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Come noi è un canto a più voci, “la voce di chi non ha voce”, vale a dire gli stranieri, i pellegrini che sono di passaggio sulla terra, che è poi la condizione esistenziale di ogni uomo, anche se chi si è arroccato nella propria agiatezza spesso se ne dimentica. L’autore, infatti, affronta un tema scottante e di grande attualità, ponendosi, tuttavia - questa è la forza della sua originalità – dalla parte degli ultimi, calandosi nelle loro vicissitudini drammatiche e non ergendosi quale giudice implacabile di quelli che, spesso, sono considerati nemici, proprio perché sconosciuti.

È anche il divario tra due mondi: quello dei migranti che furono un tempo gli stessi italiani, quando vissero in condizioni difficili e quello dell’“erede” che si trova a godere dei frutti di tante fatiche e sacrifici, senza aver fatto nulla per guadagnarseli: “Io appartengo alla generazione dei posteri, | degli eredi: sono ultimo tra quelli che ora tentano di | rimuovere il ricordo di stagioni antiche in cui dolore | era il distacco, la separazione, lo sradicamento | violento. I nostri nonni e bisnonni partirono così | verso l’ignoto, le mani vuote e l’anima a pezzi, verso | un mondo lontano ed estraneo, ostinandosi a credere | in se stessi, nella loro tenace volontà di aggredire il | passato e di vincerlo.” (L’erede). La migrazione costringe ad un doloroso sradicamento dalle proprie consuetudini e affetti. Così, parla, ad esempio, Haddish: “Tra noi stanno gli immemori | del tempo di croci e di dolori, | svagati nei ricordi | che annientarono i padri. | Si portarono dietro | i vecchi stracci, | le foto del padre, della madre | il pane raffermo per il viaggio.” È uno stato di disagio vinto con tutta la grinta rabbiosa della vita: “Uscirono infine | dalle stamberghe, | dagli umidi catoi | in cui marcivano, | coi denti con gli artigli | mordevano l’acciaio, | la disperata voglia | di vincere il buio della vita | li colse li avvinghiò | li spinse ad osare, | sudando, | a metter tutto in gioco. | E molti vinsero la partita, | uscirono dai tunnel trionfanti, | diventarono uomini. | Come gli altri. | Come noi.” (Yassef). Il migrante si sente uno scarto della società, un déraciné, mentre neanche la terra, avara, sembra riservargli un cantuccio: “Noi | relitti della storia e della vita | accarezziamo sogni | antichi estenuati | nel ricordo dei padri | che a nostra insaputa | ci generarono | in amori furtivi. | Figli | anche noi | dell’avarizia immota | della terra | asciutta d’erbe e di rugiade | dove il sole | è fermo alla sua luce, | generoso | d’ardori e di promesse, avido di possesso.” È con intenso lirismo che l’autore s’immedesima nei sentimenti di questi nomadi, partiti con la segreta speranza di conquistarsi un posto sulla terra, quando, spesso, sono costretti a rubarlo o a restare confinati in qualche landa desolata: “Ora | il ricordo d’altro sole | ci assale | ci possiede, | d’un sole che bruciava nei suoi roghi | la nostra canzone disperata, | gridata senza voce a un cielo muto, | e la pretesa d’esserci | era tormento, affanno. | In un cantuccio breve della vita | marciva l’attesa che un barlume | splendesse anche per noi | e un refolo d’aria | pietoso ci avvolgesse | come acconto | d’una pietà sognata | e mai vissuta.” È dolorosa questa esclusione, per cui ci si sente espulsi dalla terra stessa: “Uomini fuori posto | siamo, | abusivi della terra, | sfrattati dal giorno, | dalla luce, | rimossi come pietre | d’inutili macerie, | ci è negato lo spazio | in cui posare il piede, | la fontana in cui bere, | l’erba da cogliere e mangiare, | il calore del sole in cui scaldarci.” Il deserto, disabitato e privo di ogni forma di vita, è l’immagine più eloquente di questa condizione disumana di estremo abbandono: “Disperato nelle sue solitudini, | fermo | è il deserto | alla sua sete indomita, | alle afe arroganti | che chiudono ai deboli canti | d’antiche litanie | le stracche carovane sulle dune. | La tenacia dei poveri | nei suoi orizzonti | accoglie il deserto, | lo sfida a mani nude, | in inganni di catene | lo traduce.” Nel deserto balugina un “miraggio | d’incerti paradisi”: quello di trovare altrove “un cantuccio di sorrisi.” Ci si sente defraudati di tutto, finanche del domani: “Orfani siamo | di futuro, | esausti di presente, | ci sfugge il dopo e le sue rive | mentre ci incalzano | fantasie di colori | diversi sconosciuti, | altri da noi. | Inseguiamo orizzonti | negati alle ore | lente arroganti | in cui scontiamo | il peccato d’esistere. | Incubi governano | la nostra notte | ora che ci è concesso d’ondeggiare | su mari d’arcobaleni | prodighi d’attese, | forti di miraggi abbaglianti | che mutano in insonnie | i malori ostinati che ci uccidono.” Con profonda introspezione il poeta decifra l’universo interiore di questi poveri che lottano in condizioni di sopravvivenza per garantire il minimo necessario alla propria famiglia nella patria lontana: “Noi non contiamo | le ore lavorate | per un gramo compenso | da spedire a casa. | Siamo soli | e addentiamo un pane | che ci resta in gola. | In questo inferno | di lupi e gabbie disperate | consumiamo i giorni infami | che ci inseguono. | Qui l’uomo | sequestra e uccide l’uomo, | lo fa schiavo e strumento | di profitti infami. | La notte ci attende | un giaciglio comune, | in cataste d’uomini | dormiamo senza sogni | le ore inquiete | che ci assegnano.” Si avverte tutto il peso innominabile di una condizione umanamente insostenibile: “Come una croce | ci pesa addosso | la colpa d’esser vivi | serrati in un suolo | pietroso | crudele | che respinge anche il pudore | di lacrime segrete.” Dall’esterno i migranti appaiono ineluttabilmente come stranieri, la cui dignità e il diritto stesso di esistere sembrano negati: “Passano accanto a noi come ombre, larve stanche | di uomini riempiono le nostre città attraversandole | in lungo e in largo, come chi non sa dove andare. | È il popolo dei silenti, estranei al mondo in cui | il destino li ha scagliati con violenza, un mondo | d’altra lingua, di altre tradizioni, sentimenti e | culture.”

