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Disforia del nome
Si è acceso il senso e la parola è nata, ecco tutto: la laconica
citazione di Bulgakov apre la porta alla lacerante raccolta poetica della
scrittrice veneta, già autrice di innumerevoli opere di grande impatto
letterario, tra le quali Buona parte del giorno (premio Angelo Musco
2012). La smembrante lacerazione del verso, mai tragicamente sottinteso, è tutta
nell’oscuro suffisso dis-, già portatore nel greco classico di un senso
d’alterazione, di negazione, quasi di intimidazione nei confronti delle emozioni
più pure. Disonomie e In disnomine patris sono infatti, insieme a
Sine die, le tre sezioni di questo nido di parole che viviseziona, in
contraltare, l’euforia della semplicità, per annidarsi appunto in un ermetismo a
tratti quasi montaliano (“S’è ritorto il filo che era teso, è annodata la vena/
che portava il sangue al cuore dell’idea”).
La scrittrice, che annuncia in prefazione quanto “quasi mai la vita sia
storia a lieto fine, ma […] finestra aperta giorno e notte”, si muove sull’onda
frangiflutti della malinconia e del ricordo. I due sentieri gemelli si
intersecano in giochi di assonanze e consonanze, nei quali la musicalità delle
stesse stride con la tristezza del verso (“l’amore alla vita del frutteto
sta nel coccio spezzato/ dentro l’orto inabissato”). I ricordi diventano
personificazioni estreme di ciò che non c’è più: sono portatori di braccia,
vento, profumi, luci dense che rievocano “il vuoto di un amore” che mai però
giacerà, posato, in essi. Il ricordo diventa persino un miraggio, “e ancora beve
alla fonte di una polla/ roca e grama/ cui la mano attinge e non disseta”.
Spesso, del ricordo, si stenta a “ritrovare il piombo fuso”: così esso non può
più scaldare, e fluttua perduto verso riva … In contrasto, resiste l’odore della
malinconia che resta, influenzata da “una febbre piccola di lacrime sottili”. E’
un sentire volitivo, pregnante, che non scompare, ma addirittura è strada su cui
corre “l’attitudine al male di ogni giorno”. E’ una luce che “splende nel cielo
della sera”, in mezzo al dolore di un Ritorno che tarda ad arrivare.
Una poesia estrema, in cui la profondità di un certo lessico classico
accompagna, in modo un po’ meccanico e stridente, l’ardore di sentimenti e
immagini alterati tra sussurri e grida (“Questo il quadro di partenza/appeso
alla parete in frana della casa./ Immagine proclive alla durezza/ alla
presunzione di sapere/ che disamora alla purezza”). Un’opera, quella della Gaddo
Zanovello, che si presta a reiterate letture, al fine di scovarne il senso
maggiormente in tono, in sintonia con la mente del lettore.
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Recensione |
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