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Il sole provvisorio

Il sole provvisorio di Emanuele Giudice indaga e scandaglia l’umana vicissitudine nel suo gioco dialettico di luci e ombre, nella “provvisorietà” del vivere, appunto, protesa verso l’assolutezza dell’eternità che sola appaga l’intimo bisogno dell’uomo, travolto dalla ridda confusa degli eventi e dalla babele degli inganni e delle insidie del mondo: “E t’assolvo dal nulla / che mi hai sciorinato davanti, / succube dei livori del giorno / con tsunami di parole / per cogliere in fallo / la vita che ci resta. / Mi scopro solitaria maceria / reduce dai mille brindisi / offerti all’inganno di letizie.” (Solitaria maceria). Ciò suscita un’inesausta ansia di ricerca che vuole squarciare il velo di Maya e penetrare la divina essenza che sostanzia l’esistenza: “A sedurmi / è la famelica ansia del cercare / che non sa della morte e del finire / e trema / davanti a cimiteri di cuori e voci / in questo sgomento di torve lave / che invade ciò che vedo / e ciò che non mi è dato di vedere.” (Chiarori).

È una vera e propria “sete di conoscenza”, per dirla con Dante, quella che sospinge l’autore,“il mio famelico guardare”), la stessa che mosse Ulisse a sfidare l’ybris, osando varcare la soglia del limite, la terra di frontiera tra la vita e la morte, assediata da Erinni vendicatrici e da un Caronte crudele che traghetta verso desolate sponde. Novello argonauta, il poeta circumnaviga un oceano di buio trafitto dalla luce folgorante degli astri, l’ignoto, nelle sue voragini di oscurità, attraversato da lampi accecanti di verità: “In questo crepitare di rimpianti / nascono e muoiono stelle / stanche della loro notte, / sprofondano / nel ventre mostruoso di galassie / pronte a ghermire / lembi irrisolti di domande. / E buchi neri / di anni-luce in anni-luce / come improvvise fauci le divorano / nel buio chiuso / solenne / di una voce che le chiama. / E il loro inutile grido / rimbomba all’infinito espandersi del cosmo.” (Stelle).

L’inchiesta poetica, sulla falsariga del leopardiano “Che fai tu luna in ciel?” del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, assurge ad uno smarrimento cosmico, come non riuscire a trovare il proprio posto e il senso dell’esistere, come un atomo perso nella vastità dell’universo: “Ridatemi ancora la parola / per vincere titubanze e silenzi / e presumere rive acquietanti di sapienze / antiche come il cielo. / (…) Io resto inerte / come il frammento a cui m’appiglio / e sogno la cellula / in cui denudo l’invisibile quark / nella sua persa dimensione. / Mi chiedo /chi / sarà capace di destarmi / da questo incubo dell’essere e dell’esserci / che mi possiede e blocca / mentre mi scopro conchiglia fossile / e insetto ingabbiato / nella valva pietra dei millenni.” (Guardando dentro). L’unica risposta che sia all’altezza della domanda sembra offrirla il silenzio, nella densità del suo sublime mistero: “Vigile e attento / sto a percepire l’altro nell’oltre / dove voci afone / e senza voglia d’essere ascoltate / sequestrano dolori. / Non so chi chiama / oltre le lontananze / oltre i sentieri perduti al cielo, / e il libero volo del tempo dei digiuni. (…)E il silenzio che timbra il mio annaspare / in grovigli di universi / è l’unica voce che mi parla / offrendomi la pace / che mi assolve e seduce / nell’ardua impresa a cui m’accingo / scansando i lupi forsennati delle ore.” (Chi chiama?). Eppure è in esso che attecchiscono le radici del dolore: “Non c’è dolore più grande / di quello partorito dal silenzio.” (Impervi dolori).

Il mare è trasparenza dell’arcano che sottentra alla banalità del quotidiano: “Ma tu cosa vedi / oltre il rimbombo chiuso dei marosi / e i precipizi delle onde / e le bave furiose? / Nulla riesce a ferire / il nostro volatile presente… / Il mare è uno scrigno / dove dormono guerrieri / con tesori di antichi corsari / e si incrociano enormi oblò di palombari / a esplorare orgogliosi sedimenti / dimenticati negli abissi. / Ma noi / siamo fermi alla terra…” (Oltre i marosi).

La vita a volta appare grottesca nella sua assurdità, come frutto di un capriccio di un annoiato deus ex machina che è ormai stanco del gioco, per cui si resta sospesi e inutili come stupidi fantocci: “Cosa c’è / oltre il tacere / e il muto scorrere dell’attimo / in questo patetico assuefarci / alle bizze della vita / che ci usa come pedine del suo gioco? / Forse qualcuno ci ha dimenticati / sulla scacchiera dei giorni / in attesa di una mente / che recuperi il gioco / sistemando i pezzi / a uno a uno / per ricominciare lo stupido diletto… / (…) Ultime / stanno le pedine / come sempre allineate/ per fare la guerra / voluta dagli altri.” (La scacchiera). La natura umana è riluttante a proiettarsi oltre la parvenza terrena che l’incatena: “Non so cosa faremo / dopo questo assurdo baccanale / in cui affoghiamo solitudini / da comprimari e da protagonisti. / (…) Restiamo anchilosati / alla nostra gioiosa demenza…” (Fuori dalla trama).

