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«Di tutte le cose
che soddisfano i suoi bisogni l’uomo attribuisce il maggior valore a quelle che
meno gli sono indispensabili». È uno dei tanti aforismi che punteggiano il
testo di Micheli. È un aforisma dal sapore orientale, quasi una massima
confuciana, ma è anche una sentenza occidentale, che contiene una critica
implicita al capitalismo che in occidente ha avuto i propri albori. Due
personaggi: un giapponese Taisho, che studia per conformarsi al modello
occidentale, e un olandese, Baruch, che vivrà in Giappone ed assumerà gli usi e
i costumi del luogo. La scena principale del romanzo è posta a Nagasaki, città
che, a distanza di pochi anni da quelli in cui si svolgono le vicende narrate,
rappresentò il punto di impatto più devastante nell’incontro tra Occidente e
Oriente.
Il libro offre
un ricchissimo campionario di tali luoghi d’incontro e rovesciamento, uno dei
quale è proprio la ricchezza, intesa in senso occidentale, sotto la categoria
della quantità, ma non disgiunta da una correlativa accezione orientale, quale
ricchezza interiore e dissipazione di essa. La ricchezza è anche la cifra più
evidente della concrezione stilistica dell’opera. Quello del Micheli è uno stile
ricercato, minuzioso, alto, dove ricorre un continuo utilizzo di vocaboli
desueti, non perché arcaici ma perché esclusi dall’uso quotidiano della lingua;
vi emerge un tentativo di riportare la nostra lingua a una ricchezza che le è
propria, giusto in un momento in cui si sta, ovvio costatarlo, terribilmente
impoverendo.
La grazia sufficiente è il terzo romanzo del Micheli; chi
conosca i precedenti sa delle difficoltà che si incontrano nell’affrontarne le
prime pagine, e sa anche del piacere che si prova ad andare avanti, sa della
facilità con cui, una volta che si sia acquisita familiarità con i modi
narrativi dell’autore, si voglia impazientemente arrivare all’epilogo e come,
guardandosi poi indietro, si rimanga estremamente grati alla ricercatezza e al
non svilimento di parole che costituiscono il valore della lingua italiana.
Tipico dello stile del Micheli è un continuo, quasi ossessivo, accoppiamento di
sostantivo e aggettivo, spesso di sostantivo e aggettivi. Scrive Cesare Pavese
nel Mestiere di vivere: «Anche se proviamo un palpito di gioia a trovare
un aggettivo accoppiato con riuscita a un sostantivo, che mai si videro insieme,
non è stupore all’eleganza della cosa, alla prontezza dell’ingegno, all’abilità
tecnica del poeta che ci tocca, ma meraviglia alla nuova realtà portata in
luce». Il valore della prosa del Micheli risiede esattamente nella capacità,
dispiegata in ogni frase e in ogni periodo, di portare alla luce nuove realtà,
dapprima linguistiche ma che si trasformano, poi, in nuove realtà prettamente
percettive. Alla conclusione della lettura di un romanzo di Micheli traiamo una
percezione dell’esistente estremamente più ricca di quanto ci era compagna
prima.
Anche dal punto
di vista narrativo riscontriamo una analoga abbondanza di temi e di strutture.
Due personaggi indipendenti, l’uno reincarnazione dell’altro, forse, si
incontrano in maniera sfumata, in sogno, un ricongiungimento onirico. Si
incontrano nuovamente, forse, nel capitolo conclusivo. Tutto ciò avviene in
forme e stati di coscienza molto vicini a quelli che Esiodo attribuisce a Hypnos,
figlio della Notte e fratello della Morte. Qua il sogno è soglia privilegiata
tra la realtà presente ed una ulteriore. In tal senso si potrebbe dare allo
stile di Micheli la definizione di realismo onirico, così come di onirico
realismo si compone la narrazione della Cabala. Anche nella struttura narrativa
de La grazia sufficiente ritroviamo due serie parallele e tra di loro
intrecciate: ancora una volta Occidente, nella precisione linguistica e dei
riferimenti culturali, e Oriente, nei concetti portanti di possibilità e
dissipazione. Talvolta sembra che la storia prenda una certa via, ma subito dopo
ne imbocca invece una diversa e non prevedibile. Personaggi che sembrano poter
essere coprotagonisti svaniscono poi nel nulla, proprio come nel sogno, proprio
come nella vita, nella realtà. La cifra che caratterizza i personaggi del
romanzo e le loro relazioni non è l’equidistanza, di consuetudine e stampo
occidentali, bensì la equiprobabilità; non è la mezza misura, la medietas,
la mediocritas, ma piuttosto una fluttuazione attiva, un movimento che si
dispiega di nuovo come in sogno, ancora una volta come nella realtà. Il
movimento nella filosofia orientale è un processo, una via; la parola Tao
significa ciò: la via. Il filosofo taoista Meng Zi scrisse: «Si lede il Tao se
ci si attiene all’uno, se si accoglie un principio e se ne trascurano cento».
La logica del
discorso filosofico orientale non è di tipo razionale (ratio), che
ripartisce, ma è una logica sfumata, che si gusta e si lascia sciogliere sulle
papille gustative della mente o dell’anima. Nel pensiero orientale esiste il
contrario della verità, ma non è, come in occidente, la falsità; è piuttosto la
parzialità. Non vero è ciò che non riesce ad abbracciare tutte le possibilità
dell’esistente. Si tratta, dunque, di un tipo di logica del tutto contraria a
quella esclusiva (non contraddizione, terzo escluso) su cui si fonda il pensiero
occidentale da Aristotele in poi. Tale logica è invece inclusiva, ogni
possibilità è mobile e fluttuante, e ricompare ovunque lungo tutto il romanzo di
Micheli. Auguste Blanqui, rivoluzionario nizzardo che fu internato nella
prigione dello Château d'If in seguito al fallimento
della Comune di Parigi di cui era stato membro, ebbe un’idea assolutamente
orientale, che più tardi Nietzsche riprese nella propria concezione dell’eterno
ritorno e che può rischiarare bene l’intreccio narrativo adottato da Micheli.
Scrive Blanqui nel breve saggio del 1871 L’éternité par les astres:
«Esiste una terra in cui ogni uomo segue la strada che il suo sosia ha
disprezzato nell'altra. La sua esistenza si sdoppia in due globi diversi, e poi
si biforca una seconda, una terza volta, migliaia di volte. Possiede così dei
sosia identici e incalcolabili varianti di sosia, che sono la stessa persona
moltiplicata, ma che condividono solo dei frammenti dello stesso destino. Tutto
ciò che si sarebbe potuto essere quaggiù, lo si è altrove, da qualche altra
parte». Un’idea visionaria e terribilmente affascinante: altrove continuano a
vivere le possibilità che qui abbiamo scartato. Questo sapiente utilizzo del
concetto di possibilità è anche il merito che si deve dare a un libro come La
grazia sufficiente, al cui autore dobbiamo essere grati per un testo di
tanta ricchezza in un momento di così buia povertà culturale, un testo tanto
ricco da dissipare, tanto onirico da mostrare che il reale è costituito da
molteplici e diversi possibili.
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Recensione |
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