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Mezzogiorno dell'animo
Mezzogiorno dell’animo:
il titolo suggerisce la vertigine di dolore, il picco di canicola del sole al
meriggio che abbaglia e stordisce, nell’afa opprimente. È un arido, sterminato
deserto, in cui non attecchiscono più teneri germogli di speranza, fresche
corolle di sorrisi: “Di me non resta che inaridito deserto, | la terra che si
difende strenuamente | moltiplicando in polvere particelle, | pronta a ritrarsi
al primo alito di vento | nascondendosi in altrettante mille forme. | Chi potrà
mai intendere che, dietro la sabbia, | un tempo c’era amore, il verde rigoglioso
| di un eden, nel tempo, per sempre perduto.” (Eden perduto). È una
condizione di smarrimento angoscioso, in cui il memento mori grava come
una spada di Damocle sulla propria vita, infesta i pensieri come una vera e
propria ossessione che si compiace del macabro, un po’ come il gusto malsano con
cui Baudelaire accaniva la sua meditazione poetica sulle carogne. Ad esempio,
nel racconto Un giorno, una mosca, per caso, si racconta della
vicissitudine dell’omonimo insetto depositato come larva tra le piaghe di una
morente che poi, dopo essersi saziato del cadavere nella bara, finisce ucciso da
uno schiaffo distratto della sorella della defunta che sostava presso la tomba.
Ricorda un po’ lo stile di morbosa ironia di Landolfi, tutta volta a
vivisezionare quanto di putrescente vi è nella natura umana. Si fa riferimento
spesso, infatti al processo di decomposizione, nel ciclo ordinario dell’uomo, al
“degrado biologico, tanto naturale quanto ineluttabile e impietoso”, forse
proprio per esorcizzarne l’orrore: si vuole, in qualche modo, con esso
patteggiare, per addomesticarlo, per così dire, poterlo dominare quasi
sfidandolo e sbeffeggiandolo, o comunque, rimuovendo quello che, soprattutto
oggi, in questa società patinata che inneggia al culto dei corpi, ossequia
l’edonismo e ha rinnegato il senso religioso dell’esistenza, rappresenta un tabù
da occultare e segregare nelle ermetiche stanze di tenebre in cui si consuma
quel rito incomprensibile, assurdo e inaccettabile che è la morte.
Vale anche il binomio
Eros-Thanatos; anche quando si vive l’esuberanza dell’amore, si proietta
l’ombra lunga della disgregazione che lo insidia, a perpendicolo della luce di
meriggio: “Sogno il fantasma di te: | sussurra cadenzando | mentre sfuma
svanendo | sagoma di reviviscenza. | Sogno di un mondo lontano, |
irraggiungibile, un mondo | che la morte sa scalfire. | Sogno e quel sogno |
lentamente, prende lo sguardo | di un teschio, l’ultimo a svanire | dalla tomba
segnando, secoli | prima dell’avvento della polvere, | l’imperversante giorno:
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la mancata unione sgomenta | il risveglio generando attesa.” (Sogno di un
mondo lontano).
Di fronte allo sfacelo del mondo
e della natura umana il sentimento religioso è un’insurrezione dello spirito che
rivendica lo spazio fiorito del silenzio ancorato a Cristo, che dona la pienezza
di vita rispetto ad una rattrappita sopravvivenza di mediocrità: “Se prive di
slanci, | le vie di mezzo | non salvano, | generano mediocri, | pasoliniani
mostri, | vinti assoggettati, | vili conformisti. | Cristo è infinito, |
incondizionato amore, | lo slancio più alto: il dono! | Predilige la sincerità |
e dà forza e coraggio | che liberano il cuore | dai vincoli del nulla.” (Disinfettami
l’anima). Anche il dolore, allora, acquista un senso, in un sublime disegno
di redenzione: “Annullami o preservami, | ma in te, nella passione, | nulla mai
scorrerà invano. | L’attesa e le stazioni del dolore | a Te conducono, o
Signore.” (L’ornato giardino perduto). Nel Cristo crocefisso, è come
eretto un pinnacolo dall’abisso, per cui la maledizione del malfattore, dalla
Sua innocenza divina assunta, diventa benedizione di salvezza: “Pende dalla
croce, | vergato e proscritto, | della vita prosciolto | e dal Padre raccolto.”
La silloge si
conclude con il suggestivo lirismo di Madrigale della morte, una poesia
in lingua spagnola di Francisco De Icaza tradotta dall’autore Enrico
Pietrangeli, ove si offre un’immagine idealizzata dell’ineluttabile
appuntamento, in cui viene riscattato quel degrado della materia che fin qui ha
imperversato, in una proiezione bucolica di un corpo sepolto che rinasce in
un’osmosi panica di una lussureggiante primavera: “Tu non fosti un fiore, poiché
il tuo corpo era | in ogni primaverile infiorescenza. | Uno sgargiante e fresco
garofano furono le tue labbra rosse, | azzurri non-ti-scordar-di-me i tuoi occhi
chiari, | e con venature e carnagione di giaggiolo e giglio | quella fronte
pura, quella fronte buona | come rispondeva a tutto arrossita | virando le
guance al colore della rosa.| Oggi, che sotto al cipresso vicino al lauro, |
rose e non-ti-scordar-di-me, giaggioli e garofani, | germogliando dalla terra,
confondono i propri colori; | sembra che il tuo corpo te lo restituiscano in
fiori.”
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Recensione |
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