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Intorno alle
Tre poesie di Giorgio Bárberi Squarotti
in:
L'Immaginazione
nr. 257/2010
Serse, il
ciclista
Serse, che
fece oltraggio all'Ellesponto col ponte lungo centomila piedi
e centomila cavalieri e fanti
lo
percorsero, facendosi beffe
dei flutti
furibondi e del tridente
di
Poseidon, scaraventato invano
contro il
robusto legno e ferro della
strada
eterna, inventata da geometri
ed architetti in sfida
a dèi e al buon senso
di
matematici e di timonieri
di navi con le vele come
ali
e ragazze
festose per polene?
Chiede
Elena, piegandosi a guardare
il
nome sulla
lapide, le lettere
consunte,
quasi mute, forse pensa
al suo, legato
a
quello
stesso mare
e a uguali guerre. Osservo
anch'io, a fatica
riconosco il fratello dell'eroe,
quello
minore, sgraziato,
un
po'
storto,
triste, col capo chino sempre, quello
che pedalava sempre in gruppo, mai
uno scatto, e neppure
mai il sogno
di una fuga. Dico alla
dottoranda:
– Un altro nome
Serse, esagerato,
anzi grottesco, chi sa
come giunto
a essere pronunciato in un
paese
banale nella piana che
dechina
da Marcabò al mare.
Ma una volta
fu
primo, era
già
in
vista del traguardo,
ebbro di applausi della folla e grida
del suo nome, e Zeus
proprio a quel momento
fece
precipitare fino al fondo
la sua
bilancia, di
lui, che aveva già
trentatré anni; e una rotaia, allora
la ruota
che si storse e il sasso –
Non
ascolta più, distratta dal vento
fatto
oscuro e dal tuono che veloce
si
approssima. – Che sciocchezza i nomi
di
lontanissime vicende, strane,
impossibili. Andiamo via, lasciamo
che i
morti seppelliscano i morti,
i
loro e
gli altri: Mi
farò la
doccia,
cospargerò
la
pelle di profumi
d'Arabia,
per la cena metterò
un abito
leggero, molto breve,
berrò con
allegria il vino rosso,
nel calice
inzuppando la focaccia
dorata;.
a notte, un po' ebbra ma prudente,
racconterò
i miei viaggi sulla Luna
e tutta la mia vita del futuro
che ho
scritto nella tesi, finta e vera, l'enorme
rumore, grida, canti,
confusioni
di danze, infine il folle
che,
balbettando, inviterà ad andare
È tutta
un giuoco di nomi, di omonimia questa lirica di Giorgio Bárberi Squarotti, un
giuoco di tempi e di luoghi, di grandi passioni e di oltraggi, di sogni immensi
e di sciagure, alcune meritate, altre volute da un destino avverso.
Sul colle di Sant’Ambrogio, a
Castellania presso Novi Ligure, riposa il corpo del ciclista Serse Coppi,
fratello minore del “campionissimo” Fausto. Corridore in bicicletta anche lui,
ma meno bravo di Fausto, ebbe due gravi sventure nella sua breve vita: agire
sempre nell’ombra dell’eccezionale fratello e, durante il Giro del Piemonte nel
1951, cadere battendo il capo sulla roccia, continuare coraggiosamente la tappa
da Pinerolo a Torino, ma spirare la sera in albergo tra le braccia del fratello.
Nel 480 a.C. il potente Serse, re dei
Persiani, volle ripetere la folle impresa del padre Dario, fallita nel 490 a.C.
a Maratona grazie all’eroismo di Temistocle e di tutti i Greci amanti della
libertà più che della propria vita: sottomettere l’Ellade.
Nello
stretto di Salamina la
ὕβρις
di Serse fu duramente punita da Poseidon, poiché l’imperialismo dei Persiani
appariva davvero come un atto di superbia offensiva per gli dèi. Le grosse e
pesanti navi di Serse furono sopraffatte dalle snelle e leggere navi dei Greci,
le cui vele parevano ali, tanto le rendevano veloci in quelle strettoie. Il
grande re Serse, sconfitto e umiliato, fuggì piangendo dal luogo della battaglia
perduta (Eschilo, I Persiani).
Elena, dottoranda accompagnatrice del
poeta nella gita in collina, ricorda con il suo nome la bellissima donna che
scatenò la Guerra di Troia e forse medita fra sé che la vicenda della sua
omonima si svolse in quelle stesse acque dell’Egeo. Gli Achei contro i Troiani
cantati da Omero, i Persiani contro i Greci ricordati da storici come Erodoto e
poeti come Eschilo: due tragiche vicende causate dalla passione sfrenata,
dall’oltraggio alle leggi degli dèi e degli uomini.
