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Il filo del pensiero

Questo testo è uno studio su Remo Pagnanelli, poeta e critico letterario maceratese, tra i più in vista della sua generazione, nato nel 1955 e morto suicida nel 1987. Compaiono qui citazioni dei suoi scritti e interpretazioni del pensiero e della poetica.

Risalta un mistero insoluto nei suoi versi: “mi chiamano anch’essi dal fondo della penombra / dove te ne stai soffiando nell’azzurrogiallo) / perché la percorra e sciami con uccelli di tutte / le risme sopra il lago immerso nei vapori / amici dalle corte arcate, amici che / invecchiate in fontane bambine, non / sognate di seguirmi nel mezzo delle / fiaccole, vi attende la consolazione / di un battello gittante tra estuari erbosi / fino allo spiazzo degli Elisi, un’incursione / dietro quinte oleose di piante e rare alghe / umane (un dio più perituro di altri avendo / simulato una forma di pietà)” (Agli amici).

Il suo è un addio annunciato, ma velato: “anche noi uscendo dalle Porte Scee / che ancora si dispongono vi / scivoliamo come lubrificati. / Per i crudeli il sorriso non è / dei migliori ma ne tentiamo uno / sotto luttuosi ombrelli. / caro demiurgo, per quanto lontano sei, / i miei lai non t’hanno mai raggiunto. / È per rassicurarti che ti scrivo. / Sto per venire da te ma non ho più bocca. / (…) Be’, addio. / (Distesi su lettucci a grate, / ci guardiamo sorridendo) / (Alzati sui pedali scattano dal gruppo / o si sfilano e staccano lentamente) / (un dio residuo ci benedica allora, / un dio qualunque, purché vivo.” (Al demiurgo).

Il tessuto lirico è intriso di note dolenti, come di un tragico scacco: “stato con voi così poco…(hanno prenotato / un intero scompartimento, così che non veda / gente e nulla sappia di soste o destinazioni). / sconsigliano, porgendo con astuzia sacrificale / la tazza dei veleni, di pensare, di consumarsi / nell’attesa.” (Pensieri del viaggio); “la rosa unica che resiste al disastro / del giardino serpeggi di un rossore / impigliato nell’inverno, ma per questo / sontuosa e brillante come mai / da una falda friabile di verde si scrollava / un vento di grazia e a un concerto di voci / allontanate chiamava, come nel lucido silenzio / lo screzio e l’orrore della luce / scostati i sugheri del padiglione - / qui stavano sotto i vimini a contare / i bulbi d’oro del crepuscolo, la snella / mimosa del Giappone ancora sui laghi caldi / e rari dell’autunno. Le spezie ti coloravano / il viso riparato dai vetri e i morti placidamente / vagavano sulle corolle lambite dalla pioggia / di pietre chiare.” (Bestiario).

Guido Garufi, paesano e amico di Remo Pagnanelli, offre una chiave di lettura incisiva, tentando di decifrare la poesia Quasi un consuntivo: “Mai stato in nessun posto / che riservasse qualche sorpresa. / Mai stato con donne / che non la sapessero lunga e pronte, / prontissime alla simulazione. / Mai stato con Dio o con mezze / divinità, data la loro ormai clamorosa / inesistenza. / Mai stato un giorno senza paura, / senza la luminosa paura / di essere dimenticati.” Scrive a tal proposito il letterato: “L’andamento narrativo del testo “autobiografico” la dice lunga circa la strategia del suo autore: togliere di mezzo e fare fuori ogni fronzolo che possa “affascinare” il lettore, abbattere e annullare qualsiasi intercalare prosodico o “calco” stilistico capace di essere apparentato con i suoi (di Remo) padri letterari. Sereni, in primis, ma anche Bertolucci.” In quel quasi “è una approssimazione alla nostra lingua interna, non dicibile, difficilmente traducibile.”

Enrico Capodaglio fornisce le coordinate di interpretazione di Nella stanza delle meraviglie, da Preparativi per la villeggiatura: “Le città della pianura sono cenere e polvere, / bruciano nella notte, incupite di desiderio. / Fra la santità e il suo contrario non c’è che un passo, / e tu lo sai, perversa e sacra. / penetra solo nella gioiosa sciagura di Dio, / ama il pericolo del giardino e della casa, / chiama a protezione i fanciulli purpurei / dai fondaci della primavera, della sera. / (…) - lo spettacolo del mondo s’appanna, / quando come una formichina spio / le pieghe dell’albero. / Il mondo vivrà dopo di me, poiché la ruota / è ben fissa, malgrado il Costruttore / sia morto durante la fatica -.”

Questo testo è denso di evocazioni simboliche che il critico cerca di decriptare, a partire dal titolo: “La poesia di Remo Pagnanelli si intitola Wunderkammer, stanza delle meraviglie, un embrione caotico di museo, diffuso, soprattutto nel mondo tedesco, dal XVI secolo, dove venivano disposte, in scansie e vetrine, cose naturali, come parti del corpo umano o feti immersi in un liquido, animali deformi impagliati, pietre rare, piante essiccate, insieme ad artefatti: gioielli, libri e stampe, quadri, cammei, filigrane, vasi e monete antiche.” Un pensiero particolare sembra essere rivolto alla figura muliebre, nella sua forza viscerale che si volge alla morte, piuttosto che alla vita: (biglietti sempre più brevi verso la fine, / mandati agli insetti perlopiù) / la purezza è un vestito luttuoso / (lo prova il bianco orientale). / Il cielo, il cimitero più vasto. / Di quale interlocutore, che abbia riempito / tutto quel silenzio, vai sparlando… / non sei stata madre, sei stata figlia. / La morte madre ti avrà bambina perpetua. / (In sogno adoro il ventre per tutti arido, / la pagina su cui incise l’incessante ritmo, / la scrittura sfinita della creazione) / erroneamente si crede che gli dèi con le ninfe / frequentino i giardini dilettosi / e il Dio unico urli nel deserto abbandonato / (abbandonato lui stesso). / Alla solitudine non hai mai creduto. / Insieme eravate la terra.”

Lo studioso coglie questo messaggio cifrato, il cui senso sembra indirizzato alla sola interlocutrice che possa comprenderlo: “L’autore sembra parlare infatti, lungo la poesia intera, non a noi, ma a chi sa come stanno le cose, mentre noi tendiamo l’orecchio. Egli mantiene il segreto tra loro, i diretti interessati, che lo possono capire; a noi lettori rivolge la musica poetica, l’arte del pensiero, ma non dobbiamo dimenticare che c’è sotto qualcos’altro, di più pressante e personale, nascosto nelle parole, che non chiudono la partita. Questo tratto pudico e scontroso dell’attitudine esistenziale e retorica, ricorrente in Remo Pagnanelli, giova non poco ai versi, che sono ruvidi, sì, ma perché riservati e intimi, come se l’autore ci dicesse: “Queste cose non le ho scritte solo per voi.””

A completare quest’opera è un minuto corredo fotografico sul poeta e un’incisione, Senza Titolo, di Nubia Landell, nata a Durango, in Messico, nel 1977, artista poliedrica che ha viaggiato sulle tracce dei pigmenti in Nepal, Singapore e Thailandia e che attualmente vive in Svizzera.

Recensione
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