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Un sole opaco fa capolino tra i
rami degli alberi: una ragazza, scalza e semplice, sta percorrendo un terreno
dorato, quasi attratta, fatalmente, da quella luce. La foto di copertina di
questo leggiadro romanzo, realizzata dall’autrice stessa, apre la via alla
storia di Silvia, ventinovenne responsabile di un call center. Silvia sembra
avere tutto: una casa, un buon lavoro, un amore perfetto. Ma lo strappo è dietro
l’angolo: il peso dei suoi sogni mai vissuti, dei suoi desideri nascosti come
polvere, un giorno si presenta, e sfocia in fobia. Silvia ha un attacco di
panico, cui ne seguiranno molti altri. La paura diventa l’amica-nemica con cui
condividere giorni, ore, minuti, che fanno riemergere nell’anima la sua passione
mai sopita: dedicarsi all’arte, donare se stessa alla pittura. La poca stima
nelle sue reali capacità è la sua palla di ferro al piede. Un giorno però,
mentre il vento durante una passeggiata fa scivolare un foglio ai suoi piedi,
Silvia incontra Nadia, una donna che cambierà il suo modo di vedere la vita. Da
allora la metamorfosi si insinua nelle viscere della mente, fino a compiersi
nella quotidianità. Attraverso una serie di segni, occasioni ed esperienze,
attraverso il contatto con la natura -madre gentile- e la forza di certe parole,
Silvia proverà a raggiungere il suo antico obiettivo. Ritornano le tele
abbandonate, i colori, la voglia di toccare ancora, con mano, l’universo
interiore fattosi immagine. Un vecchio negozio dedicato ai collezionisti d’arte
e l’incontro con “l’uomo della fortuna” ora potrebbero avere un significato, e
portare finalmente Silvia sul giusto sentiero…
Al di là della serie
(in)spiegabile di eventi, e di farfalle misteriose apparse come d’incanto ai
piedi della protagonista, il motore trainante di questa favola attuale è un
sacrificio che spesso costa: quello di credere in se stessi. Può costare molto,
a chi non lo riconosce come innato, perché fatica a conquistarlo. Ma può
ugualmente- e qui il valore morale del libro- rendere altrettanto se viene
coltivato con cura. Così come opera un giardiniere, la Piras (sarda d’origine,
ma romana d’adozione) costruisce con pochi fiori un delicato giardino, dove i
petali sono le righe che scorrono lisce, senza particolari meccanismi
riflessivi, lasciandosi andare ai fatti.
Poche cornici, ma
un alone che sa quasi di new age e uno spirito zen avvolgono questo
piccolo libro, metafora della ricerca dell’Io. Colpisce, nei ringraziamenti, una
frase in particolare che l’autrice pone nella parte finale: “Grazie anche a
tutte le persone che mi hanno fatto soffrire, non mi hanno capita e mi hanno
scoraggiata. Grazie a loro ho sofferto, ma ho arricchito la mia anima, lottando
e divenendo più forte”. | |
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Recensione |
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