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A Jean Rousset, uno dei maestri dell'École de Genève scomparso pochi anni fa ultranovantenne e che mi è caro ricordare qui anche come amico, si deve questa sintetica affermazione: "entrare in un'opera è cambiare universo" (entrer dans une oeuvre est changer d'univers). Universo – aggiungiamo – immaginario ed espressivo, universo di segni e di sensi, animato da intimo dinamismo, che accompagna, e nel contempo arricchisce di consapevolezza, un itinerario di vita. E della stessa vita, che è appunto totalità e continuo fluire, può tentare di rappresentare, nell'opera e con l'opera, una specie di icona (E. Giachery, Nell'universo di Ungaretti: 'il primo segno', in Gioia dell'interpretare, p. 113).

Caro collega,
come dirLe la mia riconoscenza per l'articolo così 'umano' che Lei ha dedicato a una qualità che riconosce in me? Vuol dire che Lei è umano e sa trovare l'umanità degli altri esseri umani. Devo dire che sono abbastanza irritato del 'metodo' che mi si attribuisce e che non ho mai supposto di averne uno [...] pensavo semplicemente di leggere autori e che il mio modo non sia tanto soggettivo come si pretende [...]. Tanti auguri per la Sua comprensione e buoni auguri dal Suo dev.mo Leo Spitzer. *

[* Si veda: Lettera di Leo Spitzer, ivi, p. 182. Le frasi sono tratte dalla trascrizione di un biglietto di ringraziamento a Giachery (proveniente dalla Hopkins University di Baltimora e datato 23 marzo del 1960; lo stesso anno, in settembre, Leo Spitzer muore a Forte dei Marmi).]

"Un visitatore sprovveduto, penetrato nello studio di Spitzer a Johns Hopkins, caverna scolpita di libri, lo saluta con l'ingenua apostrofe: 'Come va, maestro? Sta lavorando come al solito?'. 'Lavorando?', risponde Spiter, 'no, no, godendo, come al solito, godendo'. Candito in quest'aneddoto superbo, un sibarita di rara qualità fa uno sberleffo, quanto salubre e ricreativo!, agli inappetenti sacerdoti della scienza".

L'aneddoto continiano, citato in exergue, pone, volutamente, la raccolta dei saggi di questo bel volume di Emerico Giachery, sotto il segno di Spitzer e, nel contempo, sotto l'auspicio di un' "ermeneutica letteraria", rinata alla vocazione per le humnae litterae, lontana dall'asetticità sfiorata in anni non troppo lontani [Si veda quanto scrive Giachery nel capitolo intitolato: Omaggio a Leo Spitzer: "Spitzer è appena riapparso nelle nostre librerie con volumi di Saggi di critica stilistica [...]. Per di più, proprio in questi giorni appare una rivista internazionale con cadenza annua intitolata "Ermeneutica letteraria" [...] da questi due fatti vorrei poter trarre presagi positivi [...] da una parte, un maestro del passato riproposto — con l'avallo di Cesare Segre e quello (postumo) di Gianfranco Contini — a selezionati lettori. Dall'altra, una nuova importante rivista tutta protesa a un ringiovanimento della critica, a rigenerare l'autentico etimo di un'humanitas troppo emarginata dai nostri studi [...]". (Ivi, p. 155).]. Si tratta di un libro che, dico subito, si presenta come una sorta di "difesa e illustrazione" della stilistica letteraria, con 1' 'aura' di un autore noto che dell'interpretazione ha fatto una felice misura di scandaglio e che, sin dalle pagine iniziali, si rivolge al lettore ("quel lettore giovane", dice Giachery [Motivo, parola (e altro), ivi, pp. 8-9.] sollecitandolo a rinnovare un esplicito, serio – ma tutt'altro che serioso – 'patto dell'interpretare'. Dico 'rinnovare un patto', nel senso che il lettore di questo libro, via via che la materia di ciascuno degli argomenti (9 in tutto, incentrati su autori come Leopardi, Verga, Ungaretti, Gadda, Machiavelli e, insieme, Spitzer, Contini, i maestri della stilistica...), che compongono il volume, aumenta di consistenza, scopre che la richiesta alla quale non si può sottrarre consiste proprio nel trovarsi coinvolto in una vicenda che non è presentata come trascorsa;bensì come attuale e viva, forte della sua storia e dei suoi principi.

Storia, principi e modalità applicate dell'interpretazione sono dunque parte del `patto' riproposto in queste pagine. E, indubbiamente, che il lettore sia invitato ad entrare in maniera attiva nel ben noto "circolo ermeneutico", potrebbe non costituire sospresa: i maestri dell'interpretazione lo sanno. Il fatto meno usuale è che Giachery inviti qui ad entrare, con leggerezza, anche in uno spazio privato, situato, oltre quello, per così dire, canonico, della collaborazione, all'approssimarsi del senso o alla domanda circa la natura dell'interpretazione. Tale spazio privato concerne un'altra urgenza tutta interiore e personale, quasi autobiografica, che è chiarita sin dall'esordio:

`Chi tocca questo libro tocca un uomo: Who touches this book touches a man'. Troppo risoluta, qui, l'asserzione di Walt Whitman? Vogliamo attenuarla? Ecco: "chi tocca questo libro tocca il senso di una vita". Tocca il senso – è bene precisare – di un lungo cammino di studioso e di docente, che non può certo coincidere con il senso intero di un'esistenza d'uomo, ma ne accoglie essenziali valori: etici, estetici, di amore della ricerca, di amore di vita attraverso la parola. Un senso, in ogni caso, che preme per essere comunicato, trasmesso (a volte anche raccontato, quando entra in una 'storia' che appartiene alla nostra civiltà spirituale). Soprattutto a un lettore giovane: non necessariamente d'anni, anche soltanto d'animo, come lo è chiunque ami la poesia [Ivi, p. 9.].

Questo modo di entrare nel libro partendo dalle battute d'avvio può apparire come una strategia troppo ovvia di render conto di una riflessione critica ricca e feconda, che si accompagna ad an valore così marcatamente esistenziale: ma è così anche il libro dove la sequenza dei saggi più "applicati" (dedicati, cioè, ad autori e a questioni testuali) risultano incorniciati da due scritti, uno iniziale e uno conclusivo; due scritti, in modi diversi, di riflessione teorica. Le parole di Giachery hanno appena evocato l'urgenza, tutta interiore dell'uomo, che il risvolