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Itinerario verso il 27 agosto 1950
Cesare Pavese nel centenario della nascita
in:
Annali del Centro “Pannunzio”
anno XXXIX – 2008/09, pp. 282-297
Edizioni Centro
“Pannunzio, Torino 2009
Può sembrare curioso, persino
contraddittorio ricordare il centenario della nascita di un grande scrittore (9
settembre 1908) con la data della sua morte volontaria in una stanza d’albergo a
Torino, la sua città, in un’angosciosa solitudine infranta solo dalla presenza
dell’amato suo ultimo romanzo, La luna e i falò, pubblicato
nell’aprile del 1950, e dell’opera forse ancora più cara, Dialoghi con Leucò,
edita nel 1947.
È cosa nota che, nella notte tra il
26 e il 27 agosto 1950, sulla prima pagina dei Dialoghi, lasciati poi sul
comodino, egli scrisse a penna quelle poche parole che denotano il lucido e
fermo convincimento di ciò che stava per attuare, ma nulla che ne riveli la
ragione. Eppure dicono molto quelle parole, forse quasi tutto su di lui.
«Perdono a tutti e a tutti chiedo
perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.»
Pare che il vizio assurdo,
come lo definì egli stesso nella poesia Verrà la morte e avrà i tuoi
occhi e lo riprese poi come titolo dell’opera biografica il suo grande amico
Davide Lajolo,
fosse per lui l’ombra minacciosa della morte che lo perseguitò per tutta la vita
e che puntualmente ritornava in tutte le sue opere, in una trasfigurazione
lirica di grande efficacia pur nell’estrema essenzialità espressiva. Tale vizio
si presentava come solitudine tragica, disperato bisogno d’affetto mai
soddisfatto, amaro senso di vuoto, angoscia esistenziale, senso di fallimento,
d’inadeguatezza alla vita di cui si sentiva solo spettatore, mai veramente
partecipe, nonostante i molti tentativi di prendervi parte attiva, sempre
irrimediabilmente falliti o deludenti. Guardava scorrere la vita restandone al
di fuori.
In una poesia
composta il 4 gennaio 1927, inviata per lettera
all’amico Mario Sturani, compagno di liceo trasferitosi a Monza per seguire
studi artistici, Cesare Pavese, dopo aver evocato un’esperienza di un «tragico
voluto», cioè lo sparo verso terra di un colpo di rivoltella in una stradicciola
di campagna una sera di dicembre, prosegue con le parole: «(…) Così, andando /
tra gli alberi spogliati, immaginavo / il sussulto tremendo che darà / nella
notte che l’ultima illusione / e i timori mi avranno abbandonato / e me
l’appoggerò contro una tempia / per spaccarmi il cervello.»
In una lettera di qualche mese dopo
(8 aprile 1927) ritorna sulla poesia sopra citata e scrive all’amico: «Dunque
devi sapere che io non scriverò più. Non scriverò più, ne sono quasi certo. Non
ne ho più la forza, e poi, non ho più niente da dire. Dopo arrivati ai versi
della rivoltella non c’è più che posare la penna e procedere ai fatti. Sono tre
mesi che ho vissuto in passione continua: tira, molla; lo faccio, non lo faccio.
Fa una paura tremenda quello sconquasso sanguinoso del cervello molliccio e
della scatola cranica. Con l’ultimo innamoramento, quello della ballerina, mi
era parso di essere giunto definitivamente al punto, ma non ne ho avuto il
coraggio.». Sembra la prima stesura di un copione che si ripeterà, anzi, che
andrà in scena ventitré anni dopo in modo meno raccapricciante, ma certamente
risolutivo: essersi innamorato ed essere stato tradito dalla donna amata, non
voler scrivere più, compiere il gesto estremo.
«Pavese è morto.» scrive poche
righe sotto, dopo aver confidato fantasticherie su altri modi per annullarsi.
«Almeno così ci sarebbe l’esaltazione di una fine grandiosa!». Non è da
sottovalutare che Cesare appena diciottenne scriva: «Pavese è morto.», quasi
fosse un presagio del suo destino o l’espressione di un proposito già ben
definito.
In un’altra lettera (scritta in
marzo ma ricopiata l’otto aprile e spedita insieme alla precedente) Cesare
confida all’amico il suo stato d’animo tormentato, la lotta quotidiana contro la
malinconia, l’inerzia, lo sconforto, la paura, ma al tempo stesso la
consapevolezza che il suo è un «dolore operoso». Afferma, infatti: «Questa lotta
questa sofferenza che mi è insieme dolorosa e dolcissima mi tien desto, sempre
pronto, essa insomma mi trae dall’animo le opere.».
Giacomo Leopardi, il grandissimo
poeta da lui profondamente amato e certamente il preponderante tra i suoi
ascendenti letterari, ha dimostrato nei suoi scritti, sia i Canti sia le
Operette Morali, che la sua poesia non nasce solo dal suo senso
d’inadeguatezza alla realtà, dalla consapevolezza della sproporzione tra reale e
ideale, ma anche da un dolore che è scintilla originaria del fare poetico,
dolore universale e insieme profondamente intimo e personale. Allo stesso modo
il giovanissimo Cesare Pavese è già convinto che il dolore non sia sterile,
bensì fecondo d’ispirazione autentica, fonte di scritti non “accademici”, come
era solito definire i versi composti solo grazie all’abilità tecnica, ma nati
dal profondo dell’animo e consoni alla sua concezione della poesia. In una
lettera del 21 febbraio 1925 aveva infatti affermato: «Tu dici: ‘Essa (la
poesia) è il sentimento della bellezza’. Non solo. Essa è il sentimento
di tutto, del bello, del brutto, del buono, del cattivo, del giusto, del falso,
di quel contrasto tra bene e male che è la vita. La poesia è dappertutto.
Un qualunque sentimento è poesia. E questo dono divino è l’unica cosa
veramente nostra. (…) La poesia è la regina del mondo, direi che è Dio (sempre
parlando soltanto rispetto all’uomo)».[7]
Gli stralci di lettere citati
bastano a delineare la complessità dell’indole di Pavese, in cui si scontrano
drammaticamente, già in età giovanissima,
stati d’animo opposti: l’orgoglio per la propria cultura, sensibilità artistica
e vocazione letteraria da una parte, il desiderio d’annientamento dall’altra,
poiché si sente sopraffatto da una profonda malinconia ed è convinto che
«nessuna gioia supera la gioia di soffrire».
Nella sua opera biografica
Davide Lajolo giustamente pone in risalto questo dramma interiore del liceale
Pavese, riconoscendo in lui il “suicida per ora immaginario, nella poesia della
rivoltella.” Si sofferma con amare riflessioni sulla frase perentoria «Pavese è
morto.», affermando: “Il terribile è che questo sarà non solo una dichiarazione
fatta in un momento di sconforto, ma rimarrà la ragnatela nella quale
s’impiglierà la sua vita. E se subito torna a dichiarare di dover tornare alla
lotta è soltanto per dedicare tutta la sua vita alla poesia. La sua lotta – egli
lo spiega – consiste esclusivamente nel perseverare per raggiungere la
«solitudine dei geni». Non bastano «i pugni e i calci» alla rassegnazione; e per
questo motivo nelle ultime poesie, comprese nel rivelatore epistolario liceale,
torna ad essere protagonista la morte.”. Quella stessa morte alla quale si
immolerà invocandola ancora negli ultimi desolatissimi versi:
«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo.»
Alcune vicende tragiche di quello
stesso periodo, dal 1926 in poi, s’impressero indelebilmente nell’animo di
Cesare come ferite inguaribili, acuendo e rinsaldandogli nella mente il suo
vizio assurdo.
Il compagno di studi e caro amico
Elico Baraldi, sicuro di sé, vivace, intraprendente con le ragazze tanto da
conquistarle con molta facilità, fortunato e certamente felice, si uccide in
modo più che tragico. Recatosi con la fidanzata nella casa paterna a
Bardonecchia con l’intenzione di uccidersi entrambi per amore con due colpi di
rivoltella, Elico mantiene l’impegno mentre la ragazza si salva poiché egli
riesce solo a ferirla. Nel 1938 Pavese farà narrare una vicenda analoga al
protagonista del racconto Suicidî
,
con la sola differenza che nello scritto i personaggi sono due giovani amici
legati da grande amore e desiderosi di darsene una prova reciproca. In entrambi
i casi, quello reale e quello narrato, uno solo dei due compie quel gesto verso
di sé mentre l’altro, forse per mancanza di coraggio, non esplode il colpo,
oppure resta solo ferito. Due suicidî per amore, comunque, e il rispecchiamento
delle emozioni ed esperienze personali nei personaggi delle sue opere
letterarie.
Il suicidio del compagno spinge
Cesare a compiere tre giorni dopo un gesto inconsulto, dettato dalla
disperazione più profonda. Sale sulla collina per darsi la morte con la
rivoltella come il compagno, seppure per motivi opposti. Baraldi si era ucciso
per amore insieme con la fidanzata, almeno nel progetto, mentre egli, che non ha
una fidanzata, lo deve fare per dimostrare a se stesso di avere altrettanto
coraggio. Estrae la rivoltella ma il coraggio gli manca forse perché la volontà
di vivere è ancora più forte ed esplode tutti i colpi contro una pianta: proprio
presso una pianta si era accasciato l’amico suicida. Torna a casa pieno di
vergogna per la sua viltà e ancora più angosciato.
Un altro suicidio lo sconvolge in
quegli anni: un suo coetaneo, il figlio del professor Predella, si toglie la
vita. E molti altri ancora avvengono a Torino in quel periodo incerto e
difficile per le coscienze dei giovani più sensibili. Pare che la tentazione del
suicidio come soluzione definitiva alle proprie angosce, al fallimento serpeggi
ovunque.
Dunque Pavese già negli anni
liceali, che dovrebbero essere spensierati e sereni, è tormentato da questo
vizio assurdo che si è insinuato in lui come una malattia subdola e
inguaribile contro la quale, come asserisce lo stesso Lajolo, “vale solo la
poesia e la donna”. Ciò sarà dimostrato chiaramente dalla gioia irrefrenabile e
dall’entusiasmo fecondo di scrittura nel corso della sua vita: a una donna
profondamente amata e, almeno apparentemente, appassionata nel ricambiarlo
corrispondono opere poetiche, racconti o romanzi scritti talora in breve tempo,
quello dell’amore. Alla scoperta del tradimento, alla separazione,
all’indicibile delusione per la sua virilità offesa si risveglia puntualmente
quel tragico pensiero di morte che interrompe il potere consolatorio e
conoscitivo della poesia.