Ma, guardando la lapide di una tomba
dalle lettere consunte, Elena si chiede: «Serse?», quasi volesse alludere al re
dei Persiani. Il poeta, osservando con attenzione la lapide, riconosce in
un’immagine il fratello di Fausto, lo sventurato Serse. Che nome «esagerato, /
anzi grottesco, chi sa come giunto / a essere pronunciato in un paese / banale
nella piana…»!
La maestria del poeta consiste nel
divagare elegantemente dall’epoca mitica di Elena di Troia a quella storica di
Serse, re dei Persiani, a quella più recente di Serse Coppi, ciclista nell’ombra
del fratello “campionissimo”; dal Mar Egeo, teatro di due immani guerre, al
Piemonte del giro ciclistico fatale a Serse Coppi fino al cimitero di campagna a
Castellania, nei pressi di Novi Ligure.
Saper unire mito, storia antica,
attualità sportiva degli Anni Quaranta/Cinquanta e presente senza creare un
senso di artificioso intrico non è da pochi, come non è di tutti l’elegante
leggerezza della parte finale in cui Elena, dottoranda, vuole abbandonare la
meditazione su quei morti («Andiamo via, lasciamo / che i morti seppelliscano i
morti») e pensare piuttosto al bell’abito da indossare per la cena, ai profumi
d’Arabia con cui s’inonderà e ai discorsi,
tra un
brindisi e l’altro, sulla sua tesi
tra il fantasioso e il serio, con un
tocco d’antichità classica nel tema simposiaco e nell’olezzo dei profumi arabi.
Il fluente endecasillabo, di cui il
poeta è maestro, offre al lettore questo viaggio fantastico ma fondamentalmente
vero, tra memoria e realtà, fino all’originale explicit in cui, alla fine
della cena, un folle balbetterà parole incomprensibili, come per esortare i due
commensali ad avviarsi nelle tenebre notturne verso un sonno ristoratore.
° ° °
Costanza,
l’attrice
L'ha data proprio a tutti (ed anche a tutte) per quindici anni almeno, per gli States e per l'Europa con le statue ancora e con le chiese infrante, lei,
la sola trionfalmente nuda negli alberghi miserandi o dorati, fra i cespugli delle periferie macilente, in riva di anonimi torrenti, in mezzo ai giunchi da cui, mentre scopava, d'improvviso si
levava sereno
il flauto (oh, ora invento per addolcire la vicenda sempre identica, monotona, i lamenti compiaciuti,
l'agitarsi dei ginocchi, il volto sfatto dal piacere rapito), e più lontano il
canto di un pastore;
ma anche nel gabinetto di ministro e (molto più spesso) in quello merdoso di aride stazioni
di provincia.
Abbiate un po’ pietà, o vecchi candidi che state tutto il
giorno a commentare la vita d'altri nel bar tranquillo che hanno aperto diecimila anni fa sopra le mura d'Ilio. È morta ch'era ancora
tanto giovane, chi dice di un cancro, chi di cento
pillole per più sicuri sogni nel mattino o almeno per il sonno della pace dell'anima. Sul comodino dicono che avesse la gattina di péluche dell’infanzia e un libro, intonso,
quello di uno scrittore non ricordo più di quale parte del Cielo. Al funerale non andò nessuno. Solo una rosa mandò un regista, giunse un telegramma, ma era incomprensibile, in una lingua ignota e per di più tutto macchiato, come se fosse venuto da un enorme futuro. Tutto questo ha un senso? A me non tocca mai rispondere, per mia fortuna. Io scrivo, cioè ricordo, non altro, ma (alla cameriera timida chiese un bicchiere di barbera e il conto, e non si alza, continua a contemplare il Belbo esiguo, le colline ormai quasi abbrunate). È una sera antica, di quei tempi finiti, che nessuno... (una colomba scura si posò
sul tavolino, incominciò a beccare le briciole di vita, a lungo; infine volò verso occidente, dove c'era
l'eco rossa di nuvole serene).
L’attrice Costanza nel primo dopoguerra
(«con le statue ancora / e con le chiese infrante») conduceva una vita immorale
negli Stati Uniti e in tutta l’Europa, concedendo il proprio corpo a tutti,
uomini e donne, senza alcuna remora, senza distinzione di censo, stato sociale,
professione del partner o preferenza per il luogo dell’incontro: elegante,
sudicio, al chiuso di uno studio, all’aperto «fra i cespugli / delle periferie
macilente, in riva / di anonimi
torrenti», insomma, ovunque capitasse.
