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- Il testo che segue costituisce, con
qualche lieve modifica, la presentazione del romanzo di Raffaele Nigro che,
tempo fa, ho fatto presso la Libreria Feltrinelli di Padova. Mi è parso
opportuno conservare, ove era possibile, il tono sostanzialmente discorsivo di
quella presentazione.
Il romanzo che mi accingo a
presentare, Malvarosa è entrato nella
cinquina del Supercampiello e si è piazzato terzo nella graduatoria finale del
prestigioso Premio. Dunque un altro meritato riconoscimento allo scrittore. Dirò
subito che, dopo qualche perplessità iniziale che è andata via via
dissolvendosi, il libro mi è piaciuto molto: è interessante per varie ragioni –
anche di natura linguistica – intrigante e complesso come la vita cui si ispira,
è forse il libro più bello che Nigro ha scritto sino ad ora. E’ certamente
originale rispetto ai romanzi precedenti, anche se vi appaiono temi presenti da
tempo nella narrativa di Nigro, come quello dei morti che tornano, senza la
minima intenzione di spaventare i viventi, ma anzi con il proposito di recar
loro un messaggio rassicurante e consolatorio. Ecco a questo proposito un passo
esemplare: “Anche Cristina è morta da tempo e il suo fantasma, secondo zia
Sinforosa, ritorna a casa sotto forma di passero o di falena. Mentre la nonna
torna spesso in forma di lucertola, si ferma sul muricciolo che delimita la
statale, guarda e deglutisce” (p. 16).
Mi sembrano piuttosto evidenti le
affinità che il libro rivela con la picaresca, riscontrabili in almeno due
aspetti caratterizzanti: il racconto in prima persona, attraverso un arco di
tempo che va, grosso modo, dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni
Settanta del secolo scorso, delle vicende spesso poco edificanti del
protagonista Eustachio Petrocelli e del suo vivere quasi sempre di espedienti
illegali, quali la sua attività di tombarolo e di venditore abusivo di reperti
archeologici, pur di procacciarsi quanto gli serve per tirare avanti. Anche la
struttura portante dell’opera appare chiara: ispirandosi probabilmente al
Milione di Marco Polo, l’autore immagina, nell’esordio, che l’intera vicenda
sia narrata, “Tanto per ingannare il tempo” (p. 26), dal protagonista al
compagno di prigione, il tunisino musulmano El Houssi, il quale gli ha chiesto
esplicitamente di narrargli la sua vita, che lui trascriverà. I due novelli
Marco Polo e Rustichello da Pisa s’accingono, dunque, a compiere anche loro un
viaggio, ma questa volta attraverso le complesse vicende esistenziali di
Eustachio, dotato di un eccezionale olfatto, che gli consente, tra l’altro, di
avvertire a distanza l’odore dei morti e della muffa e di identificare quindi
con sicurezza necropoli o singole tombe. Si snoda così il lungo racconto, quasi
una serie di flash-back, in 12 parti, suddivise a loro volta in capitoli minori,
ove la trama si frantuma in tante piccole storie, relative al protagonista e ai
numerosi personaggi con cui entra in contatto, sia nell’area a lui familiare di
Metaponto e zone limitrofe, sia in aree a lui estranee e lontane, quali il Medio
Oriente – ove raggiungerà via mare, su una petroliera, gli Emirati Arabi – e gli
Stati Uniti. Il racconto è interrotto, ad ogni avvio delle singole parti, dalla
narrazione delle vicende dei due prigioneri, sequestrati da guerriglieri
algerini e rinchiusi in una torre di avvistamento, in prossimità del mare. Il
romanzo si muove, dunque, a due livelli e in due tempi distinti: il racconto
della vita passata di Eustachio e quello delle vicende presenti dei due
prigionieri, tesi alla ricerca di una via di fuga dalla loro prigione.