La donna che momentaneamente può
guarirlo dalla malattia non è solo un grande amore come quello per «la donna
dalla voce rauca»,
la prima, indimenticabile e, in effetti, mai dimenticata, oppure per l’attrice
Constance Dowling,
«un’inaspettata allodola [arrivata] dall’America», l’ultima illusione durata
quanto la primavera prima della sua morte, l’ispiratrice delle ultime poesie
pubblicate postume.
Avrebbe potuto guarirlo anche una
giovane ex allieva al liceo “Massimo D’Azeglio” come Fernanda Pivano
che dal 1940 frequentò ogni giorno per cinque anni senza chiederle mai il
permesso di baciarla, pur essendone innamorato, perché in lei, bella
corteggiata, elegante, felice, colta, sperava di trovare il modo di uscire dalla
solitudine e sentire quel calore che a poco a poco lo avrebbe portato a crearsi
finalmente una famiglia, ad avere una casa e soprattutto a generare un figlio,
il suo massimo desiderio. Purtroppo Fernanda rimase solo amica e confidente
fedele ma respinse due volte la domanda di matrimonio di Cesare; le date 26
luglio 1940 - 10 luglio 1945 precedute da due croci, segnate sul frontespizio
della raccolta di racconti e saggi sulla teoria del mito e dei simboli,
intitolata Feria d’agosto (1946), sono il ricordo indelebile delle due
domande e delle risposte negative, quindi la prova del fallimento totale anche
con Fernanda, per la quale aveva composto nel 1940 alcune finissime poesie
d’amore
di cui bastano alcuni versi per dimostrare il valore poetico delle parole e
delle immagini:
«Sei come una nube
intravista fra i rami (…)
Tu non sei che una nube dolcissima,
bianca
impigliata una notte fra i rami
antichi» (Notturno).
Avrebbe potuto anche una donna come
Bianca Garufi,
definita in una lettera con queste parole: «La Donna è fonte d’amore e
soprattutto di poesia e Bianca è un po’ amore e un po’ musa».
È lei infatti la Leucò dei Dialoghi[19]
e l’ispiratrice delle nove poesie di La terra e la morte[20].
Dal loro incontro nasce in Cesare l’amore e la subitanea richiesta di
matrimonio, mentre in Bianca quasi solo l’interesse letterario e il profondo
desiderio di “vedersi” nel Dialogo con la maga Circe, personaggio omerico che
amava molto. Lorenzo Mondo rievoca
una scena, descritta dalla stessa Garufi,
che dimostra quanto Cesare l’amasse. “Entrò con il braccio teso sventolando
trionfante alcuni fogli e dicendo, con voce anch’essa trionfante, un po’ fra
rimprovero e dispetto: « Eccoti qua! Ti ho fatto Circe. »”. Mariarosa Masoero
invece, nella prefazione al romanzo di cui sotto, riporta lo scambio di battute
tra i due quando Bianca lesse i Dialoghi, con dedica “A
Bianca-Circe-Leucò”, e li giudicò con parole molto tiepide, certamente deludenti
per l’autore. Nel 1946, quando la loro relazione dopo soli due mesi stava per
finire, si accinsero alla stesura del romanzo Fuoco grande[23],
scrivendolo in collaborazione con una tecnica originale, un capitolo ciascuno,
quasi per risvegliare il loro rapporto. Rimasto incompiuto, il romanzo fu
pubblicato postumo da Einaudi nel 1959 con la firma di entrambi.
Poteva guarirlo e per breve tempo
lo guarì una giovane collaboratrice come Maria Livia Serini
Avrebbe dunque salvato Pavese una
donna che lo comprendesse, lo apprezzasse per i suoi veri valori e lo amasse,
nonostante il carattere schivo e spesso “musone”, come lo definì nell’ultima
telefonata di Cesare, la sera del 26 agosto 1950, una giovane donna conosciuta
in una sala da ballo che, nella loro breve relazione, si era aspettata da lui
ben altro e, invitata per telefono ad uscire, si rifiutò di trascorrere con lui
“quella” sera[26].
Di nessun aiuto spirituale potevano
essere invece le numerose altre donne da lui frequentate, talora in modo fugace,
specialmente quando era ormai un personaggio noto e ricercato appunto per questo
motivo. Molte delusioni invece ne derivavano e si rafforzava in lui il timore
che lo aveva tormentato fin dalla giovinezza, il sospetto di «non valere alla
donna», di non essere un “uomo”, cosa assai grave poiché la sua ambizione era
appunto di «valere alla penna e alla donna», per usare le sue parole.
Nel primo campo ebbe quasi subito
le soddisfazioni che potevano fugare i suoi timori, soprattutto come traduttore
degli scrittori americani, ma nel secondo pensava persino di dover dar prova
agli altri, non solo a se stesso, d’essere normale, virile, al punto che, ormai
studente universitario, al professor Augusto Monti, suo docente al liceo
“Massimo D’Azeglio” e negli anni successivi amico paterno, confidò che
frequentava “quelle case”. Sarebbe un ignobile pettegolezzo, proprio di quelli
che egli esortò a non fare nel suo ultimo messaggio, insinuare che fosse
impotente. Dimostrano il contrario i suoi amori “importanti”, il primo e
l’ultimo, che non erano certamente platonici. Piuttosto si può supporre che
nell’atto amoroso non avesse quel fuoco che le donne amate avrebbero desiderato,
che insomma non fosse un maestro nell’ars amatoria e che lasciasse un po’
deluse o insoddisfatte le sue amate.
