all’orto, e lì crescevano stenti, inselvatichiti, un paio di alberelli di pesco, un albicocco, due susini con i tronchi gocciolanti di resina, un enorme albero di fichi e il kachi, un albero allora sconosciuto a Roma, con quei suoi frutti glabri e succosi pendenti come rosee palle di natale sopra un tappeto di foglie color vinaccia luccicanti di brina. I kachi a me non piacevano, non ne mangiai che raramente ma molti, anche sconosciuti, venivano a farsene regalare una sporta. C’era la vite, in filari striminziti che davano poco o niente. Mia madre spendeva molto sul giardino, ogni paio di anni faceva arrivare un carretto di sabbia gialla, che veniva stesa sui vialetti e a noi un po’ sembrava di essere al mare.

D’estate, nelle notti insieme fresche e calde, mi piaceva molto scendere in giardino dopo cena: buffi d’aria tiepida mobilitavano fuggevoli fragranze nel frinire dei grilli e le luci dorate delle lucciole, io gironzolavo quietamente tra i fiori e gli alberi, mi arrampicavo su un nespolo o sul fico oppure mi appollaiavo sul muretto di cinta, per cogliere le acerbe susine degli alberelli piantati sul marciapiede a un paio di metri di distanza o per ascoltare i noti rumori, le voci familiari che venivano dalle cucine intorno, le canzonette e le musiche dalle radio, una conversazione rubata al vento. Prestai appena un po’ d’attenzione, dapprima, alle due voci femminili, una un po’ in falsetto, l’altra con qualcosa di roco e gorgogliante come il fruscio del fogliame o lo schiumare di un torrentello, che scendevano da una palazzina adiacente alla nostra. Le voci venivano dall’appartamento del terzo piano, dove erano arrivate da poco due donne. Una, attempata e segaligna, l’altra giovane, bella e bionda. Era la giovane ad avere la voce roca e pastosa, mi ero già soffermato ad ascoltarla. Mi attirava, già lo sapevo, così mi avvicinai alla rete divisoria tra i due giardini. Le due donne erano affacciate alla finestra. Mi videro nel buio, l’anziana mi interpellò: “Buonasera”. Risposi, scambiammo qualche parola, del più e del meno. Qualche giorno dopo incontrai la giovane per strada, ci salutammo, indugiammo a chiacchierare.

Cominciò un’epoca inquieta e febbrile. La vedevo ogni giorno, dopo scuola. Io scendevo fuori appena scaricatomi dei libri, la incontravo davanti a casa sua, girellavamo per il quartiere o nel parco in fondo alla strada. Mi invitò a salire in casa. C’era ovviamente l’anziana zia, ma spesso lei si assentava e io e Meg restavamo soli. Meg aveva modi franchi e spavaldi, il volto un po’ irregolare, labbra tumide, lisci capelli biondi fin sulle spalle, un corpo ben disegnato e pratico di ginnastica, le gambe che si arcuavano all’indietro con effetto un po’ buffo da cui lei non si difendeva, e anzi ne rideva. Mi sembrò a un certo punto che somigliasse spiccicata all’Alida Valli di “Noi vivi”, il film antisovietico tratto da un romanzo della scrittrice, allora ungherese, Ayn Rand: la stessa sensuosa eleganza interiore, la stessa leggera ironia femminile negli occhi, lo stesso splendore nei capelli quando lei inclinava un po’ la testa - il massimo della seduzione consentita a quel tempo - come appariva nella fotografia che la zia le fece fare, mi pare da Luxardo, il fotografo della gente importante e delle dive del cinema: in quegli anni di ristrettezze infinite, Meg fece confezionare dalla sartina di famiglia un manicotto e una specie di colbacco ritagliati da una pelle di leopardo da sempre abbandonata sul sofà del salotto, e la fotografia, con le sue morbide luci radenti, la riprese così, affascinante e seducente sotto il colbacco esotico.

Passavamo le ore nelle occupazioni più fanciullesche. Avevamo imparato ad aprire il tavolo da pranzo, ad allungarlo con una spianatoia per la pasta, e ci sfrenavano in un rudimentale ping pong. C’erano anche lunghe ore passate con le carte del ramino, oppure ci concentravamo sugli ammennicoli del gioco di “Monopoli”, allora molto in voga. La zia, se era uscita, tornava e ci trovava, innocenti, immersi nel muto piacere di stare assieme. Pian piano diventammo inseparabili, appena possibile ci chiamavamo, io correvo da lei ad ogni minuto possibile, lei veniva a cercarmi a ogni ora.

