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Sinfonia per San Salvi

Questo testo, una “sinfonia” di meditazioni, sensazioni ed emozioni, è un prezioso contributo ad un tema scomodo di riflessione quale la malattia mentale, ma attraverso una prospettiva insolita, vale a dire dal punto di vista del “matto”, considerato quale soggetto pensante - e non oggetto esclusivamente di cure, quasi fosse cosa inanimata- , dando voce ai suoi moti interiori, alle sue aspirazioni ed impressioni.

È il metodo Basaglia che restituisce dignità a queste creature, le quali hanno una loro storia di sofferenza da rispettare, una propria logica, un filo di Arianna da seguire nella matassa aggrovigliata dei loro pensieri, nell'intricato labirinto della mente, per poter trovare vie d’uscite. È un'impostazione innovativa e costruttiva, che può favorire la riabilitazione e l'integrazione del malato mentale nella società, attraverso l'ascolto delle sue esigenze e il riconoscimento della sua persona: “Il soggetto della psichiatria può essere capito, così come tutte le alterità, solo se lo introduciamo non nel nostro monologo, ma nel dialogo.” (Carmelo Pellicanò, l’ultimo direttore del manicomio di San Salvo).

È una cultura, questa, improntata ad un'autentica umanità, che purtroppo ancora oggi fatica a radicarsi nella cosiddetta “società moderna civilizzata”, ove, per esperienza personale, si riscontra una tale barbarie disumana da ostracizzare, discriminare, demonizzare chi è anche solamente, per una sorta di “plebiscito popolare” – che oggi naviga più velocemente nella ferocia compulsiva della rete – tacciato di pazzia. Pare, nella dittatura imperante dell'idiozia, nell'omologazione del pensiero di massa, che la diversità costituisca un pericolo, una minaccia per le famiglie felici da mulino bianco, per i bambini che giocano, per gli innamorati che si abbracciano, tutti coalizzati all'unanimità contro il “mostro” da additare, da segnalare alla polizia e all’ambulanza perché –‘arbitrariamente’ in libera uscita, la “belva rara” da catturare, la “strega” da mandare al rogo, ciò che evoca l'oscurantismo medievale, che alligna imperterrito nell'ignoranza e nel pregiudizio atavico. “Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo”: ricordava incisivamente Quasimodo.

E il brano musicale di Cristicchi – un vero capolavoro – citato in quest'opera è di eloquente ammaestramento: “Ora prendete un telescopio, misurate le distanze / E guardate tra me e voi, chi è più pericoloso?”. Sembra che la ferocia della moltitudine esiga sempre un capro espiatorio cui addossare tutte le colpe – come, emblematicamente, nella Bibbia, si riversavano tutti i peccati sul capro “Azazel”, poi rimandato nel deserto con tutto il suo carico di negatività – quale incarnazione del lato oscuro di ognuno da rimuovere dalla propria vista. Così al matto si può attribuire ogni aberrazione, addirittura delitti o intenzioni criminali senza alcuna fondatezza, ma avallati dall'ipocrisia perbenista che scarica sul poveretto, il quale vorrebbe soltanto essere libero di vivere in pace la sua vita e che di certo ha più fantasia alata delle loro contorte insinuazioni che a lui non sfiorano neanche il cervello, ma che galleggiano nelle meschine costruzioni ideologiche dei “sani”. E direi, con il cappellaio matto, “a questa normalità preferisco la follia”. A proposito di questo stigma violento e deleterio come un veleno, una vera e propria folgorante epifania -tratto caratteristico del lampo di genio della Merini che ha attraversato e trasceso la follia – sono questi suoi versi: “E dopo, quando amavamo, / ci facevano gli elettrochoc, / perché, dicevano, un pazzo / non può amare nessuno.”

Riguardo a questi temi mi torna in mente la figura de “o Pazzariello”, magistralmente celebrata da una scrittrice dalla chiaroveggenza profetica come la Morante, similmente a tutti gli artisti: un ragazzo libero, che andava in giro tutto il giorno, cantando “Cielito lindo”, che non faceva del male a nessuno, eppure con la sua scanzonata allegria infastidiva il grigiore borghese che alla fine reclama la sua morte. La follia poi è una protesta d'innocenza, un rifiuto ad accettare la logica perversa di questo mondo (vedi il principe Myskin de l'Idiota di Dostoevskij o Manuel di Un exode ordinaire di Bichelberger), rinchiudendosi nel proprio, come in un limbo dorato, al riparo dal frastuono osceno, dalla brutale iniquità. Infatti, il destino del matto è equiparabile, nella sua tragicità, a quello di Cristo, che scatenava nella folla la smania insaziabile di accuse – per scagionare se stessi – e la brama di cattura, fino al turpe assassinio. Con Lautréamont possiamo dire: “l’innocenza è un catino di sangue”, per cui sembra che non se ne sopporti neanche l'odore e che si rivendichi puntualmente l'agnello sacrificale.

