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La dimora del tempo
La
dimora del tempo
è un
luogo dell’anima, dove stazionano i pensieri, i sentimenti, le emozioni, come in
un buio scantinato in cui si depositino le “rimanenze” del giorno: “Da questa
solitudine / raggio di luce, natura senza incensi / posso annegare nel buio. /
Guardare in fondo all’origine / sotto l’apparenza. / Perché stare qui, dove
tutto tace?” / (…) Dove pensavo ci fossero angeli, / ora vivo. / Alla dimora del
tempo rimasto sospeso, / stagione di frutta e di viole.” (La dimora del tempo).
È uno spazio interiore costellato di
volti cari, che emergono come reviviscenti epifanie dai fondali sommersi della
memoria: “Chiaro, il suo viso appare nelle sere d’estate / ed in sogno sembra
più bello e più caro. / Così lo tiene, / rappreso nel velo del sonno. / Fu il
principio del buio, uno squarcio ed un termine / Quando la memoria si perde, / e
fa spazio al timore del tempo / Non finisce il cammino, non riprende il suo
corso.” (Intermezzo). Nella “terra di nessuno” del silenzio i confini
sono evanescenti, quasi irreali, a suggerire lo sgomento attonito dell’assenza:
“In piedi sul confine. / Oltre la soglia. / Neve di montagna / benedetta
scioglie al sole. / Erba da calpestare. / Fiore appena colto / scioglie
all’ombra di un silenzio. / Non ha padrone, / non è di nessuno / non si
appartiene / non c’è. / (…) Dove sei virgulto di stella pezzo d’infinito, /
perché ti ha lasciato, / senza voltarsi? / Eri l’amore, la pelle / il soffio
della vita. / Che dolore prende, / brucia e sfinisce. / In cenere rimane, / di
pietra si sostiene.” (Sul confine). Si solleva un’inquieta interrogazione
che tenti di decifrare l’incognita del destino: “Abita qui la morte? / Dove sei
stata portata? / Che tipo di universo senza vetri è questo? / Qui è solo buio. /
Contempla la luce del destino / e assottiglia sulla porta / si stringe ed
attorciglia / Vuole seguirti, luce. / Non può restare qui. / È solo buio, trema
/ La notte, / discende nella notte, / la notte non ha fine / la notte è senza
orgoglio, / si disfa in un lamento / senza fine. / Avrà il suo termine, / ed un
inizio di bellezza / nello scoppio del mattino. / Avrà una fine? / Ed un fine? /
E servirà a qualcuno? / Qui sulla soglia / vede da sempre l’infinito / lo tocca,
lo raggiunge, / lo strappa come un vetro di bottiglia.” (Sul confine). È
una visione assorta, sospesa in una dimensione trascendente: “Tranquilla
attraversa la strada, / guarda con gli occhi a terra / calpesta la pozzanghera
che specchia in una nuvola, / sente correre luce. / Così, tra sé e sé assopita,
oltrepassa la soglia del tempo. / E santifica giorni che non vive. / Anche se
non vedi / è nella mente col pensiero, / e gli occhi che ti ridono / luce nei
suoi riflessa. / Sente il tuo odore addosso / in ogni spicciolo di aria che
respira.” (Tranquilla). Suggestiva è questa metafora del rammendo delle
ferite che risulta così faticoso e inefficace, strappandosi ad ogni minimo urto:
“Dove si riparano le ferite, / c’è un luogo apposta / per rattoppare gli
strappi? / Cuce lentamente con ago e filo / come una sarta attenta / a punti
sottili e uguali. / È faticoso e vede poco. / Gli occhi si ingannano: / le trame
sottili non fanno per lei. / Dà un piccolo punto ogni sera / gelosamente aperta
la ferita / Guarisce meglio richiusa lentamente, / piccole gocce di sangue /
cullano oblio del dolore che resta. / Avida nel cucire, / non abbonda nel filo /
rammenda a poco a poco. / Gli occhi stanchi, dita sottili e ricurve / trama del
cuore indurita, / non viene bene il rammendo / è faticoso ricostruire il tessuto
/ si invecchia non tiene / la tela cede e si allenta, / non riesce più a
rammendare.” (Dove le ferite). Sembra quasi che non si voglia mai guarire
fino in fondo, come per non perdere quel dolore che si rivela paradossalmente
una risorsa nascosta: “Veglia la sera, luce debole, schiena curva, / le mani
faticano a spingere in fondo la cruna, / riprenderla e fermare i punti con cura.
/ (…) Gelosa di questo lavoro / procede con lentezza sulla ferita / assapora il
sangue / ne lascia una goccia / che non perda del tutto l’odore. / Non c’è
guarigione perfetta. / Deve restare un segno, / una fessura, goccia di siero /
ricordo di un male.” (Veglia di sera). Nel ‘tritacarne’ del quotidiano
pure si declina l’infinito nei gesti, nelle parole e nei pensieri che
s’investono di un senso ulteriore: “Parole e libri e parole e vita / e sguardi e
sorrisi / ma quanti nomi ha l’infinito? / Tanti e nessuno: / appare
all’improvviso / e poi scompare.” (Tutto quello che sai).
