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L’ultimo angeloQuesta silloge ha per tema la metapoesia, vale a dire l’arte del poetare intesa come missione e sacerdozio a cui consacrare la propria esistenza. Ha un valore profondo, non è mero esercizio letterario o dilettantismo, ma una vera e propria “religione”, la quale esige i suoi riti, il suo credo e fedeltà ad oltranza: “A me ritorna, cavalcando il vento! / A mani pure e veste immacolata, / io, tua sacerdotessa, ora T’invoco. / Favete linguis! Nel silenzio arcano, / secondo il rito, offerte per Te spargo: / frutti di bosco, foglie profumate, / fiori di ciclamino e di verbene, / sacrifici gentili ed incruenti. / (…) Ritorna a me, ricrea quel dolce incanto, / Sacra Poesia, la dea più venerata! / Nunc et semper tua, tibi devota, / tendo la coppa con le mani unite: / Tu riempila di Te, Tu a me Ti dona!” (Favete linguis). Inoltre, costa molta sofferenza e sacrificio: il poeta vive il disagio di essere uno straniero in questo mondo, un incompreso, ciò che soprattutto nel Novecento è stato incarnato da diversi archetipi, dall’albatros di Baudelaire, al déraciné dei decadenti, al “piccolo fanciullo che piange” di Corazzini. Così, l’autrice avverte drammaticamente un senso d’inutilità e d’impotenza: “Mi sento come chi cerca di vendere / un chicco d’oro a gente in quarantena, / affamata di pane e priva d’acqua. / Come chi presta il vano suo soccorso / a una battaglia d’esito già certo, / il campo e il fiume rossi ormai di sangue. / E come chi si sente inaridire / sulle labbra parole di conforto / per un dolore atroce immedicabile. / Così, dopo una vana fioritura, / io lascio i gigli miei spargersi al vento.” (Io, poeta, oggi).
La poesia è come una principessa addormentata che si esorta a non destare dall’incantesimo del suo sonno, cullata dalla contemplazione estatica, da dolci sogni e splendenti ideali, proteggendola dal brusco risveglio del reale: “Dorme la mia poesia. Non la svegliate! / Ché, se si desta, non saprà cantare / albe, tramonti, soli radiosi, / fresche sorgive e boschi profumati, / come solo sa fare; ma, esitante, / grandinata da nembi tempestosi, / che le scagliano addosso di continuo / guerre atroci, massacri e insane gesta, / non potrà più ispirarsi a quella fonte / limpida e pura, rilucente specchio / d’una bellezza intatta, ormai perduta, / stretta d’assedio e già vinta e violata. / Dorme la mia poesia. Non la svegliate!” (La bellezza violata). La trasfigurazione poetica accende la visione onirica, la dà alla luce nella creatività artistica: “A volte la poesia va in fondo all’anima, / dove dorme il bel sogno inconfessato: / lo toglie, lentamente, da quel grembo; / gli dà luce; lo sveglia, accarezzandolo; / lo aiuta ad allargare le sue ali, / quelle ali trasparenti, luminose / d’azzurra, eterea, fragile libellula; / poi lo spinge, amorosa, al primo volo; / ma soffre e lo saluta, mesta e pallida; / lei lo sa destinato a vita effimera.” (Il sogno inconfessato). Interessante è l’identificazione del poeta con la figura mitica di Tespi, inventore della tragedia itinerante, il quale col suo carro trasporta le storie e le maschere di fronte ad un pubblico spesso ottuso e superficiale: “Tespi, il poeta, ha pronte meraviglie / sul suo povero carro itinerante. / Una tela dipinta e qualche straccio, / ma, in abbondanza, maschere e coturni / e un prezioso strumento musicale. / Basta poco perché sappia creare / piccole e grandi storie, sempre nuove, / diffondendo un incanto che non muore, / perché produce magica catarsi. / Ma il pubblico è attirato da ben altro: / giochi feroci o stupidi trastulli, / finiti i quali, non rimane nulla. / Tespi lo sa, ma non si vuole arrendere: / ci sarà chi vorrà ascoltarlo ancora. / La