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È un canto libero quello che sgorga dalla
penna di Patrizia Riscica, un grido di sollievo dell’essere che si affida
esclusivamente alla sincerità del proprio sentire e al flusso incontrollato dei
pensieri. Una sorta di scrittura automatica esaltata dal surrealismo, in cui
tuttavia non si perdono i nessi della logica, ma si offrono le immagini della
mente così come si affacciano nel loro disordine, capovolte appunto (proprio
come si proiettano inizialmente le immagini sulla retina), senza definizioni,
pregiudizi o convenzioni: “Queste immagini capovolte | funambole della mente |
danzano libere sulla mia pelle. | Un’altra storia si affaccia, | ignobile e
insolente” (Immagini capovolte). Si vuole manifestare il proprio mondo
interiore sommerso nell’inconscio, senza decorarlo, senza preconfezionarlo,
lasciandolo nella sua primitiva “indecenza.” È un rivelarsi dell’autrice a se
stessa senza veli, né ostracismi, nella piena espressione del suo corpo e del
suo spirito. La sua femminilità non si sente repressa, non è subìta, bensì
partecipata da protagonista, senza tabù, senza inibizioni. Vive il flusso
impetuoso delle emozioni godendone voluttuosamente, si abbandona alla sensualità
e alla tenerezza dell’amore senza schermaglie, esponendosi anche al rischio
della disfatta e della perdita. I pensieri stessi trasudano di carnalità:
“Quando i pensieri diventano carne, | si strofinano addosso invadenti |
accarezzano, scalfiscono, | lacerano, baciano, | sensuali ti posseggono.” (Pensieri
di carne). Anche l’arte si profila come un gioco di seduzione, in cui le
parole all’inizio maliziosamente si negano, per poi concedersi arrendevoli:
“Furtive e seduttrici si avvinghiano eccitate. | Improvvisi fiotti di parole
scorrono veloci” (Scrivere). L’amore è come il sangue, un flusso caldo
che alimenta la vita fin dal suo stato primordiale, in cui sono immerse tutte le
nostre molecole: “L’amore si scioglie | uguale attraverso i secoli. | Avvolge e
nutre. | Un liquido amniotico” (Liquido amniotico). La poetessa è una
donna completa, consapevole della propria identità e sessualità, che accoglie la
sua vocazione ad amare, che è “il dolore del vivere”, con intrepida serenità.
Ciò non le impedisce di sperimentare le sconfitte, le inevitabili sofferenze, ma
con un’intima sicurezza riesce sempre a risalire il guado e a tornare
vittoriosa, poiché sa accettarsi nella sua integrità di persona, con le sue luci
e le sue ombre. A volte è in conflitto con se stessa, prova il senso dello
scacco e si sente assalire dall’“indecenza dell’angoscia”: “Come perdersi nel
buio del non essere?” (Separazione I). Avverte il fastidioso prurito di
“un insopportabile solletico al cervello” (Al silenzio). È la vita nella
sua incessante dialettica tra bene e male, nella sua altalena di gioia e dolore,
che ella sa assaporare nel suo gusto a tratti dolce, a tratti amaro.
Patrizia Riscica s’identifica in una
mitologia muliebre che costella la letteratura: Ofelia (“Ofelia galleggia
leggera nell’acqua scura | i capelli le danzano attorno | come lunghe ali nere”,
Il tuffo di Ofelia), Elettra, Arianna, Eloisa. Ma anche si riverbera in
donne semplici il cui nome (Angela, Rossella, etc.) non è che un pretesto per
sfogare la propria sensibilità dietro il pudore di una maschera, di un’identità
camuffata. Ciò ricorda un po’ i molteplici travestimenti in cui era abile
istrione il poeta portoghese Fernando Pessoa, il quale amava intrecciare storie
intorno a personaggi inventati, dalle vite autonome, in cui poteva sfoggiare,
come un giocoliere in un numero di prestigio, le più svariate sfaccettature.
La libera espressione di sé si compie a
tutti i livelli: in orizzontale, con l’espansione e la dilatazione dell’amore,
in verticale con l’ascensione verso l’alto. Così, oltre ai duelli amorosi dei
corpi e ai sussulti dei sensi, c’è spazio per il gemito liberatorio di una
preghiera (“Dio logorato dalla sorte, | oggi io ti prego”, La preghiera di
Maria), per la contemplazione “con il naso in su” di una maestà celeste che
non cessa mai d’incantare, con quei “scampoli di cielo scuro ricamati a piccolo
punto | con fili di stelle ignote, lontane, inquietanti”, per indugiare lo
sguardo sopra l’orizzonte che si tuffa nel mare o per “bagn[arsi] gli occhi” con
gli azzurri profili dei monti.
Si
dice infatti che noi siamo come gli alberi: con le radici affondate nel terreno,
ma con i rami tesi al cielo.
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Recensione |
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