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Moving Life
Avvicinamento a Natura morta di Paolo Ruffilli
per
V. M. B., forever
Una ricognizione previa. Per Paolo Ruffilli poesia non è rispecchiamento
della realtà, semplice mimesi, magari schizomorfa immagine del mondo. È
rifondazione e riorganizzazione del tempo in cui il vissuto si struttura e si
dispiega. E ricostruzione dei processi semantici. In questi termini potrebbe
apparire una riproposizione della poetica novissima, o forse di quella,
oggettiva e oggettuale, della linea lombarda (il che, per altro, entrerebbe in
conflitto con la settecentesca dolceamara cantabilità di Ruffilli). Siamo di
fronte invece a un tertium datur, alla terza ipotesi esclusa dalla
filosofia. Qualcosa può, insieme, essere e non essere, porsi al di là dello
stesso principio di non contraddizione. Come nella ontologia quantistica o nella
logique des ensembles flous, una logica sfumata, per cui tra vero e
falso, reale e irreale, non c’è netta esclusione, bensí una gamma indefinita e
potenzialmente illimitata di sfumature e gradazioni.
Ricreare per verba, quindi. Una delle difficoltà a riguardo è lo
scontro con le leggi della logica, ma non a vantaggio di una radicalità
extralogica. Diciamo allora: ricreare per verba una omologia di opposti
in assenza di connessione logica, a partire dalla contraddizione che riflette e
traduce quell’elemento certo che è l’incoerenza delle cose, il solo orizzonte in
cui le cose del mondo si rivelano. Anche la poesia è antilogica, ma spessissimo
è alogica, cioè, inevitabilmente, analogica. La rappresentabilità del mondo
passa per l’opposizione, che a sua volta si basa sulla complementarietà con una
implicita controparte e sui tratti contestuali delle cose. Oltre il dominio di
questioni reciprocamente irriducibili, come nelle filosofie orientali, Ruffilli
si muove nel campo di una unità dinamica, nella convergenza di fattori
divergenti. Rimettendosi alla necessità dell’antitesi – tratto saliente del suo
versificare, nella collocazione simmetrica degli elementi in contrasto –, o
dell’antifrasi, come tempestivamente rilevava Roland Barthes.
Contestualità delle cose, acquisizione di senso nella prossimità
incongruente, intersettorialità: i vari gradi e le forme dell’essere (inanimate,
animate, parti di noi, e noi, privati di ogni sublimità) non vanno inquadrati
settorialmente. In linea con tale premessa, Le cose del mondo (Mondadori,
«Lo Specchio», 2020, nota di Maurizio Cucchi) si presenta come un composto,
l’attuazione di un progetto unificante. Dopo l’eclissi del soggetto poetante in
Natura morta (2012), con Le cose del mondo rientrano, senza mai
declamarsi, il locutore e la sua dimensione personale, che tuttavia tornano a
sgretolarsi già dalla terza sezione dell’opera («La notte bianca», da Jurij
Živago: «la notte bianca che tante cose ha
rivelato», trad. dello stesso Ruffilli) per la qualità plurale degli assunti e
l’incalzare di un destino unanime, cui meglio si attaglia un anonimato che
enfatizzi l’aura contemplativa, la condizione riflessiva della poesia.
Nel viaggio attraverso la propria scrittura Ruffilli configura un arduo
amalgama di anni, temi, stilemi. Configura l’interna coesione dell’opera nella
trasposizione del discordante in simultaneità.
Come uno è il corpo qui diviso in
sottosistemi che rinviano a una totalità complessa. È da notare un
distanziamento dalle seduzioni della memoria, cosí come l’azzeramento di ogni
residua descrizione di atmosfere in dissolvenza, salvo in alcuni punti della
prima sezione. La destinazione del viaggio è arrivare a designare le cose del
mondo, e farlo senza temere stridenze e disfemismi. «In poesia le sillabe fanno
l’amore», fu detto. E in Affari di cuore (2011) l’amore è sí
coinvolgimento, nodo che avvince, forse destino. Ma anche insidia, sviamento,
sindrome amorosa, souffrance. Un sentimento di cui non vengono
risparmiati gli aspetti piú scabri, come, appunto, nella poesia di Ruffilli in
generale.
Ma questo viaggio non disegna una deriva, non è senza nostos. Là dove
esso termina, e cioè nel ritorno a casa, inizia il viaggio di scrittura.
Tuttavia, dire scrittura riferito a Ruffilli può sembrare elusivo e
riduttivo. Sono esclusi dal suo orizzonte proclami di autoterapia o di
autobiografia: non si tratta qui di mettere in sillabe i nostri silenzi, né di
constatare e contrastare la nostra finitezza affidandoci a lettori a venire.
