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Il silenzio dell’amore

Attraverso questa antologia di testi dell’Achmatova, curata e tradotta da Manuela Giabardo e Paolo Ruffilli, rivive tutto il fascino malioso dei versi della celebre poetessa russa. Si assaporano quelle atmosfere dal languore della malinconia autunnale, tra stormir di tigli e di betulle, e dal pallore cristallino delle nevi. Questi scenari fanno da sottofondo al tema dominante che è, appunto, “il silenzio dell’amore”, l’amara scia della perdita e dell’assenza, venata della nostalgia di un romantico tramonto, di ciò che muore e nel contempo sparge la sua fragranza soave di petali di rose: “Ho smesso di sorridere: / le labbra gelate dal vento, / una speranza è persa / e una canzone nuova è nata. / E io dovrò riconsegnarla / al disprezzo e allo scherno / perché è insostenibile per l’anima / il silenzio dell’amore.” Si vive questa quête affannosa della ricerca dell’amato, sulla falsariga del Cantico dei Cantici: come inseguire un miraggio nello sterminato deserto dei giorni, un sogno vano che dilegua alle luci del mattino, un idolo che, nell’ipostatizzazione idealistica, assurge a divinità. È una sofferenza che logora a poco a poco, con l’invitta tenacia dell’incessante stillicidio della goccia che scava la roccia: “Prego il raggio che dalla finestra / entra pallido, sottile, dritto. / Da stamattina non parlo, / il cuore spezzato in due. / (…) Così semplice e innocente / nella quiete della sera, / è una festa tutta d’oro, / la mia consolazione / in questo tempio ormai deserto.”

Eppure lo strazio del cuore non fa rumore, sembra attutito dal pudore del silenzio come i passi dalla neve: “Stessa voce, stesso sguardo, / stessi capelli di puro lino. / Tutto proprio come un anno fa. / I raggi di sole che attraversano il vetro / screziando le pareti imbiancate… / Il fresco aroma dei gigli / e le tue semplici parole.” (Due poesie). L’amore appare un incantesimo irresistibile, un’insidia sottile tesa all’agguato dell’essere inerme, una musica suadente che seduce e irretisce: “Talvolta, acciambellato come un serpente / lancia incantesimi proprio accanto al cuore / oppure tuba di continuo giorni e giorni, / come un colombo alla finestrella bianca. / Risplende a volte nella brina luccicante, / si intravede nella violaciocca un po’ assopita… / Ma sa come strapparti di nascosto / alla pace e alla felicità. / Sa singhiozzare con una tale dolcezza / nella preghiera di un nostalgico violino / e fa paura scoprirlo / in un sorriso ancora sconosciuto.” (Amore); “L’amore conquista con l’inganno /con una semplice, rozza melodia. / E fino a poco prima – cosa strana - / non eri triste o impensierita. / (…) Sapevi d’essere una cosa sua, / e già bevevi il suo veleno. / Erano così grandi le stelle sulla testa / e perfino l’erba aveva un odore differente, / erba d’autunno.” È una dialettica continua tra incontro e distacco, ansia di libertà e tensione all’unione, vita e morte: “I cuori non sono incatenati uno all’altro, / vattene pure se vuoi andare. / Chi vive libero / ha per destino la felicità. / Non piango, non mi lamento, / non è cosa per me, la felicità. / Non baciarmi, sono così stanca. / A baciarmi verrà la morte. / Sono passati i giorni d’aspro tormento / con la neve dell’inverno. / Perché, in che cosa, tu sei migliore / di colui che mi era destinato?” L’amore torchia e avvelena il cuore con il suo frutto invitante così dolce inizialmente, ma che non tarda a tramutarsi in amaro: “Bevi la mia anima con la cannuccia. / Conosco il suo sapore amaro d’alcol. / Ma non ti pregherò di smettere nella tortura. / Oh, io sono in pace da settimane ormai. / Avvertimi però quando hai finito. E / non importa se non avrò più l’anima. Prenderò la via qui accanto, / guarderò i bambini che stanno lì giocando.”

