Per sillabe e lame
I versi di Francesca Simonetti
penetrano come lame taglienti al midollo sostanziale della verità, bucando la
scorza dell’apparenza per incidere la realtà più intima e nascosta. Attraverso
l’avvicendarsi delle sillabe si compone una sinfonia sublime che sottentra
all’arcana armonia modulata dal gioco dei contrasti tra luci e ombre, “dai suoni
melodiosi e stridenti in alternanza”, mentre la catarsi artistica media tra i
due poli opposti di bene e male in cui si dibatte l’esistenza in una drammatica
dialettica, come è espresso nel prologo, in una nota dell’autrice: “Le sinfonie
armoniche risuonano nella mente degli esseri / umani come “fabulae” spogliate di
ogni orpello / e delle stesse fate che le popolano, (…) / la poesia cerca di
costruire un ponte fra i due estremi, / giammai potrebbe osare di colmarne il
vuoto, / soltanto può sperare di narrare la realtà / che apparentemente si
espande e si protende / verso il futuro ignoto, melodiando la parola.” Questo
chiaroscuro che è alle scaturigini dell’ispirazione creativa è anche il
contrappunto che dà origine alla Sinfonia per sillabe: “Ti ritrovo suono
sordo – melodia / ossessione – abisso dopo la scarpata / orrore strisciante –
perversione / ambigua come l’innocenza / pregiudizio prepotenza / ma pur sempre
ignota dissolvenza / (…) corda spezzata della saggezza / in sintonia di note –
nel bene e nel male.” È un mistero indecifrabile incastonato nel cuore pulsante
della vita stessa: “ora riemersa dall’anfratto rimosso / schiara l’enigma –
spezzando il silenzio; / mia ragione, che mimando il cuore / t’illudi di donare
amore, ritorna / negli anfratti del tempo, tacendo.” (Silenzio spezzato).
Si anela che le parole si
prolunghino oltre i limiti del tempo e si dilatino di là dai confini dello
spazio: “Risuonano le sillabe del futuro - / sezionati i pensieri in segmenti /
il tempo sconfitto non più mi apparterrà / (…) dell’amore posseduto trarrò
soltanto / un suono siderale da tramandare nello spazio - / sulla terra
rimarranno statue e simulacri - / le frecce soltanto staccherò dalla faretra: /
trapasseranno i corpi? / L’etere ne tratterà l’essenza / gli atomi vagheranno
nello spazio – l’incubo s’eternerà nel cosmo?” (Sillabe del futuro). Si
vorrebbe neutralizzare il potere legato alle coordinate temporali, sottrarsi
alla schiavitù del contingente con il libero volo dell’anima, nello slancio
pindarico dell’arte: “Continua la tua fuga, tempo / che t’inabissi e t’involi /
che ti fai sogno e a tratti macigno / che opprime - / voglio renderti vuoto /
come spazio intercalato fra le stelle / come lago prigioniero fra anguste sponde
/ sabbie mobili come mortali agguati - / spazio e forme di pensiero: il vuoto
che torna / per un afflato disumano / angelica sostanza – vittoria sull’inerzia
- / lacrima che irrora – pianto di stelle.” (Fuga). La scrittura ha la
prerogativa di assicurare l’immortalità, di incidere e di fissare sulle pagine
l’umano vissuto che altrimenti trascorrerebbe ignoto, come orme sulla riva
inghiottite dalle onde: “nulla / sulla terra si rifarà vita / solo la parola
scritta s’eternerà / nel vortice del vento / che scardina pure i chiodi della
croce / dove ognuno depone i suoi dolori.” (Strappo). Questa brama di
eternità sembra essere la sorgente primeva dell’ispirazione poetica: “solo la
parola connubio / di spirito e sangue / s’imprime sulla carta eternandosi - /
(…) magnetica forza della giovinezza / impressa nello spazio, in ogni forma di
vita - / in ogni pietra, in ogni punta di roccia / che sul mare si protende /
come le mani prigioniere / d’un lontano giardino senza fiori / né conchiglie
rubate al mare / e poi nascoste negli strati profondi - / sicuro porto dove
neppure l’uragano / ne potrà scuotere la quiete / tenace oasi – caparbia volontà
/ d’eternare la vita, l’amore.” (Mani prigioniere). La poesia è l’ardente
miraggio, di là
dall'oasi virente di un’estatica evasione, che balugina nello sterminato deserto
dei giorni: “Si spera la poesia / che scende come manna / da un cielo oscurato /
dalla storia di tutti e di nessuno / inganno che si sovrappone / in una sequela
d’estasi / di gioia ad arte / rappresentata / sulla scena muta della vita - /
intanto soltanto l’eternità / specchio dell’infinito si stende / come schermo
bianco / innanzi al nostro sguardo incerto.” (Sequele d’estasi).
