| |
La fotografia e la morte sono legate da
una sottile e suggestiva parentela. Fotografare i volti dei morti è stato uno
dei primi compiti dell’arte con l’obiettivo. Come a dire il desiderio di tenere
a mente attraverso gli occhi, di vincere l’oblio, di esorcizzare la fine:
l’immagine fotografica è una prova inconfutabile di esistenza, di unicità. Anche
nelle fotografie dei vivi c’è qualche cosa che appartiene già alla morte,
l’istante fissato dalla fotografia è già trascorso, quel tempo è inesorabilmente
alle spalle, non più revocabile, già fonte di nostalgia un minuto più tardi.
Tuttavia è nel ricordo dei morti, di coloro che “non rivolgono più il loro
sguardo su di noi” che la fotografia si misura fino in fondo con la vocazione a
rimembrare ed è proprio da lì, dal tema del compianto, che muove l’indagine
condotta attraverso la macchina fotografica da Luccia Danesin raccolta nel
volume edito da Biblos Soglie.
Il luogo d’elezione in cui trova spazio e
canoni di espressione il ricordo dei morti è il cimitero e infatti le fotografie
della Danesin ritraggono dettagli di monumenti funebri del cimitero monumentale
di Padova. Questo non è né il Père- Lachaise, né il cimitero di Staglieno a
Genova, tuttavia è pur sempre un esempio grandioso di cimitero d’impostazione
tardo ottocentesca. Dunque entriamo nell’unico regno dei morti conosciuto dai
vivi dove la veglia perpetua è affidata a figure di pietra variamente atteggiate
e modellate. E qui inizia un viaggio a due velocità: da un lato il lamento,
dall’altro la sua sensualità. Se, infatti, la pena, la mestizia, il richiamo
della spiritualità aprono le porte dei significati sembra, altresì, che sia Eros
piuttosto che Thanatos, la bellezza che incanta e commuove piuttosto che la
morte, a palesarsi nella grazia struggente dei soggetti colti da una fedele
fotografia in bianco e nero. Non si tratta di soggetti sacri -non ci sono Marie
né Sacri Cuori- bensì figure femminili e infantili chiamate a custodire i
sepolcri. Figure che un verismo eccedente e compiaciuto scolpisce nella pietra
fredda confermando nella materia il verdetto di morte che l’immagine esorcizza
nell’appassionata fedeltà mimetica. La fotografia spia, incalza e tallona
proprio quel verismo ed è immortalando il palpito “non visto” della vita che
coglie tutto il pathos della morte.
Ad aprire la strada
a questo genere iconografico furono le formose e discinte allegorie delle virtù
secentesche poste a compianto d’illustrissimi defunti. L’Ottocento (che si
protrae ben oltre la soglia del Novecento) dopo aver rianimato la pietas
neoclassica modellò intere schiere di meravigliose fanciulle in atto di veglia
eterna. Il verismo è più insaziabile di dettagli di privata umanità di quanto
non fosse il barocco e ciò lo rende un formidabile amplificatore del sentimento
della perdita. Le allegorie femminili ottocentesche non sono tornite e
meravigliosamente inespressive come le antenate bensì sono assorte e tristi,
manifestano uno stato d’animo, si adombrano, s’interrogano, si abbandonano, come
usano fare gli esseri umani senza molte difese piuttosto che apparire
imperturbabili come una virtù, una categoria astratta. Esse sembrano, insomma,
appartenere a questo mondo piuttosto che all’altro, sono composte nella fredda
calma del commiato, del memento ma al modo di soggetti coinvolti, non
professionali: angeli custodi non mai assuefatti alla morte con pelli che si
intuiscono vellutate, anatomie appena velate che s’intuiscono perfette, labbra
carnose, sguardi perduti e morbide ciocche di capelli che ricadono sulle tempie.
Quando l’impietoso obiettivo scopre pelli di pietra scrostate dal tempo e dalle
intemperie l’effetto è ancora più struggente.
Luccia Danesin
s’interroga sul tema della morte, sulla soglia che separa i vivi dai morti, va a
cercarla nel luogo deputato delle sepolture ma più che trovare un ponte di
sottili transiti da questo mondo all’ ”oltre”, sembra imbattersi nella
rappresentazione di un’inguaribile nostalgia per la vita impersonata dalle
bellissime dame del lutto, dai morbidi putti alfieri di una grazia toccante e
dolorosa perché nessuna carezza umana potrà riscaldarne il corpo di pietra,
freddo come ora nella morte quello che fu vivo, e confinati a deliziare il
recinto dei morti. Il contrasto estremo alimenta suggestioni e palpiti. Una
figura di vecchia ossuta già prossima alla morte sarebbe altamente drammatica ma
della stessa natura semantica del lutto, muoverebbe alla pietà non allo strazio
malinconico. La retorica non è un’opinione. C’è un aspetto di queste fotografie
che le rende ancora più ambigue e attraenti: le pose. Le figure sembrano in posa
per la fotografia, in una posa teatrale fatalmente minore, antieroica; sembrano
colte mentre provano a rappresentare la versione dolce del dolore, quella che
veglia, prega e compiange il defunto senza disperarsi poiché non della morte
esse sono le vestali bensì del sonno eterno. E ritorna per questa via
l’inafferrabile familiarità tra il tema della morte e la fotografia, come ben
vide Roland Barthes. Parte del fascino degli scatti di Luccia Danesin è dovuto
certamente a questa ambiguità congenita al mezzo. L’altra parte è tutta
scrivibile al suo talento che ha saputo trasformare uno struggente proposito di
eternità (quale è la vocazione del monumento funebre) nell’asciutta e oggettiva
brevità di uno scatto in bianco e nero.
| |
 |
Recensione |
|