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La notte bianca
Le poesie di Živago di Boris Pasternak

Queste liriche sono come tessere di un mosaico che ricostruisce la personalità dell’illustre scrittore russo Boris Pasternak, il quale s’identifica nel personaggio del dottor Živago che lo ha reso celebre, quale controfigura di se stesso che ne svela la sua vivida intimità. Echeggiano i suoi accenti densi di pathos che cavalcano le distese innevate della steppa, che avvolgono il firmamento notturno, che accarezzano la donna amata, che cantano la devozione accorata per la sua patria. Sono versi tesi ad una lucidità poetica che attraversano i deserti della sua anima, che inseguono le proprie chimere, che suscitano emozioni, scrutano pensieri e inseguono illusioni.

Un fascino malioso circonda la visione del paesaggio invernale così peculiare della sua terra, come in un incantesimo che custodisce il sogno di un amore oltre la morte: “Io ero morto già, e ancora viva, tu. / E il vento, con i suoi gemiti di pianto, / fa tremare il bosco fino alla dacia. / E non per proprio conto ognuno / ma tutti quanti insieme gli alberi / nella loro sconfinata quantità / come armature di velieri oscillano / sulla superficie mossa di una baia. / E non per prepotenza, credi, / o per chissà quale furore vano / ma nell’ansia di trovare le parole / di un canto per cullare te.” (Il vento). Il sentimento amoroso sospende in un’atmosfera arcana, ove si annullano i confini dello spazio e del tempo e si confonde la propria identità, sedotti dal sortilegio della bellezza che tutto attrae a sé e trasfigura nel paradosso metaforico della notte bianca: “Siamo presi nella stessa velata / trepida tela di ragno del mistero, / come la città con il suo panorama intero / che piega laggiù oltre la Neva sconfinata. / Laggiù, lontano, oltre gli inarrivabili confini, / in quella bianca luce di primavera, / con uno strepito di canti gli usignoli a sera / fanno echeggiare i boschi come fossero vicini. / (…) E là, come una viandante scalza, / la notte penetra lambendo lo steccato / e, dietro a lei, dal davanzale scavalcato / l’eco delle nostre voci si alza. / (…) E come fantasmi gli alberi dallo steccato / in folla bianca, in coro, sembrano andare / muovendo cenni d’addio per salutare / la notte bianca che tante cose ha rivelato.”

L’amore danza la sua dinamica oscillante e contraddittoria tra unione e separazione, desiderio e stanchezza nell’alterna ambivalenza che gli è connaturale: “Ma, per quanto mi tenga incatenato / la notte con i lacci dell’angoscia, / la spinta alla fuga è la più forte al mondo / e la passione stessa invita a rompere i legami.” (Dichiarazione); “Per noi due si sdoppia così / quest’intera nottata di neve / e non riesco a tracciare / il confine che mi separi da te.” (Convegno). Così, ripercorrendo le tormentate vicissitudini del protagonista Živago, è nostalgia e struggente vagheggiamento della perduta amata: “Gli era in tutto, lei, così tanta cara: / nel pieno disvelarsi di ogni suo tratto / come le segrete rive della costa / lungo la curva linea della risacca. / Al modo in cui affonda in acqua i giunchi / il mescolio di dopo la burrasca, / così nel fondo della sua anima stavano / immersi quei lineamenti e quelle forme. / In tempi di traversie, negli anni / di un’esistenza che non avevano pensata, / l’onda e il frangente del destino / gliela avevano riportata su dal fondo. / In mezzo a ostacoli infiniti, / riuscendo a superare tutte le insidie, / l’ondata l’aveva spinta su / e ricongiunta stretta a lui.” (Separazione).

Il poeta, incarnando la perplessità di Amleto, nutre profonda consapevolezza di quel dramma della vita che nel limite tragico della morte si scontra con l’ineluttabilità del proprio destino: “Il buio notte mi ha già puntato addosso / mille binocoli nel loro fuoco incrociato. / Padre dolcissimo, considera il mio stato / e fa che io sfugga a questo calice, se posso. / La tua regia ostinata va comunque accolta / e io reciterò, va bene, la mia parte. / Ma un altro dramma dettano le carte, dispensami almeno questa volta. / Si innesca la trafila dei gesti come un lampo, / non più eludibile il viaggio, fino in fondo. / Solo, affogato tra i farisei di questo mondo. / Vivere non è come attraversare un campo.” (Amleto).

L’autore vive sentitamente la propria religiosità, scandendo le stagioni del creato e i ritmi dei giorni secondo la liturgia che si celebra, come nella Settimana Santa, ove la terra stessa sembra vestirsi di lutto, ammutolire e inorridire di fronte all’assassinio di un Dio: “Il bosco è spoglio, senza fronde, / e nella settimana di Passione / la schiera dei tronchi in fila / sembra una folla assorta lì a pregare. / (…) Il loro sguardo è pieno di terrore / e la loro angoscia ha una ragione. / I giardini escono fuori dai recinti, / sta vacillando l’ordinamento stesso / della terra: si seppellisce Dio!”