Sarà stato causato da questo motivo
il tradimento e l’abbandono da parte della «donna dalla voce rauca»? Chi era
questa donna di cui Pavese, per la prima volta, tenne nascosto il nome persino
agli amici più cari per difendere il suo grande amore?
All’inizio degli Anni Trenta Pavese
vive i momenti migliori con «la donna dalla voce rauca», come lui la chiamava. Era fisicamente non bella, forte e volitiva come
un uomo, laureata in matematica e fortemente impegnata nella lotta
antifascista: a lui opposta, dunque, e forse proprio
per questo amata. Per tutto il tempo in cui egli sentirà d’essere ricambiato,
d’averla accanto a sé a proteggerlo e a dominarlo, sarà un uomo felice, vivo,
semplice, pieno di entusiasmo, pronto a quel colloquio umano che invece negli
anni della sua adolescenza gli era stato precluso da forze più grandi di lui.
Per lei
compose alcune poesie: Incontro (1932), Piaceri notturni (1933),
Un ricordo (1935), Paternità (1935), Tradimento (1936), La
voce (1938), alcune incentrate sul dolore per la sua lontananza o sul
ricordo della sua voce, di lei non più sua: «E la voce è
la stessa, che non rompe il silenzio, / rauca e uguale per sempre
nell’immobilità / del ricordo»; «Per sempre il silenzio / tace rauco e sommesso
nel ricordo d’allora».
Esempio di somma valenza poetica è
la lirica ispirata dall’incontro avvenuto “allora”, in cui appaiono le amate
colline e quindi, idealmente, il ritorno all’infanzia:
«L’ho
incontrata, una sera, una macchia più chiara
sotto le
stelle ambigue, nella foschia dell’estate.
(…)
Era intorno
il sentore di queste colline
più profondo
dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse
da queste colline, una voce più netta
e aspra
insieme, una voce di tempi perduti.» (Incontro)
Ingenuamente Cesare, per non
contrariare la donna amata, accetta di far giungere al proprio domicilio lettere
molto compromettenti sul piano politico, a lei spedite dall’ex fidanzato Altiero
Spinelli, iscritto come lei al partito comunista e detenuto nel carcere romano.
In seguito all’arresto di vari intellettuali aderenti al Movimento “Giustizia e
Libertà” (Leone Ginzburg era già in carcere dall’inizio del 1934), a causa di
un’ignobile delazione viene fatta una perquisizione nella sua casa in via
Lamarmora, durante la quale, tra le sue carte, viene scoperta una di tali
lettere. Egli è arrestato il 15 maggio 1935 ma non rivela il nome della donna;
viene perciò incarcerato con l’accusa di antifascismo e sconta due mesi di
detenzione alle Nuove di Torino, poi a Regina Coeli di Roma. Subisce il processo
in cui viene condannato a tre anni di confino da scontare nel piccolo paese
arretrato e sperduto di Brancaleone Calabro, pena che gli viene notificata il 15
luglio 1935. Dopo un viaggio in treno estenuante, durante il quale sosta nel
carcere di Poggio Reale[27]
a Napoli, arriva nel paesino sulla costa dello Jonio il pomeriggio del 4 agosto
1935. I tre anni inflitti dalla sentenza si riducono a meno di uno per richiesta
di grazia. Gli è notificato il condono il 15 marzo 1936.
Pavese dunque torna dal confino e
arriva nella sua città il 19 marzo, ma la felicità di quest’agognato ritorno a
Torino, alla civiltà e agli affetti dopo mesi di solitudine in un paese che gli
pareva un «castigo»,
è subito spenta da un’amara delusione: l’abbandono della donna e il suo
matrimonio con un altro, quindi la consapevolezza di essere stato usato, non
amato. Da quel momento in poi ogni donna sarà
considerata nei suoi scritti solo come un «frutto di carne» o tutt’al più come
l’espressione dell’indifferenza e dell’infedeltà.
In questo
tradimento e abbandono non pare che s’insinui il problema cui si accennava prima
poiché la donna ebbe una relazione amoroso-sessuale con Cesare, ma evidentemente
non lo amava davvero, al punto che si servì di lui per salvare se stessa senza
preoccuparsi delle gravi conseguenze che gli avrebbe procurato.
L’esperienza prima dell’arresto e del carcere, poi del confino
immeritato e l’indescrivibile delusione per il comportamento ignobile della
donna amata, proprio nel periodo del maggior bisogno di sostegno spirituale e di
sicurezza del suo amore, concorrono a farlo sprofondare in una crisi grave e
profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre
presente del suicidio. Si chiude in un pericoloso isolamento in cui lo aiuta
solo la sua febbrile attività di traduttore dall’inglese di testi americani,
successivamente di narratori stranieri e la stesura di racconti[28],
seguiti dal romanzo Il carcere[29]
tratto dall’esperienza del confino.
A Brancaleone, il 6 ottobre 1935, inizia a scrivere un Diario,
cui darà il titolo molto significativo Il mestiere di vivere[30],
in cui annota i suoi pensieri fino al 18 agosto 1950,
riflettendo sulla propria attività letteraria e sulla vita, quasi in un confronto
tra il Mestiere di poeta[31]
e il difficile mestiere di vivere, da apprendere con grande pena e spesso senza
risultati. «Ho imparato a scrivere, non a vivere», quindi l’arte appare come un
sostituto dell’esistenza se «quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno».
