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Come un piccolo sogno

Questa raccolta è un grazioso ritratto autobiografico declinato in fiaba, prosa e poesia e trasfigurato da un’aura d’idealizzazione nelle atmosfere idilliache e nella sublimità del lirismo. Così, a partire da pretesti apparentemente futili, come oggetti preziosi depositari dei ricordi, ninnoli in vetrina che si animano come presenze viventi e abitano lo spazio dilatato del tempo (“il tempo è una durata” non a caso affermava Bergson), prendono corpo delicate rêveries che hanno l’ambizione di ricucire la trama sfilacciata della memoria.

Allora, nella sezione della narrativa si rivive il dramma dell’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966, ove riaffiora il trauma di una bambina che ha dovuto abbandonare la propria casa, perdendo le cose più care, come la bambola e i libri, dinanzi alla furia impietosa delle acque livide e minacciose: “Mi siedo in silenzio e guardo salire l’acqua, lenta, inesorabile, ore e ore, senza che Lei si fermi, ascolti o abbia pena di un fiore, di un giocattolo, del vestito della domenica, senza restituirmi il mio diario, inghiottito nel nulla, e i gioielli delle bambole, un piccolo tesoro di luce, troppo prezioso per tenerlo in mano, un piccolo tesoro da riporre nello scrigno. Non c’è più niente, ore ed ore a spiare le altre finestre, e la disperazione come un’onda scura ci guarda muta, quasi in attesa. (…) Siamo tutti feriti: la casa è perduta, le acque cattive la sorvegliano e la tengono lontana, dolce pensiero che mi prendi piano e fai scorrere rivoli leggeri sulle guance rosse di gelo e di paura. (…)

L’acqua ha lasciato, andandosene via lenta, un fiume scuro di fango e di rifiuti, l’acqua ha rubato, andandosene via, il mondo dei bambini dove sostavo ancora e un piccolo tesoro nello scrigno che luccica lontano, senza più padrona.” O ancora è il mito de La casa dei mattoni rossi che resta intatto, nonostante le intemperie delle dolorose vicissitudini trascorse, come un avamposto della memoria, un baluardo dell’età d’oro dell’infanzia, una stagione perenne cristallizzata dall’affezione struggente per ciò che è più caro: “Le ore sono collane di perle che il mare ha custodito come un tesoro, stai aspettando questo momento da anni, ricordi? (…) I colori si parlano e ridono fra sé: quanti passi, quante voci sulle scale! (…) Dentro la vetrina i cigni nuotano tranquilli nello specchio: sono così flessuosi, respirano leggeri, immersi in un bagliore bianco.” In Lettera immaginaria, rivolta alla sorella scomparsa prematuramente, mai conosciuta, si proietta la propria sofferenza di un mondo da lei particolarmente amato ormai ineluttabilmente perduto - che può visitare soltanto in sogno -, verso un’interlocutrice a lei familiare e complice, benché invisibile, ma forse appunto per questo maggiormente capace di comprendere (“l’essenziale è invisibile agli occhi”, come è espresso nella citazione di Antoine De Saint – Exupéry posta ad epigrafe dei testi): “La mia vita è questa, non posso più cambiarla, in realtà forse non lo voglio neppure; la donna determinata che vedresti ora svolge i suoi compiti con estrema chiarezza. Ma la memoria no.

La memoria è altrove, non si posa sui tasti lucidi del computer, la memoria è un brivido lento e tenace, che mi percorre, quando le sentinelle della conoscenza non si sono schierate in mia difesa, e fa scorrere lungo le guance rivoli leggeri, che subito asciugo con la mano, in un gesto tenero, come è dolce l’istinto che lo provoca. Siamo così lontane, viviamo due realtà diverse, eppure questo filo così sottile che ci unisce è più forte della distanza, più potente della tempesta, e quando il sapore struggente dell’autunno riveste la mia città di colori ardenti, pensami ancora come una bimba ignara, felice con i suoi vestiti di cartone per le bambole, e chiamami subito. Io ti dirò, anche se non sarà vero, che sono tornata a casa, perché la casa mi aspetta, conosce i miei silenzi e le mie inquietudini, respira con me e cura il mio dolore, senza chiedermi niente, finalmente in pace.” Infine è il sapore gustoso di un piatto gradito, Gli gnudi, specialità prettamente toscana, a far riemergere un mondo sommerso ma ancora inalterato, custodito gelosamente negli scrigni della memoria, il Paradiso dell’infanzia della “Casa delle Tate”: “Un giorno qualsiasi dell’anno il tempo si ferma ad assaporare le ore e il ricordo affiora: antico e struggente. Sapori, odori, le chiacchere sommesse, ogni cosa è intatta come un mistero svelato, mentre un pugno di ore sorridono tra pieghe segrete.”