Anche alla domanda ultima, sulla morte, risponderebbe che è un incontro con la
domanda sul recondito senso o sulla insensatezza della vita. Esclusa anche
l’urgenza di uno schermo, scrivere per Ruffilli è qualcosa di piú esigente,
selettivo, impegnativo. È misurarsi con la realtà – mai assunta come patria
lontana – per intercettare quelle «parole sciolte via dal laccio / che le lega
nel piú profondo strette, / assetate sempre di libertà e di arbitrio». Scrivere
è nominare, cioè «riplasmare in lettere una essenza». E alla radice del nominare
si situa l’immaginare metodico, che in accezione ruffilliana abolisce la
distanza dalla vita e dalla realtà, dirada le forme di dogmatismo e punta al
quintessenziale: nel suo esito precipuo, il fingere, il dare forma a verità
altrimenti inintelligibili. L’immaginazione quale fonte di intelligibilità è il
criterio di base, se disatteso le cose non oltrepasserebbero lo stadio
intrasparente e stratiforme del quasi-essere, che in una gerarchia di gradi di
essere costituisce qualcosa di impensabile tanto quanto il non-essere.
Un gruppo di motivi tipicamente ruffilliani figura nella prima sezione,
«Nell’atto di partire», combinati con il paradigma del viaggio. «L’imprevisto
che è legato al moto»; il movimento che relativizza e inverte ogni prospettiva;
la necessità di «perdersi / per potersi davvero ritrovare»; le sembianze
intraviste, «ombre che fuggono di scena»; la fortuità-necessità,
proustianamente, di un incontro: ma che poteva solo essere; il motivo già
leopardiano e pascoliano «che piú si va e meno si trova / e non si arriva da
nessuna parte»; la vita come «inseguimento di se stessi»; gli effetti della
distanza; l’asintotico senso delle cose, «perduto prima / di averlo
conquistato». E lo squallore delle stanze di albergo, l’odore stantio dei
corridoi per accedervi, «nel cono di polvere / che sale con la luce nebulosa»,
la stessa stazione quale luogo di assenza di tensioni proprio nel suo essere
l’acme delle tensioni rivestono quasi una funzione correlativa: la vita è un
«moto inerte», a conti fatti è sradicamento, solitudine, estraneità. Benché
«tutti quanti insieme in corsa», come in treno. Oppure, come Virgilio morente:
«ciascuno è circondato da una foresta di voci, ciascuno vi cammina smarrito per
tutta la vita, cammina e cammina e tuttavia è immobile nell’impenetrabilità
della selva delle voci» (Hermann Broch, La morte di Virgilio, 1945, nella
traduzione di Aurelio Ciacchi).
Nel lungo lavoro di Ruffilli Le cose del mondo profilano una
prospettiva lustrale. Disperse le scorie adulteranti e inarmoniche, i titoli
intermedi non piú significanti, i passaggi non obbligati, l’opera – l’autore
dice – vuole essere «unitaria, come costruzione poematica, ed è l’esito di una
lunga elaborazione, di un lavoro piú che quarantennale». Dove rileviamo un
progressivo illimpidimento del lessico e dei fatti di stile, insieme a una
crescente complessità dei contenuti del pensiero fingente. Tra i lati costanti
della sua ispirazione c’è l’assunzione delle cose del mondo – e l’umano con esse
– nei loro differenti livelli di esistenza: dalla dimensione oggettuale
costitutivamente irridente verso l’umano e il suo decadere, al materiale
empirico, alla morale per la figlia, a un consuntivo sulla vita e al conto
aperto con essa, alla nominazione della autorità del corpo – senza che alcun
misticismo del corpo o allusioni al soma-sema interferiscano. L’ultima
sezione, pur incrementandosi con interrogativi-asserzioni, e in ultima istanza
con il senso stesso dell’interrogare, sigla la piú che consolidata visione
dell’essere, della vita e dell’arte verbale di Ruffilli consegnataci con
Natura morta.
Non sfugge il paradigma del riuso di sé – riscrivere, riscriversi –, la
riproposizione dislocata di brani poetici antecedenti. Qual è la ragione di
quell’emblematico indice che è la replica? Che qui si definisce come ripresa,
cioè un prendere di nuovo, un nuovo inizio, e quindi anche un nuovo sguardo,
dopo una sosta. Ruffilli sembra anzitutto mobilitare il lettore all’altezza di
correlare il già scritto a nuovi contesti. La ripetizione – la «compagna amata
di cui non ci si stanca mai», come Kierkegaard la definiva – allontana lo
spettro della staticità ed imita il dinamismo temporale dell’esistente, che nel
suo divenire altro porta con sé tracce di anteriore. E il dinamismo è un
elemento-chiave di una poetica difficile perché fondata sulla metamorfosi. Se la
metamorfosi è la regola del mondo, in poesia dà luogo a nuovi nessi e a
improvvise disgiunzioni: «È proprio andando che si capisce / qual è il
rovesciamento di ogni prospettiva». Il che dà la misura della inesaustività
della ricerca di Ruffilli.