folla in plauso, in fondo, non gli occorre; / gli basta lo stupore che rinasce / dentro gli occhi stellanti di un bambino.” (Tespi, il poeta). La poesia veste talvolta anche i panni funebri, quando evoca una persona cara defunta, immortalandone la memoria, altrimenti sconosciuta: “Talvolta, la poesia mette ali brune / per volare in remoti cimiteri; / fra le tante si posa su una tomba, / poi, in ginocchio, vi piange fitte lacrime, / riempiendone il cratere fino all’orlo. / Perché, se quella vita non ritorna? / e perché, tra le molte, proprio quella? / Lei non lo sa, ma sa che deve farlo: / quel pianto molce il cuore dei viventi / che vorranno bagnarvisi; ed anch’essi / verseranno il tributo di una lacrima, / di volta, in volta, nel cratere santo. / Così, viva nel cuore dei viventi, / quella vita che fu, che più non è / e che, nel tempo, non sarà mai più, / simbolo arcano, accolta nel ricordo, / grazie a quel pianto sarà resa eterna.” (Talvolta, la poesia). Il canto del poeta adulto è diverso da quello del giovane che si affaccia alla vita ridente di “belle fole”, per dirla con Leopardi; è venato di nostalgia, di stanchezza e di rimpianti: “Cos’è il sogno per te, caro Lorenzo? / È un tuonante fragore di battaglia, / che scuote fin nei visceri la terra, / è gioia di conquista ed esultanza, / o maliosa sconfitta, in fasi alterne. / E nei tuoi sogni, tu cavalchi il vento, / conquisti la Bellezza, tua signora: / poi le sorridi e Lei diviene eterna. / (…) Cos’è il sogno per me, Lorenzo caro? / È l’ombra del passato, la Chimera / che lusinga le notti e non il sole, / se i ricordi-fantasmi, che richiamo / talvolta, non mi fanno troppo male. / Lontane le vittorie e le battaglie, / m’incanto ancora a un’ala di libellula / azzurra, frale, di bellezza effimera. / (…) A me non dà corone la poesia, / solo un conforto breve, / una carezza / di madre esperta e saggia, che conosce / i pericoli, il male e la follia.” (Sogni diversi, dedicata ad un giovane poeta). In un mondo dominato dalle tenebre e dalla menzogna la poesia appare come una specie in via d’estinzione: “Regina fantasia, non più regina! / Tu che fosti la dolce Biancaneve / del bosco, / in mezzo ai tuoi antichi Nani, / ora dormi di un sonno senza sogni, / incubo nero, che non ha conforto: / ché nel mondo ora impazza la Matrigna / con la corona d’oro del potere, / e premia chi fa onore al Dio del male, / usa soprusi e dice adulazioni.” (Regina Fantasia). La poetessa rimpiange la felice vena lirica (“un tempo veramente una canzone / gaia ed allegra, viva e spumeggiante”) rispetto al “ritmo assurdo, folle, l’ossessione / di questo martellante ritornello”, invocando l’ebbrezza dell’ispirazione creatrice: “Ma adesso, a me, svuotata d’ogni senso, / scandisce solamente noia amara; / la mia è fatica inutile e infinita, / il macigno di Sisifo era niente; / non ho più voce per ridire ancora / solo un refrain monotono e incessante… / Di nuovo fa che inventi una canzone / con due nuvole, un prato e, in mezzo, un fiore; / ho bisogno davvero di creare: / (…) Non più canzone d’altri vecchia e stanca / di andare sulle labbra della gente, / ma una musica nuova, entusiasmante, / Te ne prego, o destino, già da tempo; / non bramo avere l’oro, né i brillanti: / quale piuma di cigno al lieve vento, / uno zefiro dolce, accarezzante, / di nuovo innalzi fragile canzone / le sue ali di farfalla su quel fiore!” (Fragile canzone). Nello sterminato deserto dei giorni s’accende un ardente miraggio, “il folletto del sogno, un’illusione” che seduce irresistibilmente, anche se la ragione lo respinge: “Perché continuo sempre ad inseguirti / e perché tu continui ad invitarmi? / (…) Felicità, lo so, non è per gli uomini; / non mi sfugge, perché sono un