Alla delusione amorosa si affianca
quella letteraria poiché la prima edizione del suo libro di poesie Lavorare
stanca[32]
è stata accolta con indifferenza dalla critica, nonostante lo stile fortemente
innovativo, oppure proprio per questo stile oggettivo e narrativo, dal verso
lungo anche 14 o 16 sillabe, incurante della metrica tradizionale, in un periodo
in cui fioriva lo stile ermetico e resisteva quello crepuscolare.
Eppure proprio in questa raccolta
poetica Pavese ha espresso temi profondi, fondamentali affinché il lettore
comprenda la sua concezione della vita, la sua tragica solitudine,
spesso voluta;
la problematica contrapposizione tra campagna e città, tra contadini e operai,
tra infanzia e maturità, tra il ragazzo ingenuo, creatore di miti, e l’uomo che
ha compreso: «Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo».
Inoltre il ritorno all’infanzia, alle Langhe
in cui è nato e cresciuto; soprattutto l’ideale della donna che lo sposa e lo
attende a casa,
del figlio
da mettere al mondo con lei: «(…) quest’uomo vorrebbe lui averlo un bambino e
guardarlo giocare».
Questo avrebbe voluto dalla donna
amata in quegli anni, «la donna dalla voce rauca», da cui ebbe invece, per bocca
dell’amico che lo accolse alla stazione di Torino, la notizia che si era sposata
con un altro proprio in quei giorni.
(…)
«Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze sono
vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e
quest’uomo che giunge
per un viale d’inutili piante, si
ferma.
Val la pena d’essere solo per
essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le
strade
sono vuote. Bisogna fermare una
donna
e parlarle e deciderla a vivere
insieme.
Altrimenti uno parla da solo.
(…)
Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa
sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la
pena.
(…)
Ci sarà certamente quella donna per
strada
che, pregata, vorrebbe dar mano
alla casa». (Lavorare stanca)
Dopo una delusione così grave che
distrusse il suo ideale di donna e lo portò quasi al suicidio (alla stazione di
Porta Nuova a Torino si illudeva che ci fosse lei a riceverlo e svenne quando
l’amico gli disse la verità), non c’è da meravigliarsi che i personaggi di molti
suoi racconti e romanzi scritti in quel periodo fossero lo specchio dei suoi
stati d’animo, sentimenti, opinioni. Una certa misoginia fa sì che l’uomo tratti
la sua fidanzata, moglie, amante quasi con crudeltà e sadismo per umiliarla,
farla soffrire, spingerla persino al suicidio, quest’ultimo ricorrente in varie
opere, uno proprio in una stanza d’albergo, come farà lui un anno dopo la
pubblicazione di Tra donne sole[39],
in cui Rosetta tenta di uccidersi appunto in una stanza d’albergo per un amore
fallito, ma viene salvata; quando tutte le amiche credono che abbia ormai
superata la disperazione, tenta di nuovo il suicidio in una stanza d’affitto,
arredata con una sola poltrona rivolta verso la finestra, e muore per il veronal
ingerito.
Nel racconto già citato Suicidî
,
oltre a ciò che si è detto sul gesto tragico di un ragazzo tanto simile a quello
dell’amico di Pavese Baraldi, si nota un’altra analogia tra il comportamento del
protagonista, narratore in prima persona, e l’atteggiamento misogino dello
scrittore, che per di più attribuisce alla giovane amante Carlotta una
“semplicità” che probabilmente era sua. «Era una troppo semplice amante e forse
già il marito l’aveva tradita per questo» pensava il protagonista, che tuttavia
la frequentava come sfogo sessuale e se ne andava in fretta subito dopo,
dichiarandole più volte perché non si facesse illusioni: «Siamo un uomo e una
donna che si annoiano, e stiamo bene nel letto. E non c’è altro». Niente di più
avvilente e offensivo per una donna innamorata.
Dopo mesi di umiliazioni inferte
alla giovane, come restare tutta la sera seduto sul divano con il viso
accigliato senza dire una sola parola, il protagonista diradò le visite e infine
sparì. Un mese dopo (se non il rimorso, la curiosità lo aveva portato alla casa
di lei, non avendola più vista nel caffè dove lavorava come cassiera) seppe
dalla portinaia che proprio un mese prima Carlotta era stata trovata morta a
letto con il gas acceso.
Si comprende la ragione del plurale
nel titolo di questo racconto, che raddoppia il gesto estremo o per amore o per
una delusione d’amore. Il personaggio narra: «Quando conobbi Carlotta uscivo da
una burrasca che per poco non m’era costata la vita»; tutto a causa di una
donna. Si manifesta allora nei fatti narrati la veridicità di questo suo
pensiero espresso poche righe sotto: «Avendo sofferto un’ingiustizia, ricambiavo
di quest’ingiustizia, come avviene in questo mondo, non la colpevole ma
un’altra». Pavese, dunque, si vendicava dell’offesa ricevuta da parte della
«donna dalla voce rauca» sui suoi personaggi femminili, facendo subire loro ciò
che egli aveva subito.
Sarebbe molto lunga la serie di
figure femminili dei racconti e dei romanzi su cui lo scrittore attua
letterariamente la sua vendetta umiliandole, maltrattandole persino con
crudeltà, dimostrando loro il suo disprezzo anche se, in vari casi, “usa” il
loro corpo, per dimostrare che appunto questo è la donna: un corpo su cui
sfogare i propri istinti sessuali, un corpo finalizzato a mettere al mondo figli
e nulla più, una specie di bestia, benché proprio una di queste “bestie” («la
donna capra»,
di nome Concia) susciti il suo desiderio perché selvaggia, forte, quindi
protettiva, capace di dominarlo.
