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Castelli di carta

elogIO della soliTUdine

I castelli di carta sono il mondo, come già espresso da Alberto Teodori in Per non apparire, e forse anche in altri luoghi, vista la sua tendenza a ritestualizzare e rilanciare certo suo déjà écrit. Perché ripubblicare il pubblicato? Intanto, trapiantare il passato nel futuro riattualizza uno ieri non esaurito, e che non si vuole esaurire. Ma il vero motivo è che in un autore tout se tient. Dimentichiamo troppo spesso l’accesa sensibilità al tempo di un autore: se è un autore. I castelli di carta sono il mondo, d’accordo. Tuttavia, Sergio Quinzio scrive in prefazione, «castelli di carta sono anzitutto le nostre parole», anche quelle, Quinzio continua, attraverso cui Teodori tende a definire e insieme a dare spessore alla separatezza, a quel «cercare l’ombra di sé stessi» che sembra essere l’esclusivo principio ispiratore delle sue opere. Quinzio racconta che il giovane Teodori aveva tradotto Mallarmé usando lipogrammi in r. Il risultato furono versi «dolci e morbidi». Platone diceva che la rho dà l’idea del movimento (Cratilo). Sopprimerla potrebbe dare l’idea di una parmenidea immobilità, di una soppressione del divenire. Sarà un nesso indotto, costruito, ma quei versi privati della r sembrano trattenere qualche affinità con una esistenza quasi inerte, chiusa al mondo.

Un volontario isolamento viene vissuto da Teodori senza concettualizzare il regressivo o ricorrere all’artificio dell’ironia: sulla solitudine – che anche in Castelli di carta domina fino allo smarrimento del margine tra realtà e sogno – Teodori si esprime radicalmente come di uno status di cui si vuole prendere le misure, delineare l’entità, mettere in contesto i riflessi e gli effetti. Inoltre essa, benché apertamente «sofferta», non innesca un teatro di tensioni, non si compiange in spazi claustrali. Lo sguardo di Teodori si stende in vasti scenari naturali i cui elementi sono simboli: o simboli inconsci, oppure dai contenuti universali. Si potrebbe parlare di una vita data in pegno alla scrittura. Ma dirlo cosí è troppo banale. Piuttosto – e forse questo è uno dei punti-chiave della sua arte, quanto meno il suo effetto complessivo – l’estraneità al mondo, a livello di espressione, è tradotta insieme al mondo. Teodori convoglia sfondi mai indifferenziati né inespressivi, condensa nel medesimo contesto paesaggi e modi di essere, condizioni interiori e nomi, cromie, linguaggi aggettivali, a significare che la lontananza, in realtà, è deposito progressivo, rivestimento e strato delle cose. Strato sinestetico, alchimia di entità miscibili, dove l’interagenza degli elementi eterogenei che vi confluiscono – nell’indistinguibilità tra immaginato e reale – dà luogo a raffigurazioni perfettamente coesistenti.

In Castelli di carta prosa lirica e poesia si alternano, come altrove in Teodori, la cui «vocazione lirica», già rilevata da Giampiero Neri, segna praticamente tutta la sua produzione. Un tratto insistente di questa produzione è il rifarsi a un tu che muta di ruolo di opera in opera. Ma con chi dialoga Teodori? In generale, nello scambio delle due persone testuali, il tu tende ad espropriare le incombenze e le competenze di un soggetto che appare estraniarsi: ma non dal pretendere qualcosa oltre l’insensatezza. Quindi, in questa consapevolezza della richiesta-inchiesta, il tu non giunge ad espropriare l’autorità dell’io. Nella consuetudine del tu difficilmente Teodori si riferisce a una persona specifica, né si rivolge al lettore. Il suo è un tu impersonale, universale, come spesso in Montale. A volte le funzioni della seconda persona si sovrappongono, altre si contaminano. In Castelli di carta il tu allocutivo è inconcreto («quando ti vidi lungo le pareti del tempo»), piú nebuloso emblema di un senso ascritto all’esistere che l’esito di esigenze dialogiche. Sa l’ordine delle cose (poi in Mondo immaginario: «vorrei sentire da te parole che lambiscano il significato ultimo di ogni cosa, e soprattutto di noi»; «rendi trasparente il mormorío dell’eterno che si affida a te»), conosce la negatività storica. Ostenta estraneità all’umano, benché i titoli delle due sezioni – Il soffio delle tue labbra e Per sempre, piú lirica la seconda, dove il tu si dirada – lascerebbero pensare il contrario. L’autore reclama indizi di una contingenza e di una eventualità soteriche da comparare sia alla negatività della storia sia alla solitudine individuale, come successivamente in Mondo immaginario, o precedentemente in Per non apparire: «Colloquiare con la propria anima, e farne un rifugio, dove ritrovarsi, per non apparire».

