| |
Attenzione: questo è un romanzo profondamente trasgressivo. Almeno quanto possa
esserlo oggi chi non abbia un piercing o – udite, udite! – non si sia fatto
neanche un piccolo tatuaggio su una chiappa. E ciò, per almeno due ordini di
motivi di tipo stilistico che dovrebbero sempre andar correlati: lingua e
architettura; qui talmente al servizio delle esigenze espressive dell’autore da
non lasciare il dubbio che allo scriteriato alunno Giancarlo Micheli sedicenti
insegnanti di scrittura creativa avrebbero schiacciato con foga i polpastrelli
tra schermo e tastiera del pc.
Ma andiamo per gradi. Intanto la lingua. Siamo così abituati, in quanto lettori
di fiction, a un lessico minimo – vogliamo azzardare, 250 vocaboli? E badate che
non è un’approssimazione per difetto – organizzato secondo una sintassi da
scuola elementare, che una prosa appena più variegata e complessa ci sembra
subito barocca. E, come tale, a rischio di essere bollata come inutilmente
artificiosa. Il che è come se dicessimo di amare la pittura ma che ne
apprezziamo, per dire, soltanto le nature morte a pastelli; o che ci appassiona
la musica ma solo quella espressa in 4/4. Ebbene, non esitiamo a dire – se non
temendo di non giovare alla sua fortuna editoriale – che Micheli ci ha costretti
in più di un caso a sfogliare il vocabolario: d’accordo che non siamo Accademici
della Crusca, ma era da tempo che non ci accadeva più cimentandosi con la
narrativa contemporanea. Nessun esercizio di stile, niente di fine a se stesso:
solo che essendo la vicenda ambientata nei primi anni del ‘900, e per giunta
negli Stati Uniti, il linguaggio – a partire dalle descrizioni d’atmosfera, ai
termini che designano cose che non esistono più, fino ai dialoghi dei
protagonisti espressi nel dialetto lucchese dell’epoca (i protagonisti sono
emigranti) – tende a farsi mimetico, in virtù d’una ricerca meticolosa quanto
donchisciottesca volta a fare del passato un organismo vivente che ha da
rivelarci delle realtà sottaciute. Per dirne una: che l’Occidente nel secolo
scorso, prima di cedere a nefasti regimi totalitari, aveva generato delle idee,
coltivato delle aspirazioni, cullato sogni di crescita tanto materiale che
spirituale: un po’ quello che sta certamente accadendo oggi a tanti individui in
India, in Cina o in Brasile, e di cui quasi nessuno quaggiù si interessa.
Poi, dicevamo, l’architettura. Che sarebbe la struttura di cui si compone un
libro allo scopo di raccontare una vicenda. Non c’è dubbio che un romanzo per
potersi dire compiuto abbia bisogno di un qualche equilibrio tra le sue parti,
ma troppo spesso ciò si traduce in un compitino ben fatto dove l’autore non si
prende alcun rischio. E’ per questo che abbiamo apprezzato quale elemento
straniante l’improvviso irrompere sulla scena del Narratore a pagina 125:
“Mentre riflettevo su quale fosse la maniera più giusta di raccontare di
Catholina Lambert, un pomeriggio d’inverno in cui rientravo a casa in
bicicletta, mi venne da pensare […] E’ sempre impietosa l’opera di raffigurare
un carattere a cui si debbano attribuire tanti difetti quanti non si vorrebbe ne
esistessero […] Per affinare la giusta misura del personaggio decisi di farne
narrare le principali vicissitudini a un secondo”. Insomma Micheli non si lascia
intimidire dalla forma-romanzo: se ha bisogno di iniziare un capitolo con note
di privato intimismo, oppure ricostruendo il quadro dei sommovimenti politici di
un dato momento, o ancora lasciarsi andare in chiusura a un quadro corale, lo
fa: in ossequio a una convinzione interiore che ha la meglio sulle convenienze
delle convenzioni letterarie.
La storia, infine. Che non è affatto secondaria alla trasgressività di cui
parlavamo inizialmente. Perché è una vicenda umana di conquiste sofferte, dove
il miglioramento della propria condizione individuale va di pari passo a una
presa di coscienza collettiva: dunque in pieno contrasto con l’odierno clima di
generale rassegnazione di fronte alla possibilità di imprimere cambiamenti allo
stato presente delle cose. Se solo lo vogliamo, noi possiamo essere come Aurelio
ed Erminia, la giovane coppia della Lucchesia migrante negli Stati Uniti, non
tanto per bisogno economico – godono anzi del relativo benessere che
inizialmente li porta ad aprire un locale – quanto per raccogliere la sfida di
una possibile evoluzione, rispetto alle certezze stagnanti del borgo natio. Lo
fanno forse per appagare un comune senso di inquietudine, ma anche per la
responsabilità che sentono nei confronti della loro piccola bimba. Contornati da
una varia umanità, balorda, ignorante, infida, cinica, ma anche solidale e
capace di inaspettati slanci disinteressati, pagheranno le loro ingenuità,
triboleranno, a volte non capiranno neanche cosa gli succede, fino ad acquisire
un loro posto nel mondo. Se ci interessa averne uno, non occorre andare
oltreoceano – pare suggerirci Micheli – ma guardare il nostro prossimo in fondo
agli occhi.
| |
 |
Recensione |
|