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La levità delle emozioni riecheggia in
questa raccolta di versi che rincorre la fugacità delle sensazioni e delle
impressioni fissandole nell’immortalità impeccabile dell’arte. Immagini
icastiche e delicate suggeriscono un’atmosfera rarefatta, in cui si respira la
dimensione aleatoria della poesia. Tuttavia il punto di partenza è un dato
sensibile: la voluttà dell’amore, la bellezza della natura, la polpa succosa
della vita. Tutto ciò non è che un pretesto per spiccare il volo pindarico della
fantasia e dell’elegia idealistica. Sogni sospesi appunto, come le “nuvole
chiare” che veleggiano nel golfo azzurro dell’Eterno. Il poeta insegue la
superba imago divina della bellezza nel creato, nelle creature, nella
propria anima: “Nel suo segreto | ognuno | ha una traccia | d’azzurro” (Canzoni).
La luna è icona della dolcezza femminile,
con “l’ombra lieve” del suo pallore che accarezza sinuosamente la pelle, “è
l’emblema classico dello sguardo rapito verso l’alto)” (Maria Luisa Spaziani). È
un lievito soffuso di luce, che inargenta l’anima di languida tenerezza: “Io non
so | dove vada la luna | dimenticata | l’ora dell’amore” (Risposta). La
vita si desidererebbe sempre esuberante, seducente, come una donna avvenente con
“una gonna rossa | in un flamenco | quando scopre le gambe | e il tacco batte” (Flamenco).
Si rimpiange il ritmo incalzante della giovinezza rispetto all’adagio declinante
della vecchiaia e si supplica dall’esistenza un po’ di quell’elisir di felicità
incontrastata: “Vita abbi compassione | se vuoi che t’ami. | Lasciami un poco
d’oro | in fondo agli occhi.” Vi sono poi le epifanie delle figure muliebri,
come evanescenti apparizioni, inghiottite dal tempo inesorabile (“bellezza
appassita”), avvolte da un velo di nostalgia: “Rimani con me per un poco. | Fai
conto di essere rugiada | al sorger di un’alba smarrita. | Ricordo quel passo di
danza | e i piedi sull’erba bagnata. | Rivedo il tuo volto di nebbia | amica dal
cuore segreto.” (Rimani). Sono però anche rêveries intrise di erotismo:
“Non è buio il tuo bacio. | Si dona ad occhi chiusi | e non chiede chi sono. |
Poi s’immerge nell’onda.” (Passaggio). Sono le donne beatifiche del Dolce
Stilnovo, con la loro promessa di redenzione vitale, così pure come la Clizia
montaliana che reca la salvezza o l’Esterina che si tuffa nel mare nella sua
spensierata incoscienza, la Madre Terra che nutre di Pablo Neruda: corrispondono
a quel prototipo femminile legato al binomio inscindibile di Vita e Amore
cantato da tanta tradizione letteraria. Ma hanno anche le fattezze di Sfinge nel
suo enigma indecifrabile: “Sui prati della notte | danza una donna oscura. |
Viene da un golfo d’ombra | in cui scompare il tempo.” (La donna oscura).
Le persone care sono circonfuse del senso
ineluttabile della perdita, da cui insorge tuttavia un fremito caparbio di
speranza: “Tu sempre mi ritorni. (…) | Sotto gli antichi portici | cammina | la
tua morte. Compagna | è la tua voce | silenziosa. | Anche per me | la luce | si
fa opaca… | Ma ti rivedrò. | Ancora ti rivedrò.” (Claudio).
Un cenno a parte merita la poesia
Ricordo del padre, che il critico Sandro Gros Pietro non esita ad annoverare
tra le “evocazioni filiali rivolte al genitore più alte in tutta la poesia
contemporanea”, di contro al modello antitetico della dura Lettera al padre
di Kafka. La figura paterna emerge dal limbo della memoria con i contorni
nitidi di una presenza imperitura, nella sua evidenza materica e nella vivida
teatralità dei gesti, come in un solenne memoriale: “Un libro chiuso | nella
mano bianca, | col dito dentro | per tenere il segno, | una giacca celeste di
pigiama, | un fazzoletto nella tasca destra: | “Nevio sei tu?” | chiedeva, e
premuroso, | richiudeva la piccola finestra. | L’alta persona, | l’occhio
azzurro e chiaro, | giovane ancora il viso, la voce forte | diventata dolce…”
Uno struggente lirismo accompagna il padre così inerme nella sua fragilità
senile ad un imprevedibile viaggio senza ritorno, con l’intimo rammarico di non
avergli potuto rivolgere l’ultimo addio e l’inevitabile bilancio delle cose non
dette e non fatte. In questo climax discendente che sprofonda a poco a poco
nella malinconia si leva un moto ascendente, di resurrezione, che confluisce
nella determinazione di quella sorta di sentenza gnomica di “Ti rivedrò”,
siglato da quell’“Arrivederci” finale.
La poesia di Nevio Nigro ha attirato
calorosi consensi da parte di critici illustri come Maria Luisa Spaziani (“il
sogno permea tutto”), Giorgio Bárberi Squarotti (“nell’impressione che dà di una
poesia fuori del tempo, detta per l’eternità”), Giò Ferri (“una trasparente
parola”), Antonio Spagnuolo (“i motivi privilegiati diventano quasi sempre
trasalimenti, repentine illuminazioni, rimembranze velate”), Giovanni Tesio
(“ogni parola è intagliata in legno dolce”, “versi scanditi con leggerezza di
raso, ma con consistenza esatta”), Paolo Ruffilli ( “quel passo di danza…che è
l’originale marchio di questa limpidissima Poesia”), Liana De Luca (“la tua
poesia è armoniosa e sinuosa, delicata ed intensa insieme, pudicamente erotica,
sapientemente commossa”), Dante Maffia (“sono versi perfetti e così grecamente
limpidi che fanno pensare a Salvatore Quasimodo”), Giuseppe Conte (“è un lirico
puro, latino dove il discorso si fa più elegiaco, greco dove c’è la sintesi
assoluta”).
Come
scrive molto efficacemente Plinio Perilli nella postfazione, tutte le emozioni
che defluiscono lungo il corso della vita sono sublimate da un anelito
trascendente e sfociano nel mare dell’Eternità: “la vita che passa, le ansie che
a fiume scorrono fino a un delta consacrante e anelato: il Mare del Mare di ogni
Mare, che io chiamo Dio.”
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Recensione |
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