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Anticlimax
Anticlimax:
il titolo suggerisce già il “sottotono” di questa raccolta, vale a dire
l’atmosfera di demitizzazione e di dissacrazione che avvolge queste pagine,
antitetica alla tensione ascendente del climax, appunto. Eroi del
passato, personaggi illustri, assoluti del pensiero vengono spogliati di ogni
inespugnabile rivestimento elegiaco. Ad esempio, la figura mitica di Enea viene
proiettata in tutta la sua ‘scabrosa’ debolezza umana, la cui presunta libertà
non è che inganno e illusione nell’oppressione della sorte: “Solo nelle tempeste
/ preannunciate dal silenzio dei gabbiani, / nell’assillo dei pensieri notturni
che s’illudono / di vagliare le sorti, credette di essere / libero di scegliere
il rito / dei gesti, corpo evirato dal logos / che erige un ardore fittizio,
finché una spelonca / lo accoglie al riparo dai / rovesci di pioggia lanciati a
sigillo / dell’edera, del muschio, di estranei voleri. / Persino nell’unico
libero atto, / un’incerta vendetta, assolve / ad un gelido ufficio di schiavo
del cielo.” (Enea). Eppure questo disincanto che permea i testi prende
forma attraverso un linguaggio aulico e impregnato di lirismo: “La flotta di
nubi veleggia / in eterni commiati, / e la supplice resa di Turno è l’invitta
energia / stupita di dover soccombere / a una forza più dura sospinta da teneri
/ affetti e crudeli ragioni, / intangibile a inganni e preghiere, / una forza
che attende / a sua volta un’amara disfatta.” (Turno).
L’ispirazione
sotterranea di Luca Canali sembra essere “un’allegra disperazione”, come è
intitolata una sezione, come quando ardisce contemplare la morte nella sua
desolata nudità: “La morte / non conosce grandezza se non nella sua solitudine,
/ e accade che priva di senso e di nome / diradi con sacra / pietà la frequenza
affannosa / di sistole e diastole e le arresti / in un blocco che inchioda alla
croce / di pietra miliare un pilota / uscito di pista in collaudi / visionari su
umani orizzonti. /” Sembra esservi una contrapposizione tra la realtà, nella sua
tragica banalità, e l’ideale che ostinatamente l’uomo insegue per trasfigurare
la sua miseria: “Ma il mito risorge ostinato.” Così l’età d’oro dell’infanzia,
la sua mitica stagione d’innocenza e incantesimo di sogno contrastano con
l’amaro cinismo e disillusione della condizione adulta, pur permanendone il
nostalgico ricordo: “Vi assolvo, fraterne canaglie, / in nome della vita, e
inseguo tra le rughe / dei vostri cipigli il sembiante / dei fanciulli che foste
– che fummo – in violenta / innocenza di affetti. / Presumo gli scambi di colpi,
gli esosi / commerci, i meccani / di amori e progetti franati sul succo / del
pancreas, sull’azzurro di còrnee / mutate in pasticche di zolfo.”
La vena creativa dell’autore deve
sgorgare proprio da tale frattura tra questa sorta di Isola di Arturo,
per citare Elsa Morante, il Paradiso estatico dell’armonia universale e della
beatitudine inconsapevole, e l’inferno tremendo del crollo di tutte le certezze
e dell’inquinamento degli umani rapporti.
Si dissacra il mito per implosione
interna, adottandone la forma, ma sventrandone l’essenza: “Nobile notte dal
materno / grembo, folta matrice di anacoretiche / purezze e di pagane /
lussurie, d’inenarrabili angosce / e quieti iperuranie. Tu patria / dei sogni e
degli insonni / rovelli dello spirito e dei sensi. / Anche morire in te è più
facile / che nel tuo estroso, berciante, / carnevalesco fratello, / il giorno.”
(Alla notte). Lo stesso ostentato cinismo del poeta si rivela come
un’estrema protesta d’innocenza, di chi si avvale dell’ironia per sopravvivere a
ciò che ha perduto e che non cessa di tormentarlo, come appare in questi versi
che indulgono ad una misericordiosa tenerezza e ad un idilliaco vagheggiamento:
“Di santi, oltre al sublime / Francesco, / ho amato solo una / madonna di pietra
con Gesù / bambino al seno, cui ogni / giorno in braccio / a mia madre porgevo /
un fiore.”; “Il senso estremo della vita è nella / parola autentica, nel / fiore
casuale senza nome, / nell’occhio interrogativo del gatto, / nell’effimero lampo
d’intelletto / fra il buio d’una mente ottusa / dal suo irreversibile handicap.”
(Il senso). L’autore attraverso il paradosso getta luce sulla verità
profonda, per cui finisce per trovare il senso nel nonsense.
Vi è una sezione, Le amanti,
dedicata alle figure muliebri che sono davvero anti-mitiche, come statue che
s’impongono come tali, ma che sono soggette all’erosione dello sguardo impietoso
dello scrittore: “Eppure non t’infrangi / esile creatura di / porcellana. /
Forse il punto di forza, il dispositivo / d’allarme è l’antracite / dei tuoi
occhi ancora / capaci d’incanto, persino / di deliquio, ma con / gelo e
disprezzo in serbo.” (Eloisa).
Ugualmente, nella sezione
Personaggi,animali, piante i soggetti vengono denudati dalla corrosiva
diagnosi dell’intellettuale, cui non sfugge mai, per dirla con Montale, “l’anello
che non tiene”: “Nulla è più trasgressivo / e lussurioso e / subdolamente
pugnace / del ragliare a distesa / di un asino in una tarda / mattina di
primavera. / Non le ingiurie né le / percosse lo piegano, / neanche i colpi di
sasso / dello stolto colono. / Contrariamente a quel / che si crede ignora /
l’umiltà. / Non il leone, ma / l’asino è il re degli animali, / assertore
ostinato della sua / verità.”
Luca Canali ha un estro singolare, una
lucidità chiaroveggente che gli consentono di guardare in faccia la realtà,
liberandola dalle incrostazioni mitiche e dalle sovrastrutture idealistiche, con
intuizioni di genio che sorprendono per l’arguta abilità con cui smascherano il
fittizio: “Per la gioia – si fa / per dire – degli occhi / dell’uomo, agonizzano
/ recisi e stretti in un / vimine splendidi fiori. / Evitate / il crimine, / il
mercantile zelo, / lasciateli morire sul loro stelo”; “Immenso è il travaglio
/ del mare, che penso gioisca / nella tempesta, e nella / bonaccia soffrendo /
taccia”; “Di lunedì i volti / si sgrommano del tedio, sono / stati davanti allo
specchio / vuoto della domenica. / E tornano subdolamente / felici alla droga
della routine.”
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Recensione |
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