| |
Miriam Bordoni, giovane scrittrice
svizzera, esordisce nella narrativa con un romanzo che trasuda emozioni,
immagini, riflessioni sparse densamente fra le righe. E’ la storia di Giovanni,
un uomo che sembra senza tempo, al quale riesce difficile associare una
fisionomia, ma di cui il lettore riesce a comprendere pienamente l’anima, e
tutto ciò di cui essa è riempita fin dalle prime pagine. Giovanni è un uomo
malato di solitudine, quella malattia (o modo di essere, o attitudine?) che ogni
cuore conosce bene e che diventa per tutti, almeno una volta o per sempre, una
compagna di viaggio. La sua vita è fatta di lenti, ripetuti meccanismi
d’ingranaggio quasi arrugginiti. Vive da anni in un paesino nel quale non è
riuscito a stabilire quasi nessun contatto umano, e da anni frequenta lo stesso
posto, un’antica osteria fumosa e dall’aspetto malsano, dove, chiuso in un
angolo come un bruco impossibilitato a divenire farfalla, osserva ciò che accade
davanti a lui: «Andare tutte le sere dove gli altri si ritrovano. Vederli
ridere, bestemmiare mentre giocano a carte. Sapere che lo inviteranno al tavolo
solo se uno dei loro manca o se ne va prima. Sapere che se gli fanno qualche
domanda, quando chiedono “come stai?” non è per sapere davvero come sta. E’ solo
un domandare per sapere, per sentirlo parlare, lui che parla così poco…». Poi
torna a casa, e le sue ore continuano a scorrere lente, come le gocce di cera in
una candela che sembra destinata a spegnersi presto. Una sera, quasi senza
ragione, Giovanni commette un’azione insensata, contro uno dei frequentatori
dell’osteria: sarà l’inizio di un declino inevitabile, come inevitabile è
pensare a quanto il passato di un uomo così taciturno e tormentato abbia poi
condizionato i suoi gesti, il declino della sua esistenza…Persino la notte, il
nero della notte di cui ha sempre avuto paura, fin da bambino, non lo sfiderà
più, ma resterà a guardalo inerme. E la domanda, retorica, che Giovanni si pone
nel romanzo si impadronirà eternamente del suo corpo, dei suoi pensieri: «Perché
bisogna avere così paura di non essere più, quando se ne ha altrettanta di
essere?».
Una
prosa coraggiosa e profonda, nel contenuto e nello stile, quella dell’autrice,
che dissemina la scrittura di monologhi in prima persona da leggere tutti d’un
fiato, e immerge il lettore in un mare di frasi brevi ed incisive, che limano la
coscienza e aiutano a riconoscere l’importanza e il senso del vivere.
| |
|
Recensione |
|