Una vittima della “vendetta” di
Pavese è la moglie nel racconto Viaggio di nozze,
umiliata e maltrattata dal marito con atti e parole di un sadismo premeditato.
La raccolta di cui fanno parte i due racconti citati è significativa, oltre che
per il valore intrinseco, perché ha in sé temi, personaggi e vicende che saranno
ripresi e sviluppati nei romanzi, come il confino, narrato nel racconto Terra
d’esilio e nel romanzo Il carcere, e varie figure femminili o
maschili che, nel loro disagio esistenziale, nell’incapacità di vivere
riflettono la complessa, tormentata e talora contraddittoria indole di Pavese,
che è senza dubbio presente nelle sue opere, quasi si specchiasse nei
personaggi.
Altre vittime sono le due ragazze
nel racconto La draga, una violentata, entrambe annegate nel Po, dove
avevano fatto una gita in barca, senza che i due giovani sulla draga movessero
un dito per salvarle. Anzi, ridevano di loro e si rammaricavano di non aver
violentata anche l’altra, cosa che per loro doveva essere abituale quando
capitava l’occasione di trovare una donna indifesa: la donna solo come corpo da
possedere.
Passando ai
romanzi, Elena ne Il Carcere ed Elvira ne La casa in collina[43]
sono rispettivamente due donne che amano un uomo, che lo ammirano, subendo
il fascino della sua cultura e del suo intellettualismo aristocratico, che sono
disposte ad aspettare che egli le scelga e che, invece, lui o disprezza o
ignora: emblema inquietante di quella misoginia malamente mascherata, di quella
disperata ricerca di amore che invece non c’era, nella sua vita, e forse non ci
sarebbe stato mai. Al contrario, nel secondo romanzo il protagonista apprezza
Cate, un amore del passato, anzi, una donna “usata” e abbandonata, cui era nato
un figlio che chiamò Corrado / Dino come il presunto padre (cui peraltro
assomiglia molto fisicamente, non nel carattere). La donna, mentre anni prima
era debole e sottomessa, ora è forte e decisa soprattutto nelle scelte circa la
partecipazione alla Resistenza, al contrario del prof. Corrado / Cesare che è ed
ha la consapevolezza d’essere un inetto, un debole, un vile che non osa
partecipare alla vita.
Una donna vittima della
“bestialità” maschile è Gisella nel romanzo Paesi tuoi,
violentata incestuosamente dal fratello Talino, che infine la massacra per folle
gelosia conficcandole nel collo un tridente. Non è una “vendetta pavesiana”
analoga alle altre citate, tuttavia è la raccapricciante descrizione della
violenza cieca di un uomo che considera la donna, anche se sorella, come un
oggetto suo, di cui può fare ciò che l’istinto gli detta.
Di natura ben diversa, invece, la
sorte delle tre sorelle Irene, Silvia e Santina nel capolavoro di Pavese, La
luna e i falò
.
Sono signorine eleganti e ben educate, figlie del padrone della fattoria “Mora”
in cui Anguilla, il protagonista, viveva e lavorava da ragazzo ammirandole come
esseri superiori, mentre in realtà erano fragili e indifese di fronte alla vita.
Al suo ritorno ai luoghi dell’infanzia, ormai quarantenne e carico d’esperienza
fatta in America, Anguilla viene informato che tutte e tre sono state
sacrificate dalla vita stessa, in modi diversi ma egualmente crudeli (un
matrimonio infelice, un aborto segreto e la vendetta dei brescianini che la
credevano una spia dei fascisti). Per loro lo scrittore prova umana pietà,
risparmiandole dalla sua misoginia, cosa che non fa per le donne-bestia che si
sfiancano di fatica nei campi, nella vigna e vengono uccise appunto come bestie,
come il cane alla catena, dal padre di Cinto, il Valino impazzito che dà fuoco
al casotto di Gaminella e poi si uccide.
Il significato di questo mirabile
romanzo è il ritorno di Anguilla / Pavese ai luoghi dell’infanzia per ritrovare
se stesso, le proprie illusioni e i propri miti. Fuori tema sarebbero stati
personaggi e fatti in cui rispecchiare il proprio astio per le donne. Piuttosto
è significativa la frase, tratta dal Re Lear di Shakespeare, posta come
epigrafe del libro: Ripeness is all, come dire che è impossibile tornare
all’infanzia e ai suoi miti poiché, una volta sopraggiunta l’età adulta, si deve
essere pronti alla morte, in cui tutto s’esaurisce come il fuoco di un falò, di
cui resta solo una macchia nera. Maturità è saper sopportare l’uscita così come
la venuta.
Facendo un passo indietro, se Elena
ed Elvira, di cui s’è parlato sopra, amavano l’uomo ma attendevano silenziose
che lui le cercasse, di ben altra indole era l’attrice americana Constance
Dowling che, affascinata dall’ormai celebre scrittore innamorato di lei, rinato
alla vita per questo amore che credeva ricambiato, capace ancora di sognare per
una donna, intrecciò con lui una relazione amorosa riuscendo persino a
trascinarlo con sé a Cervinia (meglio sarebbe dire che lo “sfoggiava” accanto a
sé nei luoghi alla moda). Il loro amore durò una sola primavera: Constance tornò
in America senza una spiegazione. Pavese, che a poco a poco aveva capito,
scrisse nell’ultima delle dieci poesie che costituiscono la raccolta Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi
:
«’T was only a flirt
you sure did know
some one was hurt
long time ago.