Con il nome ripetuto si tende a qualcosa, e questo qualcosa costituisce la
base per una nuova ripetizione. Purché non ci si attenga letteralmente alla
retorica, per cui la ripresa di un nome o di frasi mira al consolidamento di un
concetto. Anche per la circostanza che quel concetto, distolto da quel tempo e
installatosi in un altro assetto, ora non c’è piú. È chiaro che in Ruffilli il
modello retorico non è vincolante. Ciò che ritestualizzando si intende
intensificare è forse un particolare dato di esperienza, qualcosa che non è
andato definitivamente smarrito per avere piú di altro inciso in una maniera di
essere. Ma Ruffilli guarda sempre in avanti (non è un caso che l’opera inizi con
l’immagine, letterale ed emblematica, del treno, guardando dal finestrino:
«Scoprendo che la vita ci precede / nel mentre stesso che rimane indietro»). E
sul senso della Gjentagelsen l’appena richiamato Kierkegaard diceva: «ripetizione
è un termine risolutivo per ciò che fu ‛reminiscenza’ presso i Greci», per i
quali conoscere è ricordare. Fu Leibniz, secondo Kierkegaard, a focalizzare il
discrimine tra ricordo e un diverso rapporto con il tempo: l’intera esistenza è
una ripetizione, un ricordare seguitando. Diversamente Montale: «Altrocomfortfa
per noi ora, altro / sconforto». Mentre in Ruffilli il ricordo si
svincola da legami e contingenze temporali, si differisce e si rinnova, si
rimette al corrente con il tempo. Søren Kierkegaard, La ripetizione. Un
esperimento filosofico (1843): «Ripetizione e ricordo sono lo stesso
movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo infatti è stato,
viene ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta ricorda
il suo oggetto in avanti. Per questo la ripetizione, qualora sia possibile,
rende felici, mentre il ricordo rende infelici» (come traduce Dario Borso).
E Ruffilli: «Nella felicità ci sfiora il tempo / senza lasciare tracce vere /
e poi il ricordo, per quanto faccia, / non è capace di far rivivere il piacere».
Può esserci allora una felicità meno labile, o diversamente labile, magari nella
scrittura? Nel reperimento dell’adeguato nome? Cioè l’integrale sintesi di
contenente e contenuto, di incorporante e incorporato? Negli Appunti per una
ipotesi di poetica (che seguono Natura morta) affermava di non
guardare nostalgicamente al tempo irreversibile, il che comporterebbe vivere un
presente imbrigliato in ciò che è stato. Per lui, se da un lato non ha senso la
nostalgia per ciò che con la metamorfosi costantemente si ricrea, non c’è cosa
destinata all’estinzione (e questo è sempre stato uno dei suoi assunti piú
alti), dall’altro lato mostra di concepire la nostalgia come un sentimento
dispersivo, che talora si combina con la voluptas del tempus edax
e della caducità. Quello dello spostamento in avanti è un tratto nodale della
sua ricerca, e quando il nome riesce a circoscrivere l’informe sfuggente, a
stringere la cosa, se non di felicità, si può almeno parlare di felicità
linguistica per il conseguimento del suo obiettivo supremo: scongiurare la landa
poetica, fin dai lontani anni Settanta. Insisto sul motivo dello spostamento in
avanti anche perché spesso la ripetizione chiama e chiede una verifica. Inoltre,
l’iterazione legata al dinamismo è il contrario del ricordo che sbarra le vie di
fuga e inibisce la durevolezza delle cose del mondo e, di conseguenza, spegne
ogni nostra speranza. Cosí Ruffilli: «L’enigma si disvela nel linguaggio: / le
cose vive hanno radici lunghe / che pescano sempre nelle cose morte. / Ciò che
rinasce puro si trasforma, prolungandosi, nella speranza del futuro». E il
futuro è l’àmbito dell’agire, un passaggio quindi, non una meta.