In questa molteplicità di storie assai
diverse tra loro, ne ricorderò solo alcune che meritano di essere segnalate: ad
esempio quella dell’appassionato amore tra Eustachio e la senegalese Soukeyna,
da cui nascerà Adithiane, figlia che Eustachio non si decide a riconoscere per
immaturità e conseguente incapacità ad assumersi responsabilità. Detta vicenda,
nella quale il protagonista non si distingue certo per il suo comportamento
cavalleresco, attraversa una parte consistente del romanzo. Voglio ricordare poi
la storia del barone Federico Maria Telesio, gentiluomo all’antica, chiusosi in
casa per non vedere lo sconquasso edilizio e paesaggistico che è avvenuto e
continua ad avvenire nei luoghi siti in prossimità del suo castello, che
s’affaccia sul magnifico mare di Calabria (pp.162-67) ed infine la piccola, ma
significativa storia di Margherita Spera, altra segregata in casa perché,
spiega, “tra lei e il mondo era scesa una grata che le impediva di affacciarsi
anche alla finestra” (p. 303). Margherita, che ha insegnato per tanti anni, è
una vinta della vita e, in un colloquio telefonico con la madre del
protagonista, si chiede angosciata: “Ma che ho insegnato a questi ragazzi? Mia
figlia è scappata di casa con la scusa dell’università, mio marito – noto
speculatore edilizio – è impazzito e se n’è andato, mio figlio vive a Roma da
sempre, quest’altro –allude a Renato, detto Che Guevara, grande amico di
Eustachio – ora se ne va senza manco salutarmi e Mary Annie – la figlia minore – è
indisponente. Non la capisco, dice, non capisco i suoi problemi. Ma io
– conclude – non ho problemi? Noi non abbiamo problemi? E li abbiamo trattati male
questi figli? Non mi pare proprio, commara, non mi pare. Dove abbiamo
sbagliato?” (pp.303-4). Credo che più di qualche madre potrebbe oggi
riconoscersi in questo sfogo dolente.
Nel libro si trovano spesso,
disseminate qua e là, considerazioni e riflessioni sui problemi del Meridione.
A proposito, ad esempio, della zona tra Basilicata ed Irpinia, si osserva che le
campagne – come, del resto, nel Nord Italia e in quasi tutto l’Occidente
industrializzato – sono vuote, da fare impressione (p.83), sottolineando
implicitamente l’annientamento del vecchio tessuto sociale, che generava, specie
tra i più poveri, un maggior senso di solidarietà e rendeva più sopportabile
l’esistenza. Circa “Inferno e paradiso nell’Italsider” (come recita un
capitoletto del libro, riferendosi a Taranto, p.32), un personaggio femminile,
tornando sullo stesso tema, rammenta a Eustachio che un tempo nella zona
“…c’erano dei contadini che lavoravano le campagne. Qui c’erano tradizioni feste
processioni canti sull’aia…Dove sono finite tutte queste cose…? Arriva l’acciaio
e ruba la gente alle terre, distrugge la vostra cultura. Ecco che bell’acquisto!
Vi ha ucciso. E la disoccupazione è sempre lì” (p.238). Non mancano strali
contro superstizione e fanatismo religioso, riferiti sia ai cristiani che ai
musulmani. Riguardo ad una certa religiosità, che vede attorno a sé, ma
reperibile ovunque, fatta essenzialmente di manifestazioni esteriori, lo
scrittore si chiede amareggiato: “Ma questo paese si sveglierà mai?” (p. 73).
Più avanti, alludendo agli abitanti della Basilicata, parla di “un sonno che
ci tiene fuori del tempo e del mondo, pietrificati e impediti a fuggire” (p.
245). Le critiche si appuntano naturalmente anche contro mafia, ‘ndrangheta e
camorra (pp. 163, 179 et passim), contro il mercato del lavoro clandestino, che
utilizza quasi solo manovalanza araba e negra (p. 111), contro la distruzione
del territorio e dei reperti archeologici. A Bernalda, in un cantiere del padre,
costruttore edile già menzionato, il figlio Renato, fatto di tutt’altra pasta,
osserva che “Spianano tutto…gli operai hanno trovato là sotto un cimitero
antico, io provo a fermare i lavori, ma Coco – un fedele dipendente del padre –
comanda di spianare, di farlo di notte e subito, o ti arriva Adamesteanu – il
sovrintendente – e buonanotte al secchio” (p. 85). Nigro richiama l’attenzione
anche su intrallazzi e corruzione, grande e piccola. Della prima è maestro il
costruttore più volte citato Totonno Orapronobis, che riesce ad ottenere
favolosi appalti dall’Ina Casa, baciando gli anelli ai vescovi, firmando assegni
e dicendo “orapronobis” (p. 117), donde il soprannome. Della seconda, la
corruzione spicciola, assai diffusa, si ha un esempio nel comportamento del
veterinario, il quale, quando il padre di Eustachio macella i suoi maiali,
timbra, si piglia delle costate e dice naturalmente che va tutto bene (p. 80).
Questi, in breve, sono
alcuni aspetti del romanzo sui quali volevo richiamare l’attenzione, per
segnalare l’interesse che la molteplicità dei temi trattati desta nel lettore,
ma è certo che molto rimarrebbe da dire su un romanzo ricco e stimolante come
Malvarosa.
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Recensione |
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