Le poesie sono improntate ad una notevole levità e raffinatezza di immagini, in una celebrazione elegiaca: “C’è una strada di curve e saliscendi, / età smarrite si strusciano alle case. / Quattro fiori e un portone. / Quattro fiori da scrivere leggeri, si aprono / di notte, criniere sogno, levità di steli. / Si ferma il tempo dietro le lancette, / annoda pane e lacrime. Cespugli, i silenzi. / Un portone, una scala che sale serpentina, / occhieggia lucido l’ottone, specchio di vele. / Hanno pupille i respiri, camminano nei guadi / con cipiglio struggente, si cibano di rose / e foglie d’edera. Migrano assorti. Sono soli. / C’è una strada di rughe e fichi d’india, / cortile incapricciato in tenerezza d’ombra.” (Firmamento di luci). Il sogno, che dà il titolo all’opera, è la dimensione privilegiata ove aleggia la poesia: “Le scale mi seducono lo sguardo / di un sogno giovane, danza trasparente. / Recinto zaffiro i sospiri. / Scende leggera quella pioggia tenera, / miracolo del vento. / (…) D’un sogno giovane mi sorprende il passo.” (Sogno giovane). Un lirismo soffuso e delicato permea questi versi: “Ho nelle tasche spiccioli di ore, / un passo viola mi respira il tempo” (Pagine di viole); “C’è una trama di volo, turchese, / sveglia iridi intatte, lampi di seta / ammiccano il silenzio. / Sarà il libro dei sogni a circuire / parole incanto, fragili tra le dita.” (La casa dei mattoni rossi).

Struggente è questa lirica dedicata al padre defunto - (Medaglia d’oro al Formica Nera, Padova, 2000) -, che incalza con un incipit solenne e un climax ascendente di sublimità della parola e dell’immagine che evocano lo strazio e il lutto inestinguibile della perdita: “Copre la terra / il tuo sorriso stanco / nell’ora che spalanca / alla ragione, / abissi mai sopiti / di memorie / uccise e ricomposte / dentro il petto. / Ti vedo in trasparenza / come in volo, padre / che pretendevi la mia mano, / mano ribelle / di femmina guerriera. / Copre la terra / il tuo respiro chiaro / che ingoia la bestemmia / dentro un fiore, / smarrito nell’abbraccio / del perdono. / La zolla è riarsa, / livida la carne / che porge in morte / il dono e si riposa.” (Copre la terra). Ugualmente intrisa di languore sentimentale è questa dedica alla madre, Crepuscolo di ciglia: “Era tempo d’attese, stagioni violate / e dolci affanni. Acini di respiro: succo / breve ad aprire le mani strette a croce. / Là, dove declina il cielo in colline cangianti, / il fiume si fa madre. Occhi scomposti / di tramontana viola nell’ora persa di lacrime / e preghiere. Come un sussurro il canto, / lontana la rabbia d’altri giorni. / Colma di luce / la volta d’orizzonte, / (…) Ed io, figlia, scheggia di pianto, nero di velluto, / contavo margherite stupide alla sera. / Noi due, strette nel gioco d’un aprile distratto, / puledri pigri al sangue mattutino. / Noi due, ferme nel tempo.”

Sul retro del libro, ad illustrare la foto di copertina della poetessa in un campo di papaveri con una gonna ornata con gli stessi sgargianti fiori che fanno da sfondo, è la vezzosa poesia La gonna dei papaveri, in una geniale composizione di immagini e colori: “Ho tagliato i capelli, un tuffo sbarazzino. / La gonna dei papaveri sorride. / L’ho lasciata in soffitta, in gusto grigio. / Non ci parlo da tempo, contava mazzi di spighe / e capezzoli acerbi, dritti verso il cielo. / Brezza d’agguato sulle mani nude, / unghie laccate rosse, come una ferita. / La gonna dei papaveri era di una ragazza. / Gemito di fieno, a maggio, sopra il campo. / Urlo di glicine, stretto sulle mura. / Scialli di cattedrali le parole, lampo di tuono, / tregua di silenzio.” Ad introdurre i testi, invece, è la poesia che dà il titolo all’intera raccolta e che ne svela la chiave di lettura: “Come un piccolo sogno appena uscito, / sbirciato fuori tremulo, esitante, / ma nel contempo vero e palpitante, / ho messo insieme queste mie parole / che corrono, furtive, fra le pieghe / d’un tempo antico e lieve, un sentimento. / Ai miei cari che vivono il ricordo / possente e chiaro d’un passato amico, / un desiderio dolce d’infinito / nell’ora che purifica la sera. / Come un piccolo sogno l’ho chiamato: / i volti, le parole fra le dita, / un sogno che ritorna in ogni tempo, / ad abbracciare tutto il firmamento.” (Come un piccolo sogno).

