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La parola trascesa e altri scritti
L’autore in questo saggio conduce un’incisiva riflessione sull’ermeneutica,
sull’interpretazione critica dei testi. Egli insiste sul valore trascendente e
sacro della parola, come, ad esempio, in Dante, cui dedica un intero capitolo in
relazione agli studi di Rosario Assunto. È la “parola infinita”, secondo la
definizione di quest’ultimo, “parola che dice più cose in una volta”, che
attribuisce “un senso ulteriore”.
In un “fecondo sincretismo culturale”, che
condensa fonti classiche e cristiane, “la Commedia accoglie e struttura
entro un ardito e libero contesto plurilinguistico e pluristilistico, governato
tuttavia da pitagoriche misure numeriche, piani e livelli diversi, ricchi di
precisi e inaspettati particolari di immediata esistenza.” Nell’arte “si trova
coinvolta la totalità dell’essere umano”: è sempre un approdo ad un oltre. Altro
elemento con cui confrontarsi nel panorama letterario, oltre al dantismo, è
l’orfismo, il cui “mitologema”, “sintesi dell’apollineo e del dionisiaco”,
velato e declinato nelle più disparate forme simboliche, è onnipresente nelle
varie cifre allegoriche. È espressione del “sublime, il sacro, l’”iniziatico””.
Da Rilke a Hölderlin, Pavese, Luzi, D’Annunzio, Dino Campana, Alda Merini, Luigi
Santucci, Dino Buzzati, Pierre Emmanuel, Jean Anouilh, Tennessee Williams:
innumerevoli si sono cimentati, direttamente o indirettamente, con questo
archetipo. Per non parlare, poi, della musica: Luigi Rossi, che nel 1647 fece
eseguire un Orfeo nel Palazzo Reale di Parigi sotto gli auspici del
cardinal Mazarino e poi Bach, Haydn, la trilogia dell’Orfeide di Malipiero, il
balletto Orpheus di Stravinskij, la parodia Orphée aux enfers di
Offenbach.
In Dante stesso si può rinvenire questa traccia mitopoietica: nella
discesa agli inferi, nella quête di Beatrice perduta, nella figura stessa
di Gesù. Nell’Umanesimo si ha una grande rivalutazione con Marsilio Ficino, che
“canta inni orfici con una lira da braccio e ritiene di echeggiare così la
musica delle sfere”, Poliziano, con la Favola d’Orfeo, Pico della
Mirandola. Anche nella pittura si è immortalato questo “Pastore dell’essere”: da
Giovanni Bellini a Tintoretto, a Jacopo Bassani, ad Agostino Carracci, a Rubens,
a Poussin, a Brueghel il Giovane, al Grechetto, a Tiepolo e poi Ingres,
Delacroix, Corot, Moreau, Odilon Redon, fino a Spadini, Savinio, De Chirico.
Robert Delaunay è “forse il più intimamente orfico”, “con la sua pittura lirica
e sensitiva fondata sul contrasto dinamico di luci e di colori, in una sorta di
musica cosmica.” Anche Kandinskij mostra quest’adesione al mito, tanto che
scrive: “La nostra anima si sta svegliando da un lungo periodo di
materialismo(…)”. Apollineaire sottolinea: “Ci s’incammina verso un’arte nuova
che sarà, rispetto alla pittura come l’abbiamo considerata sinora, quello che è
la musica rispetto alla letteratura.” Jean Cocteau trasforma il suo Orphée
teatrale in una suggestiva esperienza cinematografica che culminerà con
Le testament d’Orphée. Marcel Camus con il film Orpheu negro consacra
ancora il mito calato nella realtà quotidiana. Anche in Ungaretti si rileva
questa presenza orfica, in cui il poeta è “destinato a un descensus di
esploratore di abissali profondità, depositario di essenziali segreti, iniziato
e iniziatore a misteri”. Sulla stessa scia troviamo Comi, Onofri, Fallacara,
Montale, Conte, Quasimodo, il quale scrive: “La poesia è una posizione dello
spirito, un atto di fede […] in quello che l’uomo fa.”
Emerico Giachery fornisce una chiave di lettura dei testi che non è mai
dissociata da una “sintonia”, per cui non basta l’analisi scientifica, come se
si trattasse meramente di “cibernetica”, ma occorre la sensibilità per
comprendere ciò che l’autore vuole esprimere. Scrive a tal proposito Pareyson:
“In virtù del suo carattere interpretativo una formulazione della verità è
comunicabile solo attraverso la simpatia, la congenialità, l’affinità elettiva.”
Va considerata una “ulteriorità di vita” in cui si proietta la scrittura, non
vincolata soltanto ai parametri “tecnici”: “Testi come persone, dunque,
testi-persone.” Scrive Guardini a tal proposito: “La poesia è più grande del suo
autore; perciò il compito dell’interprete tende a far emergere questo alcunché
di più grande.” L’arte è un movimento verso la vita, che inverte il processo
naturale verso la morte: “Secondo Zolla, il pittore “si accorge che tutto scorre
verso il nulla e la morte, ma decide viceversa di invertire la tendenza, di
capovolgere il movimento suicida. (…) Invece di farsi trascinare da esso, verso
la sua meta predestinata, il pittore capovolge tutto, arresta la corsa al nulla,
capovolge il processo mortale, lo stringe nell’istante in cui si rivela. Lo
tramuta da ente in essere.””
L’interpretazione di un testo è dunque una sorta di relazione viva, dialettica e
dinamica: “Attraverso l’incontro con i testi (specialmente con i testi più alti
e significativi), con i segni e i messaggi e le immagini del grande sogno che è
la letteratura, finiamo per incontrare vita profonda, per incontrare vita
universa in qualche suo fondamentale aspetto e nesso; compiamo passi, pochi o
molti che siano, in un cammino di esperienza e saggezza, che è soprattutto
itinerario iniziatico verso la comprensione del senso ultimo dell’esistere. O
almeno verso la comprensione degli avari, intermittenti, confusi lucori di senso
e spiragli sull’Essere che a noi, affannati e protesi viandanti non sempre –ahimé
– visitati da folgoranti epifanie mistiche, è concesso di scorgere.”
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Recensione |
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