Suggerisce Paolo Ruffilli nella prefazione: “C’è, in queste pagine, l’ebbrezza della felicità e della giovinezza, il gusto della bellezza”, come si può riscontrare in queste parole: “Ogni mia cosa è tua: le preghiere del giorno / e il febbrile torpore dell’insonnia, / il bianco stormo dei versi / e l’incendio dei miei occhi azzurri. / Nessuno mi è mai stato così vicino, / e per nessuno ho mai tanto sofferto, / nemmeno per chi mi ha torturato, / né per chi mi ha abbandonato dopo le carezze.” L’amore è una dialettica febbrile e intensa, senza esclusione di colpi, dalle risonanze teatrali: “Vieni adesso a sederti qua vicino, / felice di vedermi ritrovata: / ecco qua il quaderno mio turchino / con i versi che ho scritto nell’infanzia. / Perdonami se ho molto sofferto / e poco ho goduto del sole. / Perdono, ti chiedo perdono, se troppi / ho scambiato per te.” La scrittrice è molto abile nel descrivere la turbolenta dinamica dei sentimenti, come quando ci si scopre del tutto nudi e inermi dinanzi all’amato:“I giorni più bui dell’anno / devono riempirsi di luce. / Non trovo le parole adatte / a descrivere le tue labbra tenere. / Solo, per favore, non sollevare gli occhi / se vuoi che io abbia salva la mia vita. / Più chiari delle prime viole /hanno l’effetto di colpirmi a morte.” (9 dicembre 1913). Tuttavia, vi è un territorio franco, inviolato, che nessuno può invadere e profanare, che neanche il ‘barbaro invasore’ dell’amore può saccheggiare, quel “santuario privato”, di cui parla Ruffilli, che l’Achmatova ha custodito con gelosia e tenacia e che è stato la sua unica salvezza in mezzo alla terribile tempesta: “C’è nell’intimo dell’uomo un invisibile confine, / invalicabile all’amore e alla passione - / anche se si fondono le labbra in un orribile silenzio / e il cuore va in frantumi per amore.”

S’immola la propria vita alla poesia, ardendo in un perenne olocausto d’amore: “Come sei greve, memoria d’amore! / Devo bruciare e avvolta nel tuo fumo cantare, / mentre gli altri scaldano alla tua fiamma di vita / l’anima loro intirizzita. / Hanno bisogno delle mie lacrime / per riscaldarsi il corpo sazio… / Forse per questo, Signore, ho cantato, / per questo mi sono data, sì, all’amore! / Dammi da bere tu un veleno / che mi faccia subito muta, / e lava via la mia gloria ingloriosa /in uno splendido oblio.”

Vi è un cromatismo acceso, solcato da luce radente che si focalizza sui dettagli più minuti, sia architettonici che elementi naturali del paesaggio, uno sguardo analitico e al tempo stesso visionario, in un’atmosfera impregnata di profumi inebrianti: “Tutto era promessa di lui per me: / l’orizzonte del cielo, scarlatto e opaco, / e il caro sogno di Natale, / e i mille suoni del vento a Pasqua, / e i rossi tralci della vite / e le cascate nel parco, / e due grandi libellule sul recinto arrugginito.”; “Ma noi per nulla scambieremmo la città / sfarzosa di granito, di gloria e di disgrazie, / i grandi fiumi di ghiaccio luccicante, / i giardini cupi senza sole / e, appena percettibile, la voce della Musa.”; “I tigli rumorosi e gli olmi / nei giardini bui, / i diamanti sfaccettati delle stelle / innalzate a Dio.”; “Il mattino è ubriaco di sole a primavera / e il terrazzo profuma denso di rose / il cielo, poi, splende più di una ceramica turchina.” (Inganno).