Infine, la fiaba finale è un bijou in cui gli oggetti del salotto, i ninnoli prediletti dall’autrice, prendono vita come personaggi (“I personaggi delle nostre case, in realtà, hanno una vita, un movimento, anche se noi non ce ne accorgiamo, e sono dotati di sentimenti”), contraddistinti da una peculiare personalità e designati con il proprio nome (le bamboline Lille e Miou, il cavalluccio Dandolino, la campanellina Pispolina, “i granelli di polvere resistente” Bim, Bum, Bam), ciò che manca, però, ai nuovi arrivati - tre cigni e un bambolino - che li reclamano a furor di popolo. Questo problema da risolvere diventa la causa scatenante della gazzarra: una gara, indetta dall’autorevole Vocabolario per scegliere i nomi, ciò che significa riconoscere la loro esistenza in relazione agli altri. Tutto il salotto è in subbuglio, mentre la padroncina si affaccia di tanto in tanto divertita e incuriosita, finché, nel dissenso generale (si erano tutti scervellati per una nomenclatura originale) si decreta il responso all’insegna della più lapalissiana semplicità: i cigni si chiameranno Din, Don, Dan e il bambolino Birba. Da un pretesto apparentemente così irrisorio – ma la fantasia è come un Re Mida che muta in oro tutto ciò che tocca - scaturisce un racconto vivace e grazioso, condito di amabile umorismo e di esuberanza affabulatrice, nell’immediatezza comunicativa e nella freschezza dei dialoghi. Questa fiaba è come la carezza di un sogno, come una ninna nanna che culla il sonno con tenerezza: “Il velo del tempo attutisce i suoni, si posa discreto sulle cose come una carezza leggera, come “un piccolo sogno”, dove il rumore sommesso delle ore è un battito gentile. Allora le storie si addormentano con la mano sotto la guancia per poi risvegliarsi con dolcezza, fino alla prossima volta, magari con un altro “piccolo sogno.””

Roberta Degl’Innocenti sembra consegnarci il suo mondo interiore con la generosità e la gratuità di un dono prezioso custodito gelosamente e con l’efficacia espressiva di una rappresentazione teatrale, che va sfumando poi nella levità delicata dei versi, come appare nel finale, quando si chiude simbolicamente il sipario: “Si chiude questo coro di parole, / si chiude per riaprirsi ogni qualvolta / bussa alla porta quel ricordo lieve / che attira piano un gesto, una carezza. / Nel gesto della mano si confonde / lo spirito del soffio della brezza, / anime pure gonfie di dolcezza / ci guardano, lontane, sulle sponde. / Allora vi ricordo amori cari / nelle pagine scritte, un po’ ingiallite, / sopra orme di pianto mai finite, / nelle carte di questo breve scritto, / vi ricordo e conduco la ragione / perché rimanga sempre in fondo al cuore / dolce carezza che non fa rumore / ma apra cieli lindi di salvezza.” (Coro di parole).

Maria Rosaria Perilli, nella prefazione, sa argomentare con notevole lucidità intuitiva la cifra poetica dell’autrice: “Originalità che sfida le regole, ci accompagna in un viaggio intimo, un percorso espressione del mondo interiore dell’Autrice e che mai sa tramutarsi in linguaggio di inquietudine, sofferenza. Rimane lieve pur solcando le inevitabili rughe di dolore: «Poi, un giorno, è arrivato in punta di piedi il Gran Silenzio e si è appropriato della stanza con le sue mani di velluto». Ogni verso, ogni frase è un battito dell’anima a scivolare sulla carta, a donare ritmo a un testo dove le liriche si sposano in maniera perfetta con la narrazione, perché anche nella stessa, Roberta, con la sua peculiare cifra stilistica, sa trasmettere emozione poetica.”

Recensione
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