Proprio mentre Costanza si concedeva su
una di queste rive, ecco il tocco dell’artista che unisce lo squallido con il
poetico (teocriteo, virgiliano) «per addolcire la vicenda»: tra i giunchi si
levava il dolce suono di un flauto e più lontano il canto di un pastore (Titiro,
Melibeo, Tirsi, Coridone?). Il lettore per un istante dimentica tutto il
sudiciume di quella povera vita e si cala nell’atmosfera mitica dei pastori
siciliani.
Con parole severe ma sobrie il poeta
sferza i «vecchi candidi» che criticano impietosamente la vita altrui sulle alte
mura di Troia (ecco di nuovo Omero) o in un bar di oggi. Costanza è morta ancora
molto giovane. Di cancro? Di un centinaio di pillole per sognare fino al mattino
o per «il sonno della pace / dell’anima»? Nessuna pietà nei pettegolezzi e nelle
varie ipotesi sulla morte della giovane che teneva ancora sul comodino la
gattina di péluche della sua infanzia e un libro mai letto. Forse c’era
ancora qualcosa di pulito, d’innocente nell’animo di Costanza, nonostante la sua
vita sudicia.
La pietà del poeta, invece, con pochi
tratti icastici evoca il funerale deserto: solo una rosa inviata da un regista e
un telegramma incomprensibile, per di più macchiato, per una giovane che tutti
avevano sfruttata a proprio piacimento come un oggetto di piacere che si usa e
poi si getta. Questa è la donna per molti: la donna reificata.
«Tutto questo ha un senso» si chiede il
poeta? Ma il poeta non deve rispondere, per sua fortuna. Il suo compito è
scrivere, ricordare, non altro.
Improvviso un ricordo riaffiora: chiese
un bicchiere di barbera e il conto, ma rimase a contemplare il Belbo e le
colline al tramonto, paesaggio molto amato. Ma quando fu? Quale nesso con la
triste vicenda di Costanza?
«È una sera antica / di quei tempi
finiti, che nessuno…. ». Subito dopo quest’osservazione lasciata interrotta,
ecco che riaffiora un altro frammento del ricordo: «… una colomba scura si posò
/ sul tavolino, incominciò a beccare / le briciole di vita, a lungo; infine /
volò verso occidente, dove c’era / l’eco rossa di nuvole serene».
L’intreccio della poesia, tramata con i
fili dei ricordi, è molto originale poiché quasi tutto è avvenuto nel passato,
sia la vita e la morte di Costanza, sia la lunga sosta del poeta in un bar
presso il fiume Belbo nell’ora del tramonto. Nel presente solo il dubbio se lo
sfruttamento
di
Costanza in vita e l’abbandono dopo la morte abbia un senso.
Tuttavia, il ricordo intimo e personale
(la contemplazione del Belbo e delle amate Langhe ormai brunite dal tramonto, la
colomba scura che becca «le briciole di vita», quasi simbolo del tempo che
scorre inesorabile verso il declino, e la serenità delle nuvole nel rosso
occidente, verso cui la colomba vola) è racchiuso tra parentesi come se il poeta
volesse separare i due diversi tempi e ricordi, oppure volesse comporre una
scatola cinese in cui un ricordo è racchiuso in un altro ricordo, invertendo
però l’ordine dell’esterno con l’interno, della cornice con l’immagine che vi è
racchiusa.
Il ritmo pacato dell’endecasillabo e
l’uso frequente dell’enjambement rendono la composizione fluente come le
calme acque del Belbo, nonostante l’amarezza suscitata dal triste destino
dell’attrice Costanza. Le felici immagini paesaggistiche, soprattutto «l’eco
rossa di nuvole serene», sembra tuttavia che si contrappongano alla tristezza
che permea la rievocazione delle vicende.
° ° °
La
pastora
– Una pastora giovane: nel prato scosceso, al centro, con la verga in pugno, e tutti, in giro, gli animali.
– Pecore, capre, giovenche candide e pezzate?
– No: porci e scrofe, ed è ella succinta per non lordarsi in tanto brago e puzza,
ed è pure
costretta a intervenire spesso fra strilli e grugniti a dividere, a sospingere via i più riottosi,
a costringerli infine a incolonnarsi verso la conca d'acqua fonda, buia,
per poi entrare mondi nello stabbio.
