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Dunque, l’arte che vuole ?
Vittorio Cozzoli, cremonese,
classe 1942, profondissimo conoscitore e studioso del Dante anagogico
(cui ha dedicato numerosi ed interessanti scritti) firma qui una raccolta di
poesie che esplora l’universo mistico e teologico in chiave originale e
personalissima. La sua inedita visione del cosmo e dei meccanismi che ne
regolano l’arcano flusso si snoda attraverso rime enigmatiche, di colta
raffinatezza e di elegante mistero, che donano a chi legge versi nuovi,
assolutamente inediti nel panorama espressivo del linguaggio poetico.
A sentenze lapidarie, poco
oniriche (“niente mi commuove più della bellezza”; “ogni dono ne contiene un
altro, più grande”), si alternano preziose perle che giocano con la filosofia in
modo semplice, leggero (“così l’eterno precede il tempo,/ così la risposta ogni
domanda”). C’è una viva circolarità nelle cose che tornano (“ciò che è apparso
riappare”; “anche noi ciò che siamo saremo”); una percezione oracolare, vicina
all’Eraclito che fu nella maniera di autodefinirsi (“ho visto il vedere che vede
me/ e con me ride di rinnovata intesa”; “o la voce di chi chiama me, che abito/
diversi luoghi nello stesso tempo,/ diversi tempi nello stesso luogo”). Ma ciò
che inneggia alla lode dell’opera è, in particolare, il ricorso all’uso di un
lessico bucolico e agreste, che nel gioco del rapporto significante/significato
assume valenze incomprensibili, e per questo estremamente affascinanti. Scrive
Cozzoli: “lumachine d’acqua, dove vi ho conosciute?”.E ancora: “abito dentro un
paesaggio. Quale/ non importa, fate voi. Siepi? Siepi./ Rose canine? Rose
canine. Niente/ allori, non occorre. […] “Sì, querce, noccioleti, ma qui
aggiungerei/le rosse bacche, il segnale per gli uccelli./Gli chiederei: ‘Di
Adamo cosa portiamo,/ noi, nella parte scura del sangue?’”.
Fra influenze petrarchesche
(ogni poesia nel titolo richiama esattamente il primo verso) e un citazionismo
spinto all’estremo (Leibniz, Virgilio, Brodskij e Pound tra gli altri) l’autore
nello sviolinare rime immaginifiche elogia il potere del silenzio (l’unico
rifugio alle illusioni) ed immagina il futuro in una pagina bianca, da lasciare
così com’è (“e per amore dell’invisibile vivo/ molto bianco lascio alla pagina,/
dentro e fuori”). E L’incontro fra Antonio e Paolo eremita in copertina
testimonia il senso disperato delle sue domande, annidate in un paesaggio
inquieto ed inquietante, dove però, l’Arte esiste in tutta la sua potenza. E,
nell’essenza, il poeta scrive: ”dunque, l’arte che vuole? Questo solo:/ che si
veda quello che si sente e si senta/ quello che non si vede, ma nell’aria,/
anche da lontano, già profuma.” Sinestesie che toccano il cuore.
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Recensione |
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