La morte sorprende la vita in maniera
inattesa, gettando nello sconforto e nel rimpianto, sradica con violenza dalla
rassicurante quotidianità e strappa al protettivo abbraccio dei propri cari,
lasciando soltanto una scia luminosa nelle vestigia di bene e di bellezza
seminate sulla terra, mentre ci si trasfigura in una dimensione sovrumana: “È
stato il freddo di tutti gli inverni di un tempo: / quel corpo lontano rubato
allo sguardo e al sentire. / La rabbia di non averti tenuto le mani.” (Grazie);
“Non hai dato la vita / e un nome al silenzio che ti attende. / La tua vita in
tutto ciò che è stato e rimane, / nei cuori che hai visitato, / nelle parole
limpide / in due piccoli libri.” (Non ho dato la vita); “Dicevi che
nessuno ha trovato il tuo cuore, /- l’hanno cercato e non l’hanno trovato - /
(…) nessuno ha trovato il tuo cuore / non lo troveremo / vivrà intatto nella
notte / come intatto si è fermato, / nessuno può afferrarlo / ha ali grandi e
vola / nei cieli altissimi che pochi abitano e vedono.” (Il mio cuore).
L’amore si tinge di delicate sfumature
e s’impregna di un soffuso lirismo: “Allora, dove il percorso, / se il filo eri
tu? / Per te dipanava matasse di seta / e trame di tela sottile al tramonto. /
Sta ferma guarda lo specchio. / Non riesce a sognare / è assente del tutto e
chiede silenzio.” (Il percorso).
Nella dialettica amorosa tra uomo e
donna si contendono le reciproche libertà e identità, per cui anche la tensione
dell’eros si gioca in questo “limite” dell’umana natura: “Solo non sente.
/ Lei non si vuole, / non vuole esistere. / Si annulla e cade. / Adesso sviene.
/ Per sempre cede al nulla. / Oltre il limite / del seme / non è mite e non ti
mente. / (…) Filiforme oltre l’eccesso nera / si scopre donna senza volere, /
fiore nascosto dal tuo velo / così si svela. / La vedi, adesso? / Tu, vedi?
Urla! / La vedi? Trema.” (Il limite). La personalità femminile trova
realizzazione nell’inerme docilità con cui si consegna all’amore: “Lei desidera
appassionatamente / ciò che appare / e non è. / Sarà mai donna? / Lo è stata
solo in sogno? /Dicono che basta dire sì. / È un momento di ascesa ed obbedienza
/ quello che genera l’eterno. / Così si dice.” (Così, si dice). Il
segreto è proprio in questo abbandono totale e fiducioso, in questo perdersi del
tutto per ritrovarsi nell’altro: “Lasciati andare al sentimento, / la neve
brilla e il tempo corre su binari veloci e anonimi / sempre più nascosti e
incolori. / Incomprensibili all’anima. / Non potrai dare ragione di ogni
movimento / della parola e del suono, / né di ogni attimo trascorso ad aspettare
/ un’aurora. / Sono una donna e so attendere le braccia / di Orfeo che scende
nel Labirinto: / gli tenderò un filo di seta, / non si perderà e non si volterà
/ a contemplare il vuoto dell’assenza / e della perdita. / (…) Potrò gridare il
non senso dell’anima perduta, / tuffata in ciò che non le appartiene / perché
l’amore è tutto / in un altro / in cui è bello perdersi / e annegare. / Lasciati
andare / al moto perpetuo / degli astri, / all’incessante divenire / degli stati
d’animo / inspiegabili, / alla vita così ingiusta / e imperfetta. / E accogli la
sua straordinaria / rinascente musica.” (Lasciati andare). L’esperienza
amorosa sperimenta su questa terra tutta la sua precarietà e imperfezione, non
potendo appagare quella sete di assoluto che solo nell’eternità ci è dato di
godere: “L’amore è imperfetto, / nasce da creature imperfette / e si alimenta di
moti imperfetti. / Ha fame di odori e di sensazioni / naturali nella loro
espressione. / Non ha bisogno di censori e di filosofi, / rifugge dalla
matematica degli elementi. / L’amore è semplice / come un bambino che si attacca
al seno della madre. / Non ama definizioni e non si fa definire.” (L’amore è
imperfetto).
Sfugge perfino la definizione della
propria persona, inafferrabile nella caleidoscopica rifrazione delle molteplici
immagini di sé, come in un ariostesco Palazzo di Atlante: “Prevedibile, nemmeno
a se stessa, / la distanza non fa assenza né resa. / Ora qui non vediamo più
nidi di rondine / sbocciare nel vento, / fiamme accese nel buio / a forarlo ed
ucciderlo come fossero pelle / seppellita al tramonto. / E vorrebbe saperti
felice / anche senza vedere. / Sentire che la mente si ferma / sulla luce del
giorno, / che il silenzio rimane / e nel sogno permane l’essenza del vero.” (Prevedibile,
nemmeno a se stessa). Ci si proietta in un cupio dissolvi, si aspira
a svincolarsi dai limiti del contingente, a spiccare il libero volo, a svanire e
a transumanare nella comunione nuziale dell’Eternità: “La troverai nel
greto del fiume / dissolta nell’acqua / tra i sassi e le falde di terra. / Non
più carne e ossa. / Vorrebbe svanire, / il corpo confuso tra aria e rugiada, /
le felci e le canne nel vento del Vespro. / (…) La assolve, in un ultimo canto
si muove. / (…) È libera e canta nel vento, / il capo reclino, / il viso più
bianco / la Sposa rilascia le mani. / Ti cerca. Non è più da sola. / Un ultimo
soffio la accoglie. / La Pace. Era “il volo delle due colombe” / quel verso
disteso nel buio che cercava / l’aveva trovato.” (Non carne).
Sandra Evangelisti in questa raccolta
poetica tesse la melodia sottile dell’anima che vibra delle suggestioni e delle
impressioni che la sfiorino e la destino dalla monotona spola dei giorni al
respiro di cielo dell’eterno, per illuminazioni fugaci e visioni folgoranti
sospese tra la realtà e il sogno.
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Recensione |
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