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Una prosa che trasuda amore e poesia, una penna d’inchiostro sottile, dolente, silenziosa. L’opera prima della giovane Francesca Interlenghi, classe 1973, è un racconto che di esordiente sembra avere ben poco, tanto infuoca la mente del lettore per la classe, il talento, la capacità –spontanea, inconsapevole- di toccare tutte le corde del cuore.

E’ la storia di Blanca, fragile ventinovenne votata a un “destino” crudele, quello di aver sposato l’uomo sbagliato. Ma soprattutto, di essersi innamorata di Pablo, quello che forse avrebbe potuto essere l’uomo giusto, anche lui con un anello al dito, un matrimonio convenzionale, due bambini. Pablo e Blanca sono colleghi di lavoro, sono amanti, i loro corpi si incontrano, si scontrano sul pavimento dell’ufficio, in un freddo motel. Lui, però, non trova il coraggio, l’incoscienza di staccare il cordone ombelicale dalla sua famiglia. Lei, spossata da una passione viscerale, perde del tutto quell’identità che aveva già dimenticato fra le ceneri della sua unione infelice: diventa una donna “che non trova più l’inizio e la fine del suo gomitolo di lana rosa”. Un equilibrio instabile, come quello un acrobata che cammina sul filo di lana, la porterà a perdersi dentro se stessa, al rifiuto del cibo, al disperato tentativo di controllare la sua anima, a fare del male alla sua anima. Arrivano l’anoressia, l’autolesionismo, il ricovero in una clinica chiamata Villa Paradiso. Poi la disperazione si tramuta in silenzio, nella volontà di “non voler sentire più”. Dal suo lettino d’ospedale, Blanca analizza, o meglio viviseziona, tra toccanti pagine di diario, monologhi interiori e, a volte, riflessioni impietose (repentini, violenti i passaggi dalla prima alla terza persona, quasi come a voler sottolineare uno sdoppiamento di pensieri) tutti i segmenti di questo sentimento. E lo fa in maniera straziante, con uno stile decorato da frequenti anafore e versi meravigliosi (“L’amore ci chiama da dentro la vita | ci costringe a rinunciare all’immobilità dell’amore | a sacrificare il corpo a un desiderio di memoria”), quasi sfumando l’abilità narrativa con quella poetica, fondendo insieme i due generi. Inevitabile pensare a una seppur minima identificazione fra autore e narratore, nel raccontare una storia che però non è solo un sipario calato sulla vita, ma un ritorno, nell’epilogo, alla vita stessa. Un riverbero di luce che la protagonista trova negli occhi del nuovo amico Gael (“vivere è avere l’opportunità di provare ancora qualcosa di speciale, fosse solo l’abbraccio di un uomo in una piovosa notte d’autunno”).

Il  raggio di sole finale pone un sigillo di speranza sulla parola “ricominciare”, oltre che su un libro degno di essere ricordato per la coraggiosa intimità con la quale è scritto.

Recensione
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