All is the same
time has gone by-
some day you came
some you ‘ll die.
Some one has died
long time ago-
some one who tried
but didn’t know.»
La poesia, intitolata Last
blues, to be read some day, è datata 11 aprile 1950, mentre la prima,
anch’essa in inglese, 11 marzo 1950, tanto era durata la loro relazione: grande
amore per lui, solo un flirt per lei. Italo Calvino tradusse gli ultimi quattro
versi: «Qualcuno è morto / tanto tempo fa –/ qualcuno che tentò / ma non seppe».
Cesare Pavese era giunto quasi alla
meta del suo tragico itinerario.
Ebbe il Premio Strega per La bella estate nel giugno dello stesso anno,
come conferma del suo grande valore letterario, ma forse era ormai troppo tardi
per guarire il suo animo, ferito anche dalla freddezza e incomprensione con cui
era stato accolto il suo amato libro Dialoghi con Leucò. Se per
Lavorare stanca l’incomprensione era stata causata dalla fioritura del
raffinato ed orfico Ermetismo, quella per i Dialoghi, la mitologia greca
e il linguaggio finemente letterario, vicino alla poesia, era causata dal
contemporaneo Neorealismo, che rappresentava operai, contadini, povertà e
problemi reali del dopoguerra con linguaggio semplice e povero, vicino al
parlato. Per di più si pretendeva un’arte impegnata, con il rischio di annullare
l’autonomia della letteratura per la quale si erano tanto battuti i Decadenti e,
con il silenzio e l’assenza, gli Ermetici prima della guerra.
25 marzo 1950: «Non ci si uccide
per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela
nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla.»
16 agosto 1950: «La mia parte
pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini,
ho condiviso le pene di molti.»
17 agosto «È la prima volta che
faccio il consuntivo di un anno non ancor finito.»
18 agosto: «Basta un po’ di
coraggio. (…) Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette
l’anno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole.
Un gesto. Non scriverò più.»
26/27 agosto: Cesare Pavese
conclude il suo itinerario con estrema dignità.
* * *
Bibliografia
Edizione di tutte le opere di Cesare Pavese
- Le opere complete di Cesare
Pavese sono state pubblicate dalla casa editrice Einaudi nel 1968 (I.
Lavorare stanca; II. Paesi tuoi; III. La spiaggia; IV. Il
compagno; V. Feria d'agosto; VI. Dialoghi con Leucò; VII.
Prima che il gallo canti; VIII. La bella estate; IX. La luna e i
falò; X. Il mestiere di vivere; XI. Poesie del disamore;
XII. Saggi letterari; XIII. Racconti, 2 voll.; XIV. Lettere
1926‑1950, 2 voll.).
Edizioni delle Opere di Narrativa
Oltre alle edizioni delle opere di narrativa citate nelle note,
avvenute in gran parte quando Cesare Pavese era ancora in vita, dopo la sua
morte sono stati pubblicati:
- Notte di festa, (dieci racconti inediti scelti da Italo
Calvino: Terra d'esilio,
Viaggio di nozze, L'intruso, Le tre
ragazze, Notte di festa, Amici, Carogne, Suicidi, Trilla in collina, Il campo di
grano),
Torino, Einaudi “I Coralli” 1953 (decisione presa dalla C. E. Einaudi nel 1952).
- Racconti, (con l'aggiunta dei
seguenti testi inediti: Dettatura, Misoginia, Temporale d'estate, L'idolo,
«Si parva licet», Fedeltà, Casa al mare, I mendicanti, Il capitano, La famiglia,
Nel caffè della stazione, La zingara) in due volumi, Torino, Einaudi “
Supercoralli” 1960.
- Il mestiere di vivere in
versione integrale (prima edizione: Il mestiere di vivere. Diario 1935‑1950,
Torino, Einaudi, “Saggi”, 1952) a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay,
Torino, Einaudi 1990.
- Mariarosa Masoero ha curato
l’edizione di Lotte di giovani e altri racconti giovanili
(1925‑1930), Torino, Einaudi 1993.
- Il mestiere di vivere in
versione integrale a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, ora con
introduzione di Cesare Segre, in una nuova edizione economica, Torino, Einaudi
2000.
- Tutti i romanzi, a cura di
Marziano Guglielminetti, pubblicati in occasione del Cinquantenario della morte
di Pavese, Torino, Einaudi, collana “La Pléiade” 2000. Hanno collaborato
Mariarosa Masoero (per la cronologia e le notizie sui testi), Laura Nay e
Giuseppe Zaccaria (per le note di commento ai testi e la ricezione critica
dell’epoca di pubblicazione), Elisabetta Soletti (per la nota linguistica e gli
appunti sulla sintassi di Pavese). Le note filologiche, curate da Mariarosa
Masoero e da Claudio Sensi, si basano sul minuzioso esame dei manoscritti e
presentano, ricorrendo ad alcuni esempi, una sintesi del lavoro di elaborazione
testuale e del percorso linguistico compiuti da Pavese sui vari romanzi.
-
Tutti i racconti, a cura di Mariarosa
Masoero, introduzione di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, collana “ET
Scrittori” 2002.