Qualche volta l’aiutavo a fare i compiti di scuola. Lei andava al prestigioso liceo Tasso, io frequentavo il più moderno “Giulio Cesare”: io studiavo l’inglese, lei il tedesco. Una volta, durante un esercizio di traduzione, le venne di dire una frase stramba, mi pare “die katz in der kűhl”, che era sicuramente un errore, ma ci fece sguaiatamente ridere a crepapelle. Io mi sentii un po’ ignobile. Ci piaceva anche ascoltare la musica leggera trasmessa dalla radio, che le due donne avevano (noi no). C’era l’orchestra del maestro Angelini, cantanti come Alberto Rabagliati, ma noi attendevamo il momento in cui quasi ogni giorno, immancabilmente, venivano trasmesse le note di “Lili Marlen” nella versione originaria, in tedesco: “Vor der Kaserne, | vor dem grossen Tor, | stand eine Laterne | und steht sie noch davor, | so woll’n wir uns da wiederseh’n, | wenn wir bei der Laterne steh’n, | wie einst, Lilli Marleen, | wie einst, Lilli Marleen“ (“Davanti alla caserma, | lì davanti al portone | c’è un lampione | e sta sempre lì davanti | e lì ci rivedremo ancora | di nuovo accanto al fanale | come una volta, Lili Marlen | come una volta, Lili Marlen”).Erano i versi di una marcia militare struggente, nelle più diverse lingue e sotto ogni bandiera furono uno dei simboli profondi della guerra.

Giocavamo, ma non era solo un gioco. Abbiamo anche dormicchiato assieme, in certi pomeriggi afosi, assopiti sul sofà-letto, davanti alle finestre spalancate nel sole pomeridiano. Nel salotto con i mobili alla fiorentina di legno scuro c’era una poltrona frau dai bracciali di pelle scrostati. Era una poltrona larga e profonda, a volte ci stravaccavamo dentro, fianco a fianco. Ci accoglieva, ma anche metteva a contatto i nostri corpi. Un po’, il suo mi era familiare perché, quando uscivamo, camminavamo a braccetto ed era la prima volta che io sfioravo così un corpo femminile. Non c’era alcuna intenzione in quello stare insieme, nell’accucciarci nella poltrona di vecchia pelle. Successe spesso. Ma una volta io, senza sospetto, infilai la mano sotto il suo pullover di angora, a larghe bande marrone e bianco. La mano risalì lungo la sottoveste, d’un tratto sentii tra le mie dita il suo seno. Era tiepido, morbido, pesante, lievemente sudato. La mia mano si immobilizzò, restammo tutti e due immobilizzati, con il fiato sospeso. Non so quanto tempo rimasi con la mano su quel seno, quando la ritirai non ci guardammo, i nostri occhi si sfuggirono. Riprendemmo a giocare, ci aggirammo per casa, non una parola sull’accaduto. Ma era accaduto forse quanto tutti e due, senza dircelo, volevamo accadesse. E sapevamo che si sarebbe ripetuto. Così fu, di lì a poco, sempre nella complicità della immensa poltrona. Accucciarsi in quel caldo antro divenne una attesa, una richiesta, quasi un comando all’altro, imperioso, inequivocabile. E infatti l’altro - fossi io o lei - cedeva, con una sorta di passività confusa, e si abbandonava, con il corpo divenuto molle e indifeso.

Imparammo quanto dovevamo imparare, l’uno dell’altro, in un ineluttabile percorso di mani divenute pesanti come piombo. Le mie si muovevano delicate, esitanti, ritrose, coi polpastrelli dolenti sull’impudico trionfo del capezzolo, turgido come il fico con la goccia, sulle gambe dalla lieve peluria, sui fianchi sodi e muscolosi. E attendevo la sua mano con un’ansia sospesa e feroce. Non la guardavo, lei non guardava me, ci chiudevamo in noi stessi, la coscienza si ritraeva su un segreto favoloso che ci univa e ci separava da tutti gli altri. Un turbamento senza nome copriva come un’onda i nostri pensieri, eravamo offuscati dalla nostra perdizione. Se qualcuno ci avesse detto che stavamo comportandoci meno che drammaticamente, sprofondati in un abisso di angoscia e di orrore, saremmo fuggiti via ma avremmo odiato chi così ci sviliva, ci svendeva al volgare pettegolezzo.

