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Il titolo, Una sprovveduta quotidianità, è emblematico del tono dominante di questa raccolta poetica, cioè del senso avvilente di una quotidiana sconfitta e del peso della finitezza cui si contrappone l’aspirazione alla trascendenza e alla leggerezza dell’Assoluto. L’amore, con la sua ansia di bene supremo e di infinito, è il primo a battersi contro questi limiti, anche se poi, essendo anche inevitabilmente terreno, ad essi finisce per adeguarsi dopo aver cercato invano di superarli: “E come reduci noi | a lottare in campo aperto | per un amore | eternamente vilipeso e franto | nel segno di un’ordinaria | sprovveduta quotidianità.” (Una sprovveduta quotidianità). Ricorre spesso la sensazione di oppressione del contingente che tarpa le ali ai voli pindarici dell’anima: “E l’amore disse: | lasciatemi sopravvivere | ad un’inesorabile | quotidianità.” L’amore è un jeux à deux, in cui si vince solo se si collabora, se ci si pone dalla stessa prospettiva, pure se i punti di vista sono diversi, come nella dialettica Adolfo (“Non ti ho mai rubato l’anima, | lasciavo che venisse a me | ingenua e forte”) – Lucia (“Un esile confine ci separa, | forse il tumulto d’una sola notte | o d’un foglio non ancora scritto”) di Azzardo d’amore, che culmina con una scommessa sull’indissolubilità del rapporto di coppia di contro alla precarietà del vivere: “e d’amarti l’azzardo | infinitamente.” Si avverte la dolorosa distanza dell’amato che non si arriva mai a possedere pienamente e definitivamente, sfuggente e inafferrabile, che nel metafisico smarrimento della notte si cerca, si trova e poi di nuovo si perde in un vorticoso ciclo di Bios-Thanatos: “Sai non ho il coraggio | di pensarti un solo istante | lontano e ti guardo | gelosa dell’impenetrabilità | che ti avvolge, | ti allontana.” (La notte). Si vivono, ad una ad una, tutte le stagioni di un amore che è sempre lo stesso, si serba fedele e caparbio lungo l’incalzare dei giorni e, se muta, avviene secondo la logica del Gattopardo, per cui “bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale.” Si vorrebbe esorcizzare, così, il momento ineluttabile del declino, di “un nuovo autunno inatteso”: “Passa il tempo, amore, | vorrei fermarlo, | allontanare le insidie, | coniugare diversamente la vita, | azzerare ore, minuti.” (Le stagioni, l’amore di sempre). D’inverno contro la bufera della Storia e le paure e le angosce della vita ci si ripara nel tepore dell’intimità: “Violenta la pioggia | scuote serrande | raggela, | misteriosa ed inquieta | in un freddo gennaio | si fa la notte. | Sotto le coperte ci teniamo stretti, | una paura antica | s’insinua, agghiaccia, | figure strane smuovono tende | giostrano minacciose | alle pareti.” La primavera invece è un grido unanime di speranza: “Ferma la macchina! | Assolati i profili dei colli | spandono verde d’intorno, | un raduno di bandiere rosse | i papaveri sui prati. | È un mattino infinito.” O ancora è l’accecamento deragliante dell’estate: “la città deserta sotto un sole | immobile, tutto congiura | in quest’ora calda ed assolata | a dilatare il tempo, a disarmare | a spingere all’ansia o alle carezze | a ripetere il debito d’un amore.”

È amore anche quello che lega l’autrice alla sorella, nonostante le diverse esperienze di donne, segnate dalla sofferenza (“Poco ci siamo conosciute, | distanza d’anni forse | imprevedibili scelte, | fedele il dolore | s’apparta e nasconde. | Ora sai l’infinita pena, | tenace permane | nel sonno e nel risveglio”, Sicura la mano): è condivisione del dramma esistenziale (“Solo l’orologio racconta le ore | caparbio, mai reticente | tenta l’assurdo d’ogni vita, | ritorna sui suoi passi | ripete infinito | l’astratto alfabeto”); scoperta dell’alterità maschile (“Già donne ormai | l’amore lo conosciamo appena, | sete cui tendere | parole dissipate | smarrimento d’attese”); poesia di una difficile maternità (“Ripete la vita | il figlio che hai avuto, | madre rimasta sola”). È comunione di anime nella solidarietà dell’arte, nell’ammirazione verso la sua pittura: “La tua mano nei colori | invoca risposte | che altrove non trova. | L’oceano sai | l’ho visto anch’io, | schianto e sgomento | sui boscosi precipizi del Tsitsikamma, | dinanzi a te | di sabbia e vento | lo specchio luminoso di Santiago.” Non si riesce a superare lo smacco dell’inesorabile trascorrere del tempo che passa investendo cose e persone care, lasciando il segno, rughe nel corpo e nello spirito: “la pena è altrove | là dove nasce la memoria | dove non trovo parole da dirti. | Intollerabile invecchiare | lasciare senza risposte | le nostre vite, | incamminarci su strade che smarriscono.”