Le riedizioni
dei romanzi e dei racconti pavesiani continuano negli anni per l’instancabile
dedizione allo scrittore e la massima cura filologica negli approfondimenti
critici di Mariarosa Masoero e Marziano Guglielminetti. La stessa cosa vale per
le opere di poesia.
- Officina
Einaudi-Lettere editoriali 1940-1950, a cura di Silvia Savioli, Torino,
Einaudi 2008. L’opera, che ha conseguito il Premio Speciale nel Concorso
“Grinzane Cavour-Cesare Pavese” 2008, è stata presentata in anteprima nel corso
della manifestazione per il Centenario a S. Stefano Belbo il 7 settembre 2008
- Dodici
giorni al mare, a cura di Mariarosa Masoero, Galata Edizioni, Genova 2008.
L’opera, arricchita di fotografie e cartoline dell’epoca in cui si svolse la
vacanza di Cesare dodicenne, è stata presentata dall’autrice a Borghetto Santo
Spirito (Sv), nel Giardino di Sala Marexiano, il 9 settembre 2008.
Edizioni varie delle Opere di Poesia
- Lavorare
stanca, Firenze, Solaria 1936.
- Lavorare stanca (comprende
settanta poesie degli anni 1930-1940 e, in appendice, Il mestiere di poeta
e A proposito di certe poesie non ancora scritte), Torino, Einaudi,
“Poeti” 1943.
- Verrà la morte e avrà i tuoi
occhi (con La terra e la morte), a cura di Massimo Mila e Italo
Calvino (contiene diciannove poesie, nove del 1945 e dieci del 1950), Torino,
Einaudi, “Poeti” 1951.
- Lavorare stanca (1943), La
terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, in
Poesie, a cura di Massimo Mila, Torino, Einaudi, “NUE” 1961.
- Poesie del disamore e altre
poesie disperse (comprende oltre a Poesie del disamore e Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi, le poesie escluse da Lavorare stanca,
[Torino, Einaudi “Poeti”, 1943], poesie del 1931-1940 e due poesie del 1946),
Torino, Einaudi, “Nuovi Coralli” 1962.
- Poesie edite e inedite, a
cura di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1962 (comprende centoventicinque poesie
degli anni 1930-1950 e due scritti di poetica), Torino, Einaudi, “Supercoralli”
1962.
- Lavorare stanca (1943), in
Opere di Cesare Pavese, Torino, Einaudi 1968, vol. I.
- Poesie del disamore, in
Opere, cit., vol. II (contiene le undici poesie del gruppo omonimo, anni
1934-1938, La terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi e le
restanti poesie dell'edizione Calvino), Torino, Einaudi 1968.
- Lavorare stanca (1943), La
terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, con due
scritti dell’autore sulla sua poesia, a cura di Massimo Mila, Torino, Einaudi,
NUE 1974.
- Poesie giovanili (1923-30), a
cura di Attilio Dughera e Mariarosa Masoero, Torino, Einaudi, 1989 (edizione
fuori commercio).
- Le poesie (comprendenti altri
due testi inediti: Prima di Lavorare stanca ed Estravaganti scelte),
a cura di Mariarosa Masoero, Torino, Einaudi, 1998.
-
Lavorare stanca,
a cura di Mariarosa Masoero, Torino, Einaudi “Collezione di poesia” 2001
-
Lavorare stanca,
a cura di Mariarosa Masoero, introduzione di Marziano Guglielminetti, Torino,
Einaudi, “Tascabili-Poesia” 2005. Maria Rosa Masoero in
questo volume, in cui propone tutta l’opera poetica di Pavese, ha compreso anche
le poesie giovanili dal 1921 al 1930 che dovevano costituire una specie di
Canzoniere a sé stante; ha quindi ricostruito, sulla base del materiale
ritrovato, il libro così com’era nelle intenzioni di Pavese, eliminando quei
materiali che non davano sufficienti garanzie filologiche d’autenticità.
* * *
Per il
Centenario della nascita di Cesare Pavese si sono svolte innumerevoli iniziative
culturali (convegni, premi letterari, festival, letture, spettacoli, mostre,
emissione del francobollo celebrativo) soprattutto a Torino e a Santo Stefano
Belbo, in vari edifici scelti appositamente e nella Casa-Museo dello scrittore,
in cui ha sede il CE.PA.M. (Centro Pavesiano Museo Casa Natale) che pubblica
ormai da otto anni i Quaderni del CE.PA.M., rassegne di saggi
internazionali di critica pavesiana a cura di Antonio Catalfamo. L’ultima
rassegna reca il titolo pavesiano Cent’anni di solitudine? «Rompere la
crosta», 2008.
Nelle
iniziative cui si è accennato ricorrono sempre i nomi di Lorenzo Mondo,
Mariarosa Masoero e Marziano Guglielminetti, oltre a quelli di critici
prestigiosi.
Notevole la
cerimonia di premiazione del “Grinzane Cavour-Cesare Pavese” 2008, svoltasi
domenica 7 settembre, cui è seguito l’incontro-dibattito Cesare Pavese,
scrittore del Novecento moderato da
Giuliano Soria. Hanno
partecipato Alberto Arbasino,
Boris Biancheri,
Raffaele La Capria,
Lorenzo Mondo,
Giorgio Pressburger,
Emanuele Severino e Mimmo Calopresti.
L’iniziativa è stata riproposta al
Teatro Gobetti di Torino lunedì
8 settembre 2008.
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