Delicata è questa poesia che accarezza idealmente gli occhi di un bimbo ignaro di tutto il dolore e le privazioni che lo circondano: “Dormi, | dolcissimo esile bimbo, | nel sogno | i tuoi occhi stupiti, | bianchi di domande | inevase | vedranno le rive della luce | dove bagliori | accendono | arabeschi di colori | fantastici ai tuoi giochi | presaghi di futuro… Dormi, | bambino a cui la vita | sottrae girotondi e paradisi | e l’infanzia sconosce | gioie riservate agli innocenti.” Gli esseri più indifesi, come appunto i bambini e anche le donne, sono quelli che pagano il prezzo più alto, quella della loro innocenza violata e calpestata: “Donne sulla strada | siamo, | testimoni di croci | trascinate in silenzio, | di ferite aperte | e piaghe brucianti come soli, | a noi riservate dalla vita. | Oggetti di rifiuto, | donne usa e getta”; “Uomini senza nome, | vampiri avidi di sangue | svuotano l’anima | e da noi riscuotono tangenti, | lasciandoci briciole per vivere.”

Gli stranieri si sentono vittime del sistema e del potere che li sfrutta senza neanche accordar loro il diritto di esistere: “Oh, il potere | è una belva affamata | che ci addenta | nelle fauci ingorde | emargina e rimuove | i derelitti.”; “Siamo criminali inventati, | delinquenti creati dalla legge, | clandestini nella terra di Dio. | Non ci è permesso stampare | l’orma del piede sulla terra, | l’ospedale rifiuta i malati, | la scuola i figli, | l’anagrafe non ha registri | per segnarne il nome. | (…) Siamo pietre lanciate | verso il cielo | destinate a tornare alla terra | per colpirla. | (…) Non abbiamo più | niente. | Il niente. | Il nulla che evoca il nulla. | Siamo.” È drammatico il divario tra la vita dei gaudenti e quella dei miserabili: “La nostra la vita | si beve come un nettare | un assenzio | in cristalli opulenti | (…) Qui la vita | è una barzelletta | da raccontare agli idioti | e tutto è scialo, | balordo gaudente, | e anche l’aria sembra | una gozzoviglia per dementi.” Ben diversa è la sopravvivenza dei diseredati: “Si elevano siepi | e si cinge la terra | di fili con aculei, | si costruiscono | muri e muri e muti | dove s’annidano gli abissi.”