Le sezioni «Il nome della cosa» e «Atlante anatomico», oltre il loro
posizionamento strategico prima dell’affondo finale, se condividono l’idea del
catalogo, almeno per un verso ne divergono radicalmente: le cose non sensibili
ci sopravvivranno. I nostri organi sono deperibili, mentre le cose hanno i
requisiti per resistere al disfacimento. La loro dissoluzione ha tempi
lunghissimi, e nessuno se ne avvede. Ma Ruffilli tende ad oltrepassare la
mistificazione insita nell’evidenza, quindi suo obiettivo in entrambe le sezioni
resta la tensione nominante: volta ad arrestare – senza la certezza di averlo
sequestrato o nitidamente identificato, giacché il divenire è anche il fato del
nome, come la modalità dell’iterare suggerisce – quell’istante, lo stabile nel
fluttuante, quel rapporto essenziale affrancato dal qui ed ora, tra le diverse
proprietà della cosa (abbiamo frequenti incipit in elencazione ellittica,
in particolare nella sezione «La notte bianca»: sono prove di nominazione? Di
ricostruzione di processi, come dicevo all’inizio?) ben sapendo che quel quid
può per lo piú godere di una decisa pronuncia unicamente attimale, per poi
impallidire, regredire al rango di accenno, di allusione, avvisaglia, tornare
fuori campo ed essere ingoiato dall’indifferenziato fondo della realtà.
Quanto al catalogo delle parti anatomiche, il nominare incontra la difficoltà
di superare la dualità degli «stranieri opposti maschile e femminile». Anche le
parti del corpo vogliono essere rianimate attraverso parole scritte che le
ravvivino strappandole al vuoto, cioè all’ancora senza contenuto. Le parole, se
profondamente incise, se fondanti una sinergia tra tempo e spazio, costituiscono
un frammento di mondo, un àmbito contratto, evocano una densità spaziale che
dilata i nostri sensi e lambisce le questioni ultime.
Nel nominare «È la ragione che si fa linguaggio / volto a spiegare perfino il
sentimento». Ma il nome rende fedelmente l’originale che designa? O non può non
adulterarlo? Il solito dualismo: un conto è viaggiare, un altro è scrivere il
viaggio. Qualora non si attinga alla «visionaria immaginosa verità» di una
parola che abbia incorporato le differenze di cui si compongono le cose. Che
abbia sorpreso il loro rapporto omologico. Questo climax sulla
nominabilità come plasmabilità di una essenza culmina nell’ultima sezione
dell’opera, «Lingua di fuoco»: qui la parola scritta «emerge su dal fondo», «di
colpo cessa di essere in procinto», «esonda», dà «corpo all’ombra», «forma al
fantasma». La parola scritta coglie qualcosa di sopradialettico, e restituisce
«forma contorni e consistenza» al retroscena del visibile.
Da qualsiasi lato lo si prenda, il metodo di Ruffilli comporta uno scatto in
avanti: rimette continuamente in gioco i termini della sua ricerca, riprende
nodi in forma di parole che si sciolgono nel corso del tempo e in corso d’opera,
sicché ogni clausola non sarà mai, letteralmente, conclusiva. Come, per rubare
una metafora alla musica (territorio ruffilliano di elezione), in una perpetua
cadenza d’inganno, oppure in una wagneriana melodia infinita, in cui l’udito e
l’anima, delusi dalla mancata quiete dell’obbligato ritorno alla tonica, della
costante convergenza verso il centro di gravità dello spazio sonoro, sono ogni
volta ridestati dalle nuove evoluzioni, dai sempre risorgenti arabeschi della
melodia e dell’armonia.
Riferimenti
La quercia
delle gazze,
Forum, Forlí 1972, Prefazione di Filippo Maria Pontani (seconda
edizione, 1974 con Prefazione di Giorgio Bárberi Squarotti).
Quattro
quarti di luna,
prefazione di Andrea Brigliadori (Dalla poesia alla parola: indicazioni per
una lettura di Paolo Ruffilli), Forum, Forlí 1973.
Notizie
dalle Esperidi
(con Presentazione di Silvio Ramat), Forum 1976.
Piccola
colazione,
prefazione di Giuseppe Pontiggia (Romanzo di formazione in versi),
Garzanti, Milano 1987.
Diario di
Normandia,
Amadeus, Montebelluna 1990.
Camera
oscura,
postfazione di Giovanni Raboni (Reperto del dolore), Garzanti, Milano
1992.
La gioia e
il lutto,
Prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, Marsilio, Venezia 2001.
Le stanze
del cielo,
prefazione di Alfredo Giuliani (Pensiero e immaginazione), Marsilio,
Venezia 2008.
Un’altra
vita,
Fazi, Roma 2010.
L’isola e
il sogno,
Fazi, Roma 2011.
Affari di
cuore,
Einaudi, Torino 2011.
Natura
morta. Aforismi e frammenti da una Cosmogonia ritrovata con
un Piccolo inventario delle cose notevoli e Appunti per una ipotesi
di poetica, Aragno, Torino 2012.
Variazioni sul tema, Aragno, Torino 2014.
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Materiale |
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