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Il titolo suggerisce già il tratto dominante di questa raccolta: compos mei(= “padrone di me”). Gianni Calamassi, infatti, è padrone di sé, del suo mondo poetico, delle sue emozioni e delle figure da lui amate. Si appropria della bellezza con un culto estetico, ma anche con la vitalità del sentimento. Il corpus poetico è diviso in sezioni che trattano diversi temi. Ora è la sezione dedicata alla rievocazione della donna, archetipo della fecondità legata alla Madre Terra, tanto da identificarsi in essa: “Profumati ciuffi di lavanda | i capelli | lo sguardo che illumina | dintorno come Selene | svelata dalle nubi | la bocca sussurra | petali di rosa | sospinti dal vento” (Donna). È anche emblema della chimera che ogni uomo insegue come un miraggio nel suo deserto di solitudine. Ella è enigmatica e selvaggia, come Madre Natura da cui sembra miracolosamente sbocciata: “Il mio amore ha nascosto | i suoi occhi | dietro una nube di capelli, | (…) Il mio amore è nascosto | in un campo di grano | che il vento increspa.” L’amore è intesa fugace, come un “rubare” ciò che è proibito: “Sempre ho rubato | senza prendere niente. | Ecco: | questo nelle mani | è il tuo profumo, | eco del sogno che svanisce | e si rinnova sempre.” (Ho rubato all’amore). Suggestiva è tale immagine muliebre incastonata in una cornice naturale: “Aspetto ad incontrarti | perché il sole alita | ghirlande di trine | sulla fronte delle | fanciulle andaluse | per la sagra.” (Aspetto ad incontrarti). Il tepore femminile scalda il cuore: “Mi scalda ancora il primo abbraccio: | come l’aria tiepida di fumo, | aspro mantello di foglie bruciate, | avvolge il bimbo il primo dì della scuola” (Mi scalda ancora il primo abbraccio). Il profumo di una donna ti avvolge “come il caldo scialle andaluso | in una fredda notte sulla sierra.” (Cerco nell’aria un’emozione). Ella rievoca l’Esterina montaliana, pronta a tuffarsi con istintivo e impetuoso slancio nel mare della vita, senza le remore e i cerebralismi maschili: “Prendimi per mano | e accompagnami, | non voglio più arrancare | senza scopo verso la | sicurezza di ricordi | dimenticati. | Ferve la vita nelle tue mani! | Comunicano la necessità | di corse senza sentieri, | di desideri senza colpe, | di ricerche senza barriere: | ed io ti seguo” (Prendimi per mano). La donna è sempre una mamma che ti conduce per mano lungo il cammino della vita.

Nella sezione L’uomo l’identità maschile corrisponde a quella di un individuo serio, alle prese con i problemi quotidiani, che scatena le guerre e semina odio. Mentre si aggira confuso e smarrito nel suo labirinto, l’esistenza, tuttavia, nella sua rassicurante naturalezza, segue il suo corso: “Turbante blu | sugli occhi tristi e attenti, | (…) Prosegue la vita la sua trina, | col battito sicuro del telaio” (Turbante blu). Un’umanità che incede lungo la strada per la vita, stretta da paura e miseria, soggiogata dalla fatica, ma riscattata da un unanime anelito di salvezza, è quella che si profila in Libertà: “Amiamo troppo questa terra | per non saziarla del nostro sudore | intriso di sangue: | Annuncia a tutti, batti la campana | questa è la tanto attesa | primavera di libertà.” Si cerca l’uomo autentico, non quello “della pietra e della fionda” di Quasimodo, sfigurato dal furore omicida, ma quello che è ancora capace di meravigliarsi della bellezza del creato: “Ti sei scordato Uomo | del profumo delle | viole, del muschio | bagnato di pioggia” (Ascolta uomo). C’è spazio anche per sincere confidenze ad amici: “Lasciami andare| nelle vene scorre | il veleno del mio tempo. | Lasciami andare, | amico, | che il sudore annebbia i miei occhi | e la realtà trasfigura.” (A Giuseppe).