Questi testi sanno trattare con arguta ironia un tema così ostico all'opinione pubblica, traendo testimonianza, come una sorta di accurato documentario – corredato di foto – dal manicomio di San Salvi a Piombino, le cui mura trasudano ancora dei gridi soffocati dei “pazzi”. Il linguaggio, lussureggiante di immagini metaforiche, ridondante di enfasi barocca, mira a riprodurre la “poesia aumentata” (secondo la significativa definizione di Roberto Mosi in Ouverture), tesse la polifonia dei disparati e multiformi accenti della “follia”, in cui si accavallano – senza soluzione lineare di sequenza – suggestioni, input, pulsioni automatiche, ‘connessioni’ e ‘sconnessioni’ neuronali, archetipi mitologici deformati da una forza centrifuga (le Agitate), in una sorta di grottesca allegoria, come a seguire l’inquieta deriva dei pensieri, quali flutti schiumanti e indomiti. Interessante contributo è Corrispondenza da negare, in cui si portano alla luce missive mai recapitate dei pazienti, con tutto lo scandalo del loro dolore e dei soprusi subiti, il cui grido soffocato non trova eco, come un buco nell'acqua del pantano dell’ipocrisia del mondo.

Vi trapelano i loro sentimenti, stati d'animo, la cui legittima espressione, tuttavia, è negata: una corrispondenza rimandata indietro al mittente, senza feedback di ritorno, voce che non trova ascolto. L'ultima sezione, Terra Liberata, è la vittoria dell'umanità capace di accogliere anche le voci dissonanti e “fuori dal coro”, l'elogio della follia come forza ancestrale, dionisiaca, che sommuove le zolle dal torpore dell'indifferenza e della tabula rasa mentale, sconvolgendo con i suoi impeti di emozioni, i soprassalti di intuizioni che come cavalli imbizzarriti si ribellano all'ordinaria ottusità, come “un’erbaccia” dura a morire: “E com’è che l’agave ha permesso all’erbaccia di sottometterla? Che forza, che energia dirompente emerge, spinta da sotto questa terra. Non è un luogo abbandonato, come credevamo: qui scorre una linfa antica, misteriosa, tenace. Che sia il dolore, la rabbia, che siano le grida o le risate sconce, le pitture sghembe sui muri o quel tralcio di filo dorato della festa di Natale che ancora pende dal refettorio.

Che sia insomma la follia, quel nutrimento misterioso che ha concimato, innaffiato, incitato la natura che qui si celebra senza ostacoli, entra negli anfratti, si insinua nei mattoni e nelle inferriate, nei vetri rotti, esplode di palme, prega, tendendo verso l’alto le cime degli alberi? Non dimenticate questo luogo! sembrano invocare le lunghe ombre verdi, ci siamo ancora, siamo gli spiriti folli, ma non come voi intendete, non abbiate paura. Follia non è necessariamente angoscia, è vitalità diversa, altra, estrema, ancestrale; non possono costringerla né muri né reti né tempo. Una vita che insiste, nonostante tutto, che ha le tonalità infinite del verde e la musica degli insetti e degli uccelli, e disegna l’ombra. Che aleggia e la senti addosso, come senti il salmastro del mare anche in lontananza, quando delle onde ti giunge solo il sussurro. Voi ora venite a trovarci, mormorano gli spiriti folli, ci fotografate, scrivete versi su di noi. Adesso siamo gioia, scorriamo liquidi nella clorofilla e cantiamo con i grilli, gli uccelli, la civetta.” (La città della gioia di Nicoletta Manetti); “Al margine della città / i cigli erbosi della strada / i bordi dei campi dove nasce / un’erba strana, senza nome / l’aiuola dismessa, indecisa / sulla sua natura, / indefinita sul suo destino. / Zone libere / zone che sfuggono al nostro controllo, / meritano rispetto per la loro verginità / per la disposizione naturale all’indecisione. / La diversità / trova rifugio sul ciglio della strada / l’orlo dei campi, un acquitrino / o un piccolo orto non più coltivato / un piazzale invaso da erbacce / o il margine di una fabbrica. / Residui dove nascono cose nuove, idee nuove, forze nuove. No. / Potrebbero nascere / ma non è detto che nascano.” (Cigli erbosi).

Suggestiva, densa di potenza evocativa e meditativa è questa presentazione dell’“Elogio delle erbacce” di Richard Mabey: “Quando intralciano i nostri piani o le nostre mappe ordinate del mondo, le piante diventano erbacce. Quella vegetazione non aveva nulla di bello o affascinante, non richiamava i fiori selvatici della poesia bucolica... Eppure pulsava di vita, una vita primitiva, cosmopolita… Queste piante erano avvolte da un’aura magica, come se l’incantesimo dell’“area dismessa” rendesse tutto possibile. Naturalmente, “tutto dipende da cosa si intende per erbacce”. La definizione è la storia culturale dell’erbacce. Come, dove e perché classifichiamo come indesiderabile una pianta fa parte della storia dei nostri incessanti tentativi di tracciare i confini tra natura e cultura, stato selvaggio e domesticazione. Per certi versi questo libro [“Elogio delle erbacce”] è l’invito a considerare queste piante fuorilegge per quelle che sono, capire come crescono e perché le riteniamo un problema. Per altri versi è una storia umana. Le piante diventano erbacce perché è così che la gente le etichetta. Le erbacce rompono i confini, sono la minoranza apolide che sta a ricordarci che la vita non è poi così ordinata, ed è proprio da loro che potremmo imparare a vivere – come accadeva un tempo – a cavallo delle linee di confine della natura.”

Recensione
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