Non eravamo amanti, ma almeno io l’amavo, di lei non so, perché non ci siamo mai detti, l’uno all’altra, ti amo. Insidiava la nostra adolescenza ed immaturità il gusto, la curiosità delle cose sfuggenti e proibite. Come quando compravamo, e fumavamo di nascosto, magari abbandonati nella poltrona frau, certe sigarette leggere che allora si potevano ancora trovare da qualche tabaccaio, le Macedonia piatte e con il bocchino colorato: nella scatola c’erano dieci sigarette, ciascuna con il bocchino d’un diverso colore, ce n’erano rosa e lilla, oltre quelli d’oro e persino nero. O quando, sicuri che la zia non sarebbe tornata per un bel po’, aprivamo con uno stratagemma un armadietto ad ante vetrate dove era la modesta argenteria e i piatti del servizio buono, perché chissà come e da dove era arrivata una bottiglia di doppio kümmel dolciastro e appiccicoso. Ne bevemmo quanto ci fu possibile, una volta dopo l’altra, e ci sentivamo ancor più stranamente felici. Scendeva allora un’ombra di silenzio che ci avvolgeva, la coscienza si dissolveva e ci abbandonavamo a carezze che inseguivano, trasalendo, le più fini pieghe della pelle. Ci attardavamo, desideravamo restare all’oscuro, di noi stessi innanzitutto, non volevamo altro che restare assieme così, in quella adolescenza infinita. Chi mai sa di essere felice? Nei nostri sogni più inquieti, o infami, entrava l’immagine ignota del reggiseno carioca, un mito lontano. Dietro il volto morbido, le labbra tumide alle quali la luce soffusa delle lampade sapienti di Luxardo aveva donato una leggerezza misteriosa, c’era non la donna, la seduttrice, ma la ragazza se non proprio la bambina, e dunque una piccola anima ancora viziosa. I suoi occhi azzurri, bordati da un’ombra, erano due pozzi liquidi.

Perché ci fermammo, perché non facemmo all’amore fino in fondo? Avremmo potuto, ne avevamo le più ampie opportunità. Non accadde. Eravamo smarriti dentro una distanza insormontabile, che non riuscivamo a superare; ma la nostra audacia ci pareva ed era, per quei tempi, sconvolgente, pensavamo che se fossimo stati scoperti sarebbe successo qualcosa di terribile, a tutti e due. Non era il fare l’amore il proibito, ma proprio lo stare vicini, lo scoprire il corpo, per me, della donna. Il sesso, mai nominato con il suo nome ma con allusioni contorte, era altro, a volte quello che ti insidiava negli ambienti più impensabili, dalla sagrestia agli amici di famiglia, che vedevi ogni giorno e ogni giorno dovevi sfuggire. L’incontro con Meg fu, rispetto a tutto questo, la scoperta di una strana castità, di una felicità non corrotta, misteriosa ma liberatrice. Ci negammo l’amore adulto: ben più tardi avrei capito che una ripulsa è anche un invito, a lungo soffrii di una ripulsa forse solo immaginata, ritenendola decisiva, finale, così da troncarmi ogni velleità. Il mio desiderio restò uno spasmo frustrato, inerme. Mi fermava una sorda barriera di parole morali, di dettami cavernosi e lontani, che mi stremavano e mi rendevano incapace di forzare i tempi e la situazione. Vedevo altri, amici, che di questi blocchi, di queste reticenze, non soffrivano, o sembravano non soffrire, marcando ogni giorno di più una mia differenza, logorante quanto inutile.

I nostri corpi, che appena potevamo immaginarci sfiorandoli nella penombra della stanza dalle persiane accostate e complici, splendevano invece al sole quando potevamo andare, per una mezza giornata, alla piscina dello stadio Flaminio. Questo svago stupendo durò poco, l’acqua cominciò a mancare nella città e la piscina venne prosciugata e chiusa. Ma per quanto durò, andare in piscina nei nostri costumi di povera lana fu per me l’occasione per scoprire nella sua corposità reale la donna. Distesi sull’ultimo gradino della scalinata che circondava la vasca, i nostri corpi si potevano ora toccare senza ritegno. La sua pelle, nel sole, era del colore della pesca, le gocciole d’acqua che lo punteggiavano dopo il bagno lucevano come perle, lei era al centro dell’attenzione di ragazzoni ben più prestanti di me, ed io ero orgoglioso perché lei restava accanto a me, solo con me.

Sabato 9 gennaio 2010

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