Non a tutti è dato di scrutare gli abissi di dolore in cui naufragano i disperati: “Pochi sanno di solitudini estreme, di anime provate | dallo schianto dell’esclusione, dalla finale caduta del | tu per far posto al trionfo dell’io, della gabbia senza | luce in cui molti sono costretti alla morte senza | morte, alla vita da animali braccati, da uccelli senza | cielo.” L’unico possesso è la speranza tesa verso un Dio lontano che scava nell’anima con la sua nostalgia di Assoluto: “Noi poveri | sappiamo solo alzare | le mani vuote al cielo | sperando che un Dio muto | rompa il suo silenzio | e incroci il suo sguardo col nostro. | Sappiamo che il Dio dei poveri | è fedele | e coltiva | tempi insaputi all’uomo | per vincere il silenzio. | Sperare | è il verbo dei poveri, | disperare è la loro cifra, | unico verbo | che sappiamo declinare | accarezzando il domani | con mani nude | e perse nella notte.” Il silenzio di Dio pesa come un macigno: “Duro | come il basalto il tuo silenzio, | Signore, | ci stringe in una morsa, | restio a spezzarsi come acciaio.” La preghiera è un grido strozzato che sale da un abisso di miseria: “E ora t’imploriamo, | Signore, | vinci | il tuo muto sottrarti | alla domanda | al vacuo invocare | di file interminate di silenti. | Vinci il tuo silenzio, | parla una lingua | di segni | di parole | di sussurri | da affidare alle dune roventi | delle ore | dove consumo | l’illusione ostinata | d’annoverarmi ancora | tra gli umani.” S’insinua, provocatoria, una domanda che è una protesta, di fronte a tanta sperequazione di condizione di quegli uomini che, davanti a Dio, sono tutti uguali e dovrebbero riconoscersi fratelli: “Chi ha stabilito il mio e il tuo sulla terra? | Chi, per primo ha tracciato un solco, un confine, | piantato un paletto? | (…) A chi appartiene | la terra che ci arpiona, | la terra gretta | avara di lusinghe e di promesse? | E quella sontuosa di colori, | vivida di sapori, | la terra stupenda | delle albe | dei tramonti | delle luci | dei fiori e delle erbe? | Per chi l’hai fatta | Signore, | a chi l’hai destinata | se noi siamo respinti, | rimossi ripudiati | in assedi infiniti di dolore? | Chi ha rubato | la tua terra, | chi ha sequestrato i suoi fulgori, | rapinato i suoi soli e i suoi mattini, | i suoi cieli gremiti | di stelle e di pianeti? | Abbiamo confiscato la terra, | ne abbiamo occupato gli angoli | i cantucci | le rupi le forre | i laghi i mari le isole solatie.”

Il mare, in cui si è consumata la tragedia di tanti derelitti, appare come l’unico grembo accogliente, di fronte al rifiuto e all’ostilità della terra: “Uomini come rifiuti il mare | ha accolto nei suoi flutti a migliaia; più pietoso degli | uomini, ha offerto un abbraccio ai derelitti, ne ospita | ora e per sempre i corpi, in esanimi schiere | d’innocenti”; “Cimitero | senza croci e fiori | è il mare, | dove si scioglie | nei secoli | il timbro dell’umano, | e sangue carne ossa | si disfanno.” Di intenso lirismo e di profonda commozione è questa elegia che s’innalza per i dispersi nel mare, personalizzata dagli accenti pieni di pathos di una madre che consegna idealmente il suo figlio all’abbraccio delle acque, come ad un’altra madre pietosa, nell’impotenza struggente del suo amore: “E ora dormi | dalle onde lasciati cullare | nella tomba d’acqua | dove giaci, | figlio, | e dove sei sprofondato senza avviso. | Ora sul volto glabro | di colomba | si piegano le alghe | e attorno ti cingono | le dita rosse dei coralli | mentre danzano pesci | felici nei loro arcobaleni. | Il mare è una distesa | dove s’attardano | folle di morti | a gremire di sembianze e di voci | i silenzi. | (…) Sciogli | nei cobalti del mare che t’accoglie, | figlio, | le tue fragili membra di farfalla | esposte al fruscìo pietoso delle onde, | lasciandoti cullare | dalle correnti che ti danzano | attorno come a una festa. | E quando il buio si fa intenso | negli abissi, | lugubre ostile, | pensa a un presagio | che annuncia | un ritorno inatteso | d’aurore. | È antifona il buio | della luce, | sentinella che annuncia | la certezza del giorno. | Dimentica, | figlio, | le intemperie | del giorno della notte, | il sole che di giorno | con le sue spade | ti piagava la pelle, | la notte col suo gelo | che t’inchiodava | a una croce pesante | di tremori. | Dimentica, | figlio, | il rantolo dei morti nel gommone | dal mare accolti | senza campane e turiboli | e salmodianti litanie | di preghiere e di memorie.” Su tanta desolazione si squarcia uno spiraglio di speranza attraverso la visione beatifica del Regno dei Cieli, l’unico che li accolga a braccia aperte, dove la condizione terrena si ribalterà completamente, secondo le beatitudini evangeliche e la giustizia divina: “cantano a gola aperta | come usignoli liberi e felici | il trionfo dei cieli | gremiti di molti paradisi, | (…) Venite, | voi che avete atteso invano | aurore di luci e di magie… | Venite | ora | venite… | E ricevete | il regno per voi preparato | da sempre… | Venite… | e siate i benedetti… | perché | avevo fame… | e mi avete sfamato, | sete… | e mi avete dissetato, | ero nudo | e mi avete dato un vestito, | ero malato | e siete venuto a visitarmi, | ero carcerato | e siete venuti a trovarmi… | ero… forestiero | e mi avete ospitato… | mi avete ospitato…”

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