Nella parte conclusiva della prima sezione di Castelli di carta il tu assume un profilo diverso, diviene intermediario, mediatore. Si assimila alla figura angelica, la quale, se è volta ad esorcizzare lo scollamento tra l’umano e il divino, amplifica il divario tra le due persone testuali: «Tu sei tu, io non posso che aggiungere il mio vacuo vuoto». Nel tradizionale visiting angel lo spirito celeste visita gli uomini indicando loro la soglia del trascendente, per lo meno «la soglia del tempo». L’angelo di Teodori, «celeste-umana presenza», diverge da quello montaliano perché svincolato da circostanze biografiche e da precise identificazioni. In questo senso, Teodori rivisita la cospicua angeologia poetica in modo originale. L’essere angelicale ci fa strada nell’andare verso l’estraneazione totale, verso quello schermo di esclusione che si staglia contro il nostro desiderio di infinito.

I nomi delle interlocutrici sono puramente in pectore, al limite espressi da qualche senhal piú o meno criptico e piú o meno decifrabile. La sopravvivenza di ogni tu è – almeno – memoriale. Nella contingenza locutoria la donna è sideralmente distante, ad incrementare la dimensione della solitudine («tu vivrai ed io non vivrò»). Per schivare la negatività dell’ora la figura femminile deve dismettere i propri lineamenti mondani e mostrarsi nella sua inafferrabilità e indefinizione, figura angelica con proprietà soteriche: ma la salvezza sembra concepibile solo come allontanamento dal mondo. Ecco allora il nesso che unisce, in questo autore, la propensione al tu e la sua tendenza all’isolamento. Talora le figure di donna sono maggiormente caratterizzate, e hanno un posto nel tempo («tu ed io seduti al bar») e facoltà liberatorie. Tuttavia, nell’interferenza della persona del poeta, del soggetto lirico e della seconda persona si consuma il paradigma colloquiale. Gli interlocutori sono assenti, persi nella storia o nel passato dell’esperienza, o nell’ombra di una arte sognata. I dialoghi sono sommersi nella evocazione memoriale: «Di te ora resta quel tempo»; «Eri tu e il mare [...], a contemplare quel paesaggio favoloso di un giorno qualsiasi» (Mondo immaginario).

La forma allocutiva in Teodori è anche – inevitabilmente – un multiforme e mutevole alter ego. E questa indole dialogante è l’inverso esatto di un nichilismo che annienti l’uomo e il suo essere individuale. L’attitudine dialogante mette il soggetto in condizioni, se non di spiegarsi con la scrittura, di vivere ed interpretare attraverso l’altro: «la vita ha in sé il segno del tuo sguardo»; «qualche parte di te è in contatto con il sovrannaturale». E in questo punto di Per non apparire un tu caratterizzato ha un nome: «Elegia». E tuttavia, in Sogni di una nuvola «Elegia» era il nome della protagonista di una favola, quindi ciò che resta è «la realtà di un sogno»: occupare l’orizzonte tra l’essere e il sogno di un’altra esistenza. Ma con la speranza «che nessuno possa varcare / il limite che definisca la realtà dal sogno, / e in ogni dove tale segno possa essere / riconoscimento per chi, continuamente, / vaga senza pace nel proprio animo». Se spesso la poesia riveste una inconsapevole funzione morale, non sempre essere e dover essere parlano all’unisono.

Recensione
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