L’amore è il tema dominante, anche se pare che la scrittrice si sia rammaricata perché le sue poesie “civili” sono state poco considerate. Nel turbine delle due guerre mondiali e nella ferocia delle persecuzioni staliniane durante la Rivoluzione, ha scritto versi di protesta densi di pahos contro la violenza e la follia generalizzata: “Siamo invecchiati di cent’anni / ed accadde in un’ora soltanto: / ecco finita già la breve estate, / finiva la distesa delle pianure arate. / Ribolliva, all’improvviso, la quiete della strada, / si era levato intorno un pianto acuto. / Coprendo il viso ho implorato Dio / di uccidermi prima che cominciasse la battaglia. / Della memoria, come un peso inutile, / di canti e passioni scomparve ogni traccia. / Così svuotata, per ordine dell’Altissimo Signore / si è fatta atroce libro di funeste novità.” (In ricordo del 19 luglio 1914); “Il dolce profumo del ginepro si spande / dai boschi in fiamme. / Piangono i figli, le mogli dei soldati, / il pianto delle vedove risuona nel villaggio. / Non è stato vano intonare il Te Deum, / di pioggia la terra era assetata: / sono zuppi di un tiepido rosso umore / adesso i campi calpestati.” (Luglio 1914). In Requiem descrive il dolore delle madri e delle vedove costrette a piangere i loro figli e mariti prigionieri o uccisi, composizione che fu trasmessa soltanto oralmente, per via della repressione, come tante altre, e che fu pubblicata molti anni dopo. Incarna il dramma personale di Anna Achmatova, una madre in attesa fuori della prigione con un pacco per il figlio, facendo la spola da un ufficio all’altro per averne notizie e sostenere la sua causa.

Scrive incisivamente Ruffilli: “Il poeta dell’amore era diventato il poeta di una grande tragedia nazionale, capace nel suo individualismo tenace di una coralità della migliore tradizione russa, con il più grande atto di accusa di un intero popolo contro la tirannia.” Sono versi impastati delle lacrime della gente oppressa e intrisi del sangue delle vittime: “Ogni cosa fu rubata, venduta, tradita, / e balenò la nera ala della morte, / fu divorato tutto da un’insaziabile angoscia, / perché allora per noi rasserenava? / (…) E alle sporche case che giacciono in rovina / si avvicina la nostra meraviglia… / non che di noi nessuno ignori, / ma per un secolo sognammo…” (MCMXXI); “Fu quando soltanto i morti / sorridevano, lieti ormai d’essere in pace. / E come inutile appendice dondolava / Leningrado, accanto alle prigioni. / Quando, pazzi di dolore, / andavano schiere di dannati, / e il fischio del treno / era un breve canto d’addio, / su di noi c’erano stelle di morte / e la Rus’ si contorceva innocente /sotto stivali insanguinati / e sotto le ruote dei marusi neri.”; “In cosa questo secolo è peggiore / di quelli precedenti? /Forse è perché / in un delirio di nostalgia e di ansia / la più nera ulcera ha sfiorato, / ma non ha potuto risanarla. / A occidente brillano i tetti delle case / sotto un sole che là ancora risplende, / ma qui una croce marchia la casa bianca / e vi richiama i corvi, e i corvi corrono in volo”; “ma noi abbiamo imparato, una volta per tutte, / che il sangue sa solo di sangue…”.

I versi dell’Achmatova sono permeati da un’inguaribile tristezza, di un dolore mai sopito, per via, probabilmente, anche delle tragiche vicissitudini subite: la fucilazione del primo marito Nikolaj Gumilev, la prigionia del figlio Lev, l’ostracismo da parte del governo russo per la sua attività letteraria, tanto che fu espulsa dall’Unione degli Scrittori Sovietici nel 1946 con l’accusa di “estetismo” e “disimpegno politico”, anche se poi fu riabilitata nel 1955, pubblicando nel 1962 l’opera Il Poema senza eroe. Tuttavia, le sue poesie non subiscono il condizionamento di tali situazioni biografiche, le quali sembrano sfiorarla senza minimamente intaccarla, in una sorta di sdoppiamento della sua personalità - come descrive in questa lirica -, vale a dire l’una che vive su questa terra e l’altra che invece è sospesa nell’elegiaco Parnaso delle Muse: ““Un’altra donna / ha preso il mio posto, / porta il mio nome legittimo, / lasciandomi un nomignolo del quale / ho fatto tutto quel che si poteva. / Nella mia tomba, ahimè, non ci sarò io. / Ma alle volte un vento burlone di primavera / o una combinazione di parole in qualche libro, / o il sorriso di qualche amico / mi trascinano nella vita che non è stata. / Quell’anno sarebbe andata così e così, / quest’anno, sarebbe accaduto questo: mangiare, vedere, pensare.” (Quinta). A tal proposito nota argutamente Vittorio Strada che Anna Achmatova “ha opposto alla crudeltà della vita e della storia un misterioso distacco.” E Ruffilli sottolinea la sua autonomia di donna e di scrittrice rispetto ai condizionamenti della Storia e ai dettami culturali vigenti: “Ma lei procedeva comunque per la sua strada, destinata per istinto a parlare contro l’epoca in cui si ritrovava a vivere, brillando per il suo costante “non avanguardismo”, come ha scritto Josif Brodskij, non solo stilistico ma anche politico, e nell’accanimento amoroso con cui prendeva in contropiede l’angustia persecutoria del suo tempo (“rimase fedele al suo stile, al suo registro privato, al suo modo di rifrangere la vita”)”.