I pensieri odierni sono versi dedicati alla voluttà del sentire, al comporre ciò che è in uno stato primordiale, indefinito e aleatorio: “Seguo i pensieri | che insorgono all’alba | già formati e | composti, dolcemente | mi cullano | come il messaggio | dentro la bottiglia | rullio e beccheggio | senza direzione.” (Novembre 96). La tristezza è sempre in agguato: “Voglio fuggire questa | pioggia fredda, | il suo scandire cerchi | nelle pozze; | il suo velare d’incoscienza | le colline vicine, | il suo monotono picchiettare | sulle auto in sosta.” (Piove). O ancora c’è tutto il romanticismo del fascino malioso della natura: “Ho visto sorgere le stelle | dietro San Martino, | le ho sentite bisbigliare | dietro la collina” (Ho visto sorgere le stelle).

L’insonnia s’impernia sulla sofferenza intima, un’angoscia più profonda perché non ha nome: “Aspetto invano | ogni esultanza è spenta | (…) non ricevo alcuna risposta | e non ho fatto domande impertinenti | pesco solo ricordi annegati” (Aspetto invano). Si la sensazione bruciante di un fastidio, “con gli spilli negli occhi.” Come in un incubo si affaccia il sospetto di neanche esistere: “Silenzio | il tuo corpo è solo | un’invenzione | i tuoi sentimenti | delusioni biologiche | Silenzio | Silenzio | Silenzio | forse non sei vivo | esisti nel sogno | dei tuoi sogni” (Silenzio). L’assenza è ciò che logora e pesa sul cuore come “piombo fuso”: “Dove sei? | Nessuna traccia di te | sulla superficie liscia | e dentro gorgoglia il calore.” (Piombo fuso). Mentre la luce si sveglia, non si è preparati ad indossare l’abito di un nuovo giorno: “Un gallo roco | canta con insistenza | la sua alba. | Nella camera buia, | popolata dai fantasmi | della notte, il | richiamo informa | abiti appesi in | grucce umane | che acquistano corpo, | consistenza immobile | di ossessiva presenza, mentre | attendono invano | il segnale d’inizio | della mia giornata” (Segnale). Tutto sembra sospeso, cristallizzato in un sogno irreale: “Tutto è immobile, | senza tempo, | ricordo | consumato nel sole.” (Immagine).

La morte, infine, porta con sé il senso di un’irriducibile inanità, come trapela da questa poesia, Rossi papaveri, che echeggia il celebre motivo La guerra di Piero del grande cantastorie Fabrizio de Andrè: “Rossi papaveri lungo la via | non applaudite | corre solo un uomo stanco; | dietro la bocca delle colline | non sorridere sole | la mia sconfitta | è quella dell’umanità.” Terribile è questa sfida alla morte incarnata nel volto materno, nel coraggio di guardare in faccia un dolore che ti ha segnato profondamente: “Morte diritto negli occhi | ti voglio guardare: ho sopito | le angosce di una stagione | faticosa, ed ora posso dedicarmi | alla tua venuta.” (A una madre). Mentre “la vita ha spento i proiettori sul domani” si tenta di esorcizzare il lutto inestinguibile della perdita del proprio padre: “Ho aspettato invano che | i vascelli di mio padre | solcassero il fantastico mare | dei sogni, ma ancora una volta | il Wasa non è riuscito | a raggiungere il suo varo: | la morte ha colpito il carpentiere.” (C’era una volta il futuro). È un’investigazione, questa della morte, che non sembra avere risposta, ma solo la consapevolezza di un’ineluttabile fine di tutte le cose: “La ricerca non consente più | di organizzare il futuro, le | immagini si accorpano | fino a ridursi ad un nucleo compresso | e impenetrabile, che non filtra ipotesi, | ma disunisce intenzioni, posizioni, | tutti i contorcimenti per non | cadere nella fiaba di una | realtà che non perdona.”

Quella di Calamassi è dunque una ricerca esistenziale centrata sui temi essenziali della vita: una riflessione sulla figura della donna, dell’uomo, sui pensieri e sulla morte. Questi temi sono affrontati con disinvoltura stilistica ed eleganza delle forme, nella felice espressività del linguaggio e nell’arte sapiente delle immagini suggestive, come in questi versi: “Bastoni di luce | frantumano | il nero velo dell’acqua. | Dalle sponde emergono | illuminati | i simboli del passato.” (Notturno fiorentino).

Recensione
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