La morte appare come un lampo
accecante di verità, un’epifania dell'assoluto: “Sento nella memoria il nesso /
in quell’essere presenza non richiesta / eppure giammai in eclisse - / balenio
della luce / nel cuore d’una galassia quand’è notte - / forse viene così la
morte / come uno strappo di memoria / proiettato nel futuro / col passo lento
dell’agguato / o come il guizzo lento / d’una serpe strisciante ma invero / con
l’artiglio aquilino che ghermisce / la prole ignara che si pasce / nella pianura
innocente -.” (Irrisolto dilemma).
A tratti balenano sprazzi fugaci
che svelano l’intima essenza della realtà: “Ora che la distanza (imperfezione
dell’essere / mortali o inesistente / perfezione d’amore?) in catene s’eclissa /
tentando una fuga sul filo del tempo / s’intravede uno squarcio / un’opaca
trasparenza nell’impassibile schermo che dilata ogni cosa; / precipita l’inganno
– si deforma / il volto asimmetrico del male / si dissolve la diabolica possanza
- / dolcezza di zefiro liquefá pure / le pietre-dissolvendo la nube scura -.” (Opaca
trasparenza).
Vi sono intuizioni folgoranti
che affondano le radici in una profonda speculazione meditativa: “è il freddo
che tiene all’erta – il sole / coltiva inesistenti verità per noi / orfani di
libertà.” (Intermezzo); “solo i volti amati / reggono il reale – un
abbraccio / che salda attraverso un filo - / la voce ricomposta dopo la
frattura.” (La voce ricomposta); “Forse la poesia potrebbe essere
transumanza / per gli umani trafitti dal gelo / ma ripido si fa il cammino della
conoscenza / e si erigono pareti di roccia / senza sentieri che ne permettano /
il passaggio: nuovo Caronte / trama una pianura senza mare.” (Baguette
stellari).
L’inchiesta poetica di Francesca
Simonetti è sospinta dall’ansia di una vita imperitura, che oltrepassi i confini
angusti di questa terra, per proiettarsi nell’eternità: “E quando l’urlo tacerà
/ nell’abbraccio dell’ombra / che si porrà sul corpo inerte / si faranno realtà
l’invisibile e / l’eterno divenire: solo la roccia / canterà la sua vittoria
nascondendo / i suoi cuori preziosi – smeraldi e rubini / con lo splendore
diamantino / della gemma amorosa / che ormai si frange nella corruttibile /
visione d’altri mondi perversi. / E noi rimasti in simbiosi con la terra /
versiamo il nostro pianto / sulla nuda roccia che ne fa linfa / fra le sue
preziose gemme, / scorre intanto il veleno / nelle acque del mare mentre noi /
attendiamo di passare all’altra riva -.” (Come pioggia di pianto).
Di fronte allo spettro della
fine inesorabile di tutte le cose e al tetro oblìo della morte s’invocano, quale
àncora di salvezza, l’assolutezza ideale e la libertà incondizionata dell’arte,
mentre si trasmette al lettore l'incognita di un insoluto dilemma: “La nostra
finitudine ci opprime – l’orrore dei delitti / ci attanaglia – ritorna la belva
nell’umano: l’arte ci salva?” / La parola o la nota d’una corda – il suono /
muto – il suono assordante – la melodia profusa / degli spazi siderali – i
battiti / dei nostri cuori in solitudine feconda - / nevermore-nevermore batte
sempre il corvo sul vetro / o nella mente come nenia / d’altro tempo o d’altra
dimensione?” (Congedo).
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