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I nostri giorni perfettiI nostri giorni perfetti: il titolo allude metaforicamente a quell’ansia di perfezione, quella tensione all’assoluto che preme dietro al corso monotono dei giorni. È come sondare il fondale di un fiume che sempre scorre per estrarre l’oro che si deposita nel cumulo di ciò che passa, trattenere ciò che è prezioso dalla rapina del tempo: “da quale fondo risale l’immagine / da quale realtà di noi sempre cercata, sotto il presente / sotto il giorno dato nel quotidiano succedere / sotto il frammento conosciuto nel gesto ripetuto / forma interiore presaputa dentro di noi / emerge, strato su strato, trama su trama / apparizione cosciente, in armonia con parte di noi, / figurazione di realtà, evidenza netta / sorta d’improvviso in comunicazione con noi / depositata nei sensi / materia viva davanti agli occhi.” La poesia ha proprio questa vocazione ad immortalare ciò che si vive, fissando nell’impeccabilità estetica miraggi di quella bellezza che baluginano fuggevoli a trasfigurare lo sterminato deserto del “tragico quotidiano”, per dirla con Papini. È soprattutto l’incanto del paesaggio, nei suoi molteplici riflessi cangianti e iridescenti, che suggerisce il divino fulgore che traluce dietro le sembianze confuse: “gli occhi incantano la mente / Quel brillio delle foglie sul mattino / la linea verde delle colline sul fondo / il pioppo altissimo sulla curva bianca / il silenzio assolato sotto le siepi in salita / il riflesso smeraldo dell’ansa del fiume / il volo obliquo delle gazze a tagliare il verde / ricompongono qualche armonia nella stagione / Apparteniamo ancora a questo quadro.”
Nella sezione Ultime periferie si fiutano gli odori, gli umori e i sapori della promiscuità di gente multietnica di tutti i colori e le più svariate forme: “Si confondono segni, urticano, impazzano, tra spot, schermi / brillio di gipponi rombanti a caccia di donne / pancine nude di ragazze-cellulari / marocchini mercanti di mercanzie finto-vere / valigette nero-veloci di rappresentanti nero-vestiti / occhi scuri di donne a viso velato, passo pigro / venditori polacchi di macchine fotografiche decadute / bancarelle di vestiti rosa-antico finto-novecento / vicoli stenti tra vie immobiliari, grigio-perla distinto / istante su istante, immagine su immagine / Si sperde il guardare.” In Nuovi artefatti si contemplano i capolavori dell’estro artistico con raffinata chiaroveggenza: “Il Settecento vive nei grandi scorci di paesaggio / con riccioli di spume, intrico di vele, nuvole sfrangiate / distesa di cielo azzurro che tocca il mare verde / brulichio di vite, tocchi di colore, movimento continuo / nella luce dorata dei canali nel golfo.” In Consorzio civile si fa esperienza della disintegrazione e della dissipazione umana, in una perplessità esistenziale: “come se, all’improvviso, senza mutare forma / la realtà svanisse senza peso, guscio vuoto, / un mondo apparente non più nostro / Si fanno discorsi, si interroga, si sorride / ma qualcosa è mutato impercettibilmente / Non apparteniamo più”. Eppure in mezzo a tanta oppressione di miserie insorge un grido di resurrezione, si affaccia il cielo che schiude lo spirito al maestoso respiro del divino: “Ma uno squarcio d’azzurro all’improvviso / sul fondo la cima nel biancore perfetto / La linea come nei quadri dell’ottocento / … / Nonostante distributori, lavori in corso, computer-graphic / rotonde, code di camion, grida di ambulanze / mamme isteriche, nonne lente, giovani leoni in carriera / la mattina inizia.” Nell’ultima sezione, che dà il titolo all’intero corpus poetico, I nostri giorni perfetti, ci s’interroga su questa “vicissitudine sospesa”, per dirla con Luzi, si tracciano i confini dell’essere, si accarezzano i lineamenti dell’anima: “da quale senso riemerge l’immagine, si fa presente / si affatica nell’ora della mattina a consistere / si sfrangiano i confini saputi, conosciuti / altre schegge in movimento appaiono, confuse / da altri labirinti taciuti il presente scompare / trip, lampi, bagliori instabili / la mente tenta, prova a cercare un segno / Simboli già veduti si annullano, dissolvono / Un’incrinatura si allarga, ferisce…” È una faticosa introspezione interiore che deve lottare con l’innata tendenza a ripiegarsi in se stessi e a recalcitrare all’apertura verso l’alterità: “Quell’approssimarsi della luce nella mattina / quella luce gelata purissima sul piano / porta dentro di noi un freddo primordiale / … Ci imbozzoliamo, chiusi sul nostro vuoto / Ci interroghiamo a fatica, stentiamo parole / Dovremo guardarci ad occhi fermi / Chiedere, ascoltare, sapere il nostro dire”, “Questa stagione cristallizza forme, chiude / incerte parole per definire, chiarire opaco / reticenze dissimulate, indifferenza colpevole / accucciati nell’io, espulso il mondo / grigio spento posato sui nostri giorni / … / Questa assenza non può durare / Altri doveri si presentano. Obbligano.” L’anima è avida di abbracciare il mondo intero, ma si scontra con i limiti della realtà: “Gli occhi vorrebbero possedere il mondo / La mente prova a farsi aguzza, ma stenta / Insondabili confini, barriere di anni durano / Farsi nemico di se stesso, armarsi contro / Il pensiero dovrà vincere il proprio inganno / Sarà gioia una nuova lucidità consapevole.” S’incrina la facciata esteriore delle cose con la sua controversa dimensione temporale: “Estranei a questo presente, per difesa”; “Impercettibile si sgretola questa stagione / Annunciata già da piccoli crolli, screpolature / rughe sempre più incise nei visi in passerella.” Vi sono espressioni di notevole suggestione lirica ed efficacia icastica: “viola acceso dei crochi-primavera / celeste delle chiese cupola del cielo.”; “la luce del pomeriggio è lenta in fondo sul profilo / la superficie del lago si increspa di turchese / ancora l’occhio ricompone la linea del paesaggio.”; “Cielo azzurro limpido da fine gennaio / ti confondi con certi giorni di marzo / gridi dei passeri rompono il silenzio / siepe lunga svetta, illuminata in cima / profili delle colline segnati dal bruno / Gli occhi godono la mattina.”;“Si espande spazio, vira azzurro / in un batter di ali di gabbiano / Gioia colma di luce d’estate.” Francesco Piemonte in questi testi insegue la scia dei sentimenti e delle emozioni che costellano le diverse stagioni della vita, aspirando a quell’aura luminosa che tutto indora e trasfigura nella celebrazione estetica e nell’afflato sublime della creatività artistica. |
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