|
La cadenza sospesaCirca un anno fa la giovane Valentina Colonna, che avevo avuto la fortuna di conoscere, mi faceva dono del suo manoscritto - La cadenza sospesa - e su quel testo avevo esposto una mia breve riflessione datata 20 febbraio 2014. Dopo quasi un anno il libro trova la sua luce per conto dell’editore Nino Aragno, con una bella prefazione di Davide Rondoni. Ma è un altro libro questo rispetto al manoscritto, con alcune poesie che non hanno trovato posto nell’edizione definitiva e molte altre che vi si aggiungono; ma anche quelle rimaste hanno subito un lavoro di abrasione, di sintesi, di spogliazione. Tolta la corteccia, resta la poesia nella sua nudità, essenza, sostanza. Resta l’ossatura, lo scheletro. Segno che tanto vi ha lavorato questa giovane autrice, esempio di come la poesia, dopo il suo primo impulso sorgivo, necessiti di pause, di ripensamenti, di lima. Sarebbe interessante tracciare le differenze tra la sua prima stesura e quella definitiva, perché ci mostrerebbe il suo “farsi” poesia (un bel libro di Giovanni Raboni non a caso si intitola La poesia che si fa). E leggere questo libro di Valentina Colonna è come immergersi nella sua officina, nel suo laboratorio per raccogliere «un fiore di musica e di solitudine», come scrive Davide Rondoni, perché la parola, soprattutto la parola poetica, è «suono e silenzio», secondo la definizione di Pierluigi Cappello.
Sta passando
l’arrotino
L’arrotino ha fermato
la musica, Fischia più solo il coltello. (p. 18) Sono tracce che uniscono parole alle cose, lampi improvvisi che scorrono e aprono a barlumi di speranze (le porte socchiuse, le rose, il balcone) di breve durata. Ma la vita continua nella sua imperscrutabile essenzialità (fischia più solo il coltello). E ancora ricordi che nascono come da una pellicola, si srotolano per analogie, per associazioni, nascono dal profondo, «poeta minatore» richiamava Giorgio Caproni parlando dell’ufficio della poesia, e Valentina traccia di se stessa queste immagini la cui durezza sorprende:
Io non sono per gli altri che
altro.
Io non sono che nulla
Per gli altri sono l’altro
Apparenti d’essere O questo ritrovarsi in solitudine in una città fatta di strade vuote, di tram che passano vuoti, di silenzi che si respirano, fino alla domanda finale impossibile da decifrare (chissà chi era ieri), conclusione di un discorso sottinteso, ancora da iniziare, ad indicare le tante volte di qualcuno che si è presentato alla nostra porta, le tante possibilità non raccolte.
Ora che sono tornata
Il lampione rovescia accanto,
Un tram è appena passato
Un tram la vedeva ogni sera. Domanda finale che non trova risposta, così lontana questa poesia da quella velata di malinconia di tanti giovani coetanei, poesia come corpo già matura, che incide e non lascia indifferenti, imbriglia i ricordi, li espande sulla carta senza farli sedimentare, li grida in una sofferenza appena appena manifesta. E ne traccia i contorni, li segue nella loro evoluzione. Il ritorno (ora sono tornata), sottintende anche una partenza, e non è casuale che la poesia che apre la raccolta affronti proprio questa tema, il tema del viaggio.
Sto partendo. Non resto che
io
Ho posato la mia valigia
La ginestra perde per strada
Al saluto di mani il mio
sorriso apre
Oggi sospeso il tempo ferma. Di te non mi resta che tutto. (p. 15) La valigia, metafora di un viaggio, e il treno (I treni inseguono porte chiuse) che specialmente nell’ultima parte (Ultra), si rincorrono e ritornano con la presenza del padre ad occupare quel posto mentre il suo, quello di Valentina, è l’ultimo / della prima carrozza in coda. L’ultimo, quasi a ricordare il tredicesimo invitato di Fernanda Romagnoli, la più piccola e la più giovane della casa in una ricerca ancora tutta da scoprire, poesia dell’inatteso o dell’imprevisto e ricerca del “possibile” su cui Davide Rondoni nella sua prefazione insiste. Così è ancora l’immagine del treno che porta non si sa dove, nel tentativo di una convergenza all’infinito come sono le rette parallele, in una certezza che non è più certezza
I nostri
binari convergono là fino alla perdita, allo smarrimento dove solo altri sembrano essere punti di riferimento sicuri.
Avevo
segnato a matita Sono le immagini ancora di un viaggio che ritornano, come lo era stato l’incipit: Domani partirò, ma è nei capelli / che passa il feretro dei ricordi, testimonianza di una età prematuramente archiviata: In questi anni sono nata più volte per scoprire alla fine che nascere / può dire solo trovare. (p. 67) Ed è qui, proprio qui, nel momento della perdita, che entra in gioco la testimonianza che si fa poesia, il senso della parola e della sua poetica:
Questa è
l’ultima volta
La carta
per scrivere è poca In questi versi c’è tutta la concretezza operaia di chi lavora con le parole, se compito del poeta è quello di «dare il nome alle cose», secondo un antico principio di Mario Luzi. E Valentina, sorprendente in questo suo andare a trovare la parola che salva, può anche dettare il suo epitaffio, come Emily Dickinson, può immaginarsi sulla linea d’orizzonte non conclusa (Anche oggi questo volo finisce / dove il confine separa la zolla), può con amarezza, ma anche con lucida consapevole visione, cantare la sua verità:
Al mio funerale non
portatemi fiori.
Ne ho raccolti
parecchi Sogliano al Rubicone, gennaio 2016 |
|
|