poeta, / che nel libro dei volti legge il cuore / intero, anche se questo si nasconde, / tentando di celare i suoi segreti. / (…) Però, se appena mi distraggo un poco, / mi risveglio a te dietro, o mio folletto, / ogni volta diverso, eppure uguale, / che, ammiccante, leggero, capriccioso, / mi invischi in un bel sogno per un tempo, / che è sempre troppo breve; / e poi sparisci, / come fata morgana, che delude, / nel deserto, assetati viaggiatori.” (Il folletto del sogno). Il dolore è spesso la sorgente nascosta e pura che alimenta la poesia: “Così vivo il dolore / trapunta, nei miei versi, in fili d’oro, / artistici ricami. E si consola.” (Davanti ad un arazzo con scene di guerra). Suggestiva è la metafora della Poesia come dama bellissima tanto sospirata, la quale sprona il cavaliere cortese a cercarla per terra e per mare: “Ho attraversato a nuoto i sette mari, / nella corsa ho sfiancato il mio cavallo, / non mi ha distolto grandine o tempesta, / e, senza forze, ancora non mi arrendo: / da tempo cerco la Poesia Perduta, / fuggita via da me, senza voltarsi, / prima che io volessi darle omaggio / e per Signora la riconoscessi. / Abbaglia più del sole coi suoi raggi, / ma brilla dentro il cuore un solo istante, / tutto vuole per sé e immantinente, / sebbene Lei sia mobile e incostante. / Ho cercato per mari e fiumi e monti, / per piani sterminati e per deserti, / correndo dietro alla più lieve traccia / per ritrovarne pallidi fantasmi. / Invano bramo la Poesia Perduta: / ma se la rivedessi anche un momento, / mi troverebbe fatto degno amante: / starei con Lei, felice, notte e giorno, / La terrei stretta a me, senza stancarmi / e, se volesse, Le offrirei la vita / senza timori e senza alcun rimpianto.” (Dove vai?). La Musa s’investe di un’inviolabile sacralità che esige assoluta purezza dai suoi adepti: “Solo il poeta se ne sta in disparte. / Solo il poeta beve dalla luna / quella sua luce amica e misteriosa / con un lieve barlume di follia, / ma riflessa, filtrata, ormai serena, / che reca in seno semi di saggezza. / (…) Fili di luna intreccia e son corde / per far suonare l’arpa del silenzio, / dolce rintocco al fascino dei versi. / È vano forse, ma splendente il sogno; / è illuso forse, eppure sacro il canto!” (Melissa e la luna). Alla poesia si consacra la propria vita e il canto più limpido e sublime sarà l’ultimo, quello del cigno, prima di essere sfiorato dalla morte: “Il più bello dei canti sarà l’ultimo: / lo sento e so che, in esso, saprò essere / quale il cigno morente della favola. / Raggiungerò la melodia più pura, / rintocco a un inno sacro, irripetibile, / reso sublime da splendenti immagini; / saprò riunire l’armonia del verso / con quella della vita e farle amare; / in esso effonderò l’estremo palpito / di cui sarò capace nel mio cuore, / e in nulla cederò, sino alla fine. / Poi, stanca, ritrarrò le nivee piume / e poserò per sempre il fiero collo.” (Il mio canto del cigno). Maria Giovanna Perroni Lorenzini in questi versi insegue “l’ultimo angelo”, vale a dire la fresca sorgiva dell’autentica ispirazione creativa, la terra vergine, inviolata, liberata dall’assedio della vanità mondana, ove possa fiorire la primavera eterna dell’anima: “Io ti vedo, o Poesia, come una schiava, / ornata di diamanti o d’oro falsi, / mostrata nei salotti o nelle piazze, / orgoglio di padroni o di lenoni, / ciechi della malinconia dentro i tuoi occhi; / e sempre bella, nonostante tutto. / Ma sogno di trovarti ancora vergine / e, svelandoti un cuore ancora puro, / il cuore del tuo ultimo poeta, / di riuscire ad accendere il tuo sguardo / con l’amore; di scioglierti la zona; / e far nascere in te l’ultimo angelo.” (L’ultimo angelo). |
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