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Per sillabe e lame
Mario Luzi scrive, nel 2004, a proposito della poesia della Simonetti: “il
rapporto interiore tra il suo dono e la sua facoltà è del tutto singolare: e
questo influisce sulla pronuncia dei suoi versi nei quali si riflette la sua
personalissima ispirazione. Lei è un caso letterario vivo ed originale
indipendente dalla koinè corrente…”. La recente silloge poetica della
scrittrice palermitana, dotata di inconfondibile talento letterario, ne è la
conferma. Le ventisette ‘sinfonie armoniche’ della raccolta rappresentano, in un
singhiozzante ma lunghissimo ossimoro, “suoni melodiosi e stridenti in
alternanza”, che “percuotono il petto nell’ascolto attento, / donando emozioni
che sfiorano il senso / dell’infinito e del finito”.
Tutto, nella poesia della Simonetti, è aulico e raffinato, tutto è consacrato,
nel procedere delle litanie, al potere salvifico della Parola: soltanto lei ha
la forza, e forse il dovere, di stracciare quel tempo, che l’autrice rende
vuoto, mutante in “angelica sostanza – vittoria sull’inerzia – lacrima che
irrora – pianto di stelle – stacco fra la terra e l’ignoto”.
Il vuoto, sostantivo chiave inevitabilmente legato alla forza degli astri, degli
spazi stellari che tentano di confinarlo per renderlo immortale: “dell’amore
posseduto trarrò soltanto / un suono siderale da tramandare nello spazio- / sulla
terra rimarranno statue e simulacri”.
Nel procedere delle note affilate, in una composizione grafica a volte
tormentata e scomposta, l’autrice ci regala dei versi di grande impatto
lessicale, violenti, duri, decisi, accompagnati da una scrittura talora
sincopata ma profondamente incisiva, che tenta di “ricomporre le fratture” del
reale, in un atto di grande coraggio. Difatti, “la parola armoniosa / non teme
la fine / la morte / lo strappo – perché si rimane / con voce di canto / nella
certezza del cerchio / che non ha punte di lame / ma curve di lana”. Le assonanze
testuali, ermetiche per buona parte, si fanno compagnia e rendono omaggio a
grandi scrittori del passato, come Katarina Frostenson, Edgar Allan Poe, Eugenio
Montale ed Herta Muller, cui è legato uno straziante ricordo d’infanzia, di
ispirazione quasi pascoliana.
Il tempo presente, passato e futuro, si rincorre in un vortice senza fine, in
una spirale letteraria nella quale chi scrive sente, dirompente, l’esigenza di
aggrapparsi alle origini, a quel Parnaso cui si chiede ispirazione, affinché la
parola possa ‘proliferare incontrollata’.
Del resto, se è vero che nel Congedo la Simonetti si chiede se ‘l’arte ci
salva’, in Baguette stellari lei stessa ci consegna una bellissima
immagine che va oltre l’artificio e l’illusione che a volte la scrittura ci
dona: “forse la poesia potrebbe essere transumanza / per gli umani trafitti dal
gelo”.
Un passaggio che dà calore, nella sua confortante compostezza.
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Recensione |
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