La catarsi letteraria appare come un impulso irrefrenabile (“Con svolazzi di demenziali arabeschi / ferisco la pagina di segni / e imbriglio pensieri alla deriva”, La densità del cuore) di cui non si sa dare spiegazione, come un’irresistibile passione, la stessa linfa vitale: “Scrivere, scrivere… / Ma chi mi spinge / a martellare con rabbia la tastiera / per resurrezioni ingorde di vita / Chi osa / scavare cunicoli di sapienza occhiuta / per riportarmi / a voci d’ancestrali giovinezze / dimenticate tra scartoffie / e inutili rimpianti / di vene rigonfie e fertili di amori?” (Canzone muta). Eppure l’esercizio della scrittura rischia d’imprigionarsi tra le sue angustie: “Fermi eravamo / alle nostre catene di parole.” (Antiche narrazioni). Tuttavia, esso resta presagio e oracolo di verità nascoste: “Ma la parola conosce anche l’eclisse / che incombe sulla nostra notte / e rinasce alla sua spossata evanescenza / percorrendo latitudini magiche / dove germogliano voci / sciogliendo malefici.” (Poesia).

La ricerca sosta con reverenza sulla soglia del Mistero per antonomasia, ove aleggia l’Alfa e l’Omega, il vertice di ogni rarefatta meditazione, la vertigine di ogni pienezza: “E la pagina inerme / ha ora l’audacia di parlare di Te / e fissare l’abbaglio di luce trasfigurata / che ti abbraccia e invola / in tutti i monti Tabor del tempo / liberandoci dalle nostre tempeste. / (…) Vibratile e puro / come un pollone nel suo verde / t’immagino, / pronto ad arrenderti all’umano / e a intridere la terra di sapori e stelle / dove sia destinato a scivolare l’universo. / (…) Amore che aduna l’universo / ti sveli / per piegarlo a smisurate vertigini / che annullano distanze e gemiti. / (…) Umano volto / nel divino che ti fa altro / porti l’uomo alla sua iperbole / colmando distanze / tra la terra e il cielo, / tra il nulla e il certo.” (Ode a Gesù). Il sentimento del divino è avvolto dalla sacralità del pudore: “Dio / legge ogni giorno i nostri giornali / e ci accredita della sua compassione / con silenzi che risuonano in noi / come piaghe.” (Silenzi come piaghe). L’essere freme di un palpito cosmico che percorre distanze siderali e vibra all’epicentro dell’universo, tessendo sovrumane melodie che riecheggiano la vaghezza dell’armonia dell’etere: “Io sono altrove, / - gli occhi alla magica notte - / attento a catturare le impercettibili voci / che vincono inconfessate distanze. / (…) Una monodia d’arpa / intride l’universo di suoni / e al vibrare di musiche divine / invade ellissi / che intrecciano altre ellissi / e altre ancora / nel gioco di pianeti / e astri / e comete. /Ascolto le voci che non odo / dagli spazi eterni / (…) E io fermo / alle ingorde facezie / dell’attimo che mi vive…” (Voci). Riconoscere i limiti della propria natura umana è la sorgente dell’autentico sentimento religioso e la cifra del titolo di questa silloge poetica che suggerisce la consapevolezza della nostra finitezza che anela alla compiutezza divina: “E ho anche scoperto / che il provvisorio siamo noi / intenti a scavare la nostra piccola buca / nell’aria / coltivando il definitivo / come se non contenesse la morte. / Noi siamo il provvisorio / che vorremmo uccidere in noi / e il definitivo che sogniamo di conquistare / rubandolo a Dio. / Ma anche il sole / si arrotola nella sua luce provvisoria.” (Provvisorio).

Spiccano meditazioni profondi ed espressioni improntate ad un intenso lirismo: “Scorre nel mio sangue / come un fiume muto / la pace di una vela / rosea sul mare, / fresca del suo mattino / mentre fremono cristalli / al loro frangere la luce.” (Una vela); “Davanti alle tue spiagge / i picchi neri / lugubri di lave / scagliati dai ciclopi / contro l’astuzia tracotante di Odisseo / ora sono faraglioni solenni / che si contendono le pacate onde / e il bianco nitore del Vulcano.” (Taormina); “Vorrei entrare nel coro di voci sommesse / e di lontani impercettibili bisbigli / che punteggiano la notte di sapori / e l’universo svegliano / all’unisona lingua di galassie / che corteggiano Dio / all’infinito svelarsi di sapienze.” (Nel coro).

Emanuele Giudice in questi testi dà voce allo sgomento e all’anelito dell’effimero che si protende oltre il “provvisorio”, appunto, per approdare all’infinito del divino e all’assoluto dell’eterno.

Recensione
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