Nella sezione Un luogo, un tempo si delineano cornici di paesaggi e ritratti tipici, come le ragazze dei troll, in Norvegia, “perse, forse un po’ strane”, per la visitazione di creature fantastiche dei boschi. Alla topografia della memoria è legata la vicissitudine affettiva e sentimentale: “Di noi, storditi dal sapore del mare, | ma sorridenti e persi | in una stretta assolata” (Una distesa d’anni ricordando Sottomarina e Chioggia); “Ti stringo le mani | non temere, vorrei dirti, | il giorno che precipita | senza fine su di noi | non trapassa, | sii certo, | nella notte” (La torre Cantarini del Bovolo). Venezia, poi, terra natale della poetessa, brilla in tutto il suo fascino malioso (“Oggi una luce diversa | rastrema il cielo, | lembi di laguna s’inoltrano nel mare”, “schianta il sole la laguna”, Venezia per tempi diversi), intrecciata alle vicende amorose di una ragazza (“con disperata tenerezza | lo cerca, lo vede ovunque, | al tavolo d’un caffè, | sul pontile ad attenderla, | sui gradini d’una chiesa | nel vago riflesso di un’onda”), baluginante come un cristallo nelle varie sfumature delle stagioni (“porta il libeccio odore di salsedine, | sferza l’aria, forma mulinelli”), incastonata nel mito di Arlecchino, come deus ex machina che muove le fila degli uomini burattini: “Un arlecchino in un campiello | non ha padroni | solo maschera e dadi. | Gioca l’azzardo d’una vita | intesse trame d’amore | (…) il viaggio non è lungo | immagata di sole la laguna | immobile e sospesa.” Nella sua patria rivive la Commedia dell’Arte, coi suoi mutevoli e bizzarri personaggi che hanno costellato la fantasia popolare, col suo sapore genuino di ironia, comicità e di sano amore per la vita: apre il sipario il burattinaio (“da dietro le quinte cambio vesti, | gioco con le maschere | tiro le fila dei loro pensieri | (…) Accendo, spengo le stelle | alzo polvere, polveroni”, Il burattinaio). Quindi entrano in scena i personaggi: Colombina (“Corri, fuggi Colombina, | ascolta, impara, svincolati | dal tempo che minaccia, | sorridi alle nubi, | a panni stesi al sole | (…) a marinai audaci, | ingannali se vuoi | con occhi mordaci. | All’alba dei capricci | splendono le labbra”); Arlecchino (“è servo e padrone | balza, ride, gioca | lungo le rive | accende il sole e lo spegne | in un solo istante | spende la vita”); Pantalone (“lo innamora la laguna | i facili guadagni, | ma ora tutto si dissolve, | respira bruma, è bruma. | – Il mondo intero muore – borbotta, | farfuglia con voce assonnata”); Pierrot (“S’allontana Pierrot, | non sa quanto duri la strada | un lungo sospiro il suo corpo”); Pulcinella (“Giochi l’azzardo della vita, | d’ogni vita, | il sole ti risponde in fuga | con le pene di sempre”); Rosaura (“Vicina la festa del bocciolo, | un’aria frizzante | pizzica la pelle, | le tue guance appena arrossate, | l’ansia d’incontrarlo nei tuoi occhi assorti”); Casanova (“non ha ragione di vivere | dormire senza amore, | l’arsura tenta le labbra | il vento scuote | odora di baci | di giovinezza”). Poi il sipario si chiude con una nota di tristezza, un tono lugubre, i ridenti personaggi ingoiati da una società indifferente ed egoista (“Arlecchino vaga sconsolato | non ha più dadi, né padroni | né futuro da spendere o inventare, | né amori da sognare”): “Fuggite, maschere, mascherine | tutto è mutato, tutto è cambiato!”; “E tu povero burattinaio | riavvolgi i fili | riponi le marionette, | non è più tempo di scherzi, di lazzi | di storie d’amore | di feste galanti, | il mondo forse è perduto, | di certo mutato.”

L’ultima sezione, Ancora parole, è come un’appendice, in cui si tendono a definire altre sensazioni, altre impressioni attraverso i fotogrammi della memoria: “S’acquieta il fuoco dei mortai, | il vento di libeccio | torna a scompigliare i capelli | a rammentare gli amici | gli scherzi sulla spiaggia, | limpido il sole di maggio | contro il verde dell’acqua” (Un vento di libeccio). Tutto è sospeso come in un sogno indefinito: “Non è deriva il tuo sogno | forse solo follia la vita, | le reti oltre i confini | verso l’ignoto, | dove volteggiano | nubi gonfie, | ma il cielo è vivo, | la notte s’illumina di lampi, | il tempo uncina la storia.” (Europa). Si avverte il senso desolante della solitudine che lascia il vuoto di chi, rispetto ai suoi familiari, resta in disparte, dimenticato, come un floscio lenzuolo: “Due, forse tre anni | buie le stanze | avvolta in un lenzuolo | rincorro i fratelli | più grandi, di me | si fanno gioco. | Io il fantasma | loro i fuggitivi, | ridono, scherzano | scompaiono. | Nessuno ritorna, | io, piccolo fantasma, | il lenzuolo a terra, | piango a lungo | desolato.” (Silenziosi i giorni).

I versi di Raffaella Bettiol sono soffusi di un intenso lirismo, impreziositi dall’eleganza delle forme, declinati in linguaggio aulico, con espressioni efficaci e vivide immagini, come in queste parole: “Avevi l’aurora sulle guance…”, “Sempre dipingi | campi colmi di spighe | papaveri in un bagliore rosso | colti, maree disperse.”

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