– Era la povertà a farle fare
quell'infame lavoro? Carestia nel
suo paese dell'Oriente o guerre con i guerrieri che, negli armistizi, con
lacci, funi e gabbie vanno in; scuole o per
boschi alla caccia di ragazze vergini per portarle nei teatri a farle danzare nude davanti
ai turisti e, poi, quando
sono esauste,
frustarle ancora per domarle
e in templi
e bar infine consumarle, e questa fosse
qui la meno
aspra
di speranza?
– E se l'unica fosse che volesse tentare ancora la trasformazione opposta
a
quella
che la dea o l'angelo che fu di luce fece, e prima o poi le
bestie
immonde uscissero dall'acqua
lentamente assumendo volti,
voci
pur rauche e errate, mani tese?
Stava seduta sulla panca, dopo aver
chiuso la porta,
stanca. Aveva accanto pane, un pezzo di formaggio,
un bicchiere di vino. Contemplava il tramonto scarlatto di framezzo gli elci, le querce fruttifere, i pini.
Domani si sveglierà presto, e l'alba
pazientemente interrogherà mentre si verserà la grande tazza colma di latte.
Il titolo evoca un mondo quasi di mito
o di fiaba per il termine antico; inoltre fa pensare ad un gregge di pecore o ad
una mandria di giovenche come nella poesia teocritea-virgiliana o arcadica. La
fanciulla della poesia, invece, pascola i porci e riporta alla mente, ma solo
per gli animali che cura, la celebre fiaba di Hans Christian Andersen Il
guardiano di porci, oppure il film musicale romantico La guardiana di
porci e il pastore del regista russo Ivan Pyryev (1941).
Non vi è nulla di fiabesco, nulla di
romantico nella vita della giovane pastora, ma solo il lezzo dei porci e delle
scrofe, i loro grugniti e le lotte furibonde da dirimere con la verga, infine la
pozza d’acqua fonda in cui farli passare e il fetido brago dello stabbio. La sua
veste, se così si può denominare, è «succinta» per non divenire ancora più
sudicia tra quegli animali immondi.
Il quadro creato in questa lirica da
Giorgio Bárberi Squarotti è perfetto per la descrizione icastica e la struttura
delle frasi: non un’immagine bucolica, bensì una condizione di vita più che
misera («infame» scrive il poeta), tanto che egli stesso si chiede perché mai la
giovane vi si adatti. L’ha forse scelta oppure vi è stata costretta?
Il poeta non descrive mai una scena o
una situazione esasperata fine a se stessa, ma la scena piuttosto è occasione di
riflessioni morali (non moralistiche) sulla realtà storico-sociale degradata in
cui molti sono costretti a vivere, specialmente le donne, reificate e
mercificate. Infatti, la povertà è additata come ipotetica ragione di tale
scelta, quasi un rifugio dalla fame, o piuttosto dalle violenze fisiche e morali
cui le fanciulle sono sottoposte dai guerrieri d’Oriente finché sono vergini,
costrette a danzare nude nei teatri davanti ai turisti a suon di frustate; poi,
quando sono esauste, domate nei templi con le frustate e infine violentate.
Meglio, allora essere una guardiana di
porci maleodoranti.
E se invece la giovane credesse ai miti
e alle leggende, quindi alle metamorfosi degli animali almeno in uomini, se non
in principi come il celebre ranocchio dei fratelli Grimm? Del resto Lucifero,
Angelo della Luce, non subì forse una terribile metamorfosi per il suo peccato
di superbia, come narra la Bibbia? E la maga Circe non trasformava forse gli
uomini in animali, specialmente in porci, come narra Omero? Forse la pastora
faceva quella vita infame nella speranza di una metamorfosi opposta a quella
operata da Circe, attendendo con indomita speranza una voce e due mani tese.
Resta nel lettore il dubbio sulla
scelta della giovane guardiana di porci che, terminato il faticoso lavoro
quotidiano, «Contemplava / il tramonto scarlatto di framezzo / gli elci, le
querce fruttifere, i pini». Il rosso tramonto è «auspicio / di più sereno dì»,
come scrive il Manzoni, oppure è solo uno squarcio paesaggistico?
La pastora il giorno dopo si sveglierà
presto «e l’alba / pazientemente interrogherà», mentre beve la grossa tazza di
latte. L’impressione che se ne trae è che la giovane si nutra di speranza in un
mutamento della sua misera vita. Il tramonto è rosso e l’alba di per sé offre un
senso di rinascita, di rinnovamento.
Questo voleva dire Giorgio Bárberi
Squarotti con l’immagine della pastora?
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