Ciò che colpisce è la sua folgorante lucidità, capace di mettere a nudo la realtà con ironia impietosa e una chiaroveggenza sconcertante: “E cadde la parola di pietra / sul mio petto ancora vivo. / Non importa, perché ero pronta. / In qualche modo ce la farò. / Oggi ho molto da fare: / c’è da uccidere la memoria fino in fondo / c’è da mutare l’anima in sasso / c’è da imparare a vivere di nuovo. / (…) Da molto tempo era in me il presagio / di questo giorno luminoso e della casa vuota.” (La sentenza); “Oh, avessi saputo, quando vestita in bianco / la Musa entrò nella mia piccola casa / che le mie mani vive si sarebbero accostate / a una lira pietrificata per l’eterno. / Avessi saputo quando sfrecciava turbinando / l’ultimo temporale del mio amore /che al migliore dei giovani, piangendo, / avrei chiuso gli occhi d’aquila. / Avessi saputo quando nell’ansia del successo / tentavo la divina sorte / che presto la gente avrebbe accolto / l’estrema supplica col suo spietato riso.”

Eppure la “bufera” della Storia, per dirla con Montale, ha tragicamente dirottato il corso della sua esistenza: “Come un fiume, / mi ha deviato un’epoca cupa. / Hanno scambiato la mia vita. Ha preso a scorrere / in un nuovo letto, da un’altra parte, / e non conosco le mie rive. / Oh, a quanti spettacoli sono mancata / e il sipario si sollevava senza di me, / senza di me calava. Quanti amici / non ho incontrato una sola volta nella vita, / e quanti profili di città / avrebbero potuto farmi lacrimare gli occhi, / ma io conosco una sola città al mondo, / e persino nel sonno so ritrovarla. / E quanti versi non ho scritto, / il loro coro segreto mi accerchia / e forse un giorno / mi soffocherà… / Conosco ogni inizio e fine, / e la vita dopo la fine, e anche qualcosa / che ora non serve ricordare.”

Il pregio più ammirevole dell’Achmatova, - che costituisce la sua ‘matriarcale’ statura di scrittrice (“Anna di tutte le Russie” la denominava l’amica poetessa Marina Cvetaeva) - va individuato nella fierezza della libertà che non sono riusciti a piegare né gli esiti infelici dei suoi ‘disordinati’ amori, né le travagliate vicissitudini personali, né le pesanti interferenze storiche. La sua ispirazione artistica sembra miracolosamente essere trascorsa indenne - proprio grazie alla sua notevole vitalità interiore - attraverso il crogiuolo arroventato della Storia, senza riuscire a defraudarla della sua dignità e identità di Poeta, nella sua dimensione più sacra e inviolata. È stata una donna e un’intellettuale che ha vissuto con passione l’amore declinato in tutte le sue forme con tenacia eroica, nonostante il tragico scacco in ogni caso; un amore non ricambiato, sia quello dei contrastati affetti, che quello per la Patria, tranne uno: quello per la sua Musa, come scrive significativamente Manuela Giabardo nella nota di traduzione: “Amore, anche, per la sua Patria, la Russia, e per la sua città elettiva, San Pietroburgo, alla quale è stata sempre fedele, al punto da doverne essere portata via praticamente a forza, durante il tragico assedio tedesco del 1941. L’amore per il figlio Lev, difficile, doloroso, fino alla fine colmo di incomprensioni ed equivoci, tanto che non si rivedranno neppure sul letto di morte di lei. E, infine, quello che è probabilmente l’unico suo amore davvero ricambiato e il grande sostegno di tutta una vita: la Poesia.”

Recensione
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