Altrove il poeta ritorna fanciullo per ammirare il prodigio di un Dio che nasce in mezzo agli uomini in un paesaggio incantato e fiabesco: “Lei da sola bruciava come un pagliaio, / là in disparte da Dio e dal cielo, / quasi fosse un riflesso di incendio, / il granaio di una stalla in fiamme. / Si alzava come un covone / un cumulo di paglia e fieno / piantato là nel bel mezzo del cielo / inquieto al mistero della stella comparsa. / (…) A seguirli, cammelli colmi di doni, / e asinelli, più piccolo uno dell’altro, / scendevano lenti dal monte. / In una visione del tempo a venire / di lontano affiorava tutto ciò che è avvenuto. / Tutti quanti i pensieri, le idee e le teorie, / il futuro nel mondo di musei e gallerie, / i prodigi delle fate e dei maghi, / tutte le cose che sogna un bambino.” (Stella cometa).

O ancora intuisce il personale dramma di Gesù, mentre, abbandonato da tutti, va incontro alla sua dolorosa passione: “Poi, giorni sempre più cupi e più crudeli, / con i cuori ormai sordi all’amore / e il disprezzo che aggrotta i sopraccigli, / precipitando verso la sua fine. / Con la pesantezza livida del piombo / il cielo schiacciava tutta la città. / Contro di lui cercavano le prove, / i farisei, strisciandogli intorno come volpi. / E dalle occulte forze interne al tempio / fu consegnato al tribunale della folla: / con l’ardore con cui l’avevano esaltato / gli gridavano contro la condanna.” (Giorni crudeli). Essa trova il suo culmine nella terribile agonia della notte del Getsemani, in un corpo a corpo con se stesso, con la sua umana fragilità, per sostenere l’urto della divina volontà, ciò che contrasta con la cornice arcadica della circostante natura ignara: “Lo scintillio lontano delle stelle / gettava sulla curva una luce indifferente. / La strada aggirava il Monte degli Ulivi / e, sotto, scorreva placido il Cedron. / A metà strada si interrompeva la radura / e, di là dietro, spuntava la Via Lattea. / Canuti, argentei ulivi, sembrava / cercassero di spiccare il volo. / (…) E rinunciava senza più resistere, / come a cose avute in prestito soltanto, / alla potenza e al dono dei miracoli, come noi ridotto allo stato di mortale.” (Getsemani).

Un capolavoro di intensa spiritualità e plasticità espressiva è la figura di Maddalena, incisa nella sua più profonda essenza di creatura che, dopo aver bevuto a rivoli avvelenati degli inganni degli uomini, ha finalmente trovato la fonte del vero Amore, nell’Uomo-Dio che unico ha saputo guardarla non con turpe desiderio, ma con l’innocenza che l’ha riconosciuta quale figlia diletta bisognosa di perdono e di salvezza, ciò che l’ha rigenerata a nuova vita: “Il mio demone arriva con la notte, / a espiazione di tutto il mio passato. / Vengono a mordermi il cuore / i ricordi della mia dissolutezza, / quando, schiava delle voglie altrui, / da ossessa abitavo stoltamente in strada. / Restano per poco quei ricordi, / poi succede un silenzio da sepolcro. / Ma, prima che riescano a passare, / la mia vita arriva all’orlo / e come un vaso d’alabastro / dinanzi a te va in pezzi. / E dove mai sarei io adesso, / o mio maestro e salvatore, / se nelle notti accanto al tavolo / non mi aspettasse già l’eternità / come un cliente nuovo che / avessi preso nella rete del mestiere. / Dimmi cosa voglia dire mai peccato, / e morte e inferno e fiamme e zolfo, / quando sotto gli occhi di tutti / come un getto al suo tronco / mi sono a te congiunta / nella mia angoscia senza fine. / Quando, o Gesù, poggiati / i tuoi piedi sulle mie ginocchia, / imparo forse ad abbracciare / le travi della croce e, smarrendo / quasi i sensi, mi getto sul tuo corpo / a prepararti per la sepoltura.” (Maddalena).

Questi testi hanno il pregio di svelare un Boris Pasternak pressoché inedito, essendo associato come un cliché spesso esclusivamente al romanzo Il Dottor Živago, oscurando in tal modo quel mondo poetico così fecondo e lussureggiante che grazie a questa pubblicazione abbiamo avuto occasione di assaporare, in quelle assorte visioni di ampie distese innevate ove l’anima s’adagia in un respiro lirico che si rifrange come in un caleidoscopio in una moltitudine di immagini che popolano la sua versatile fantasia come gli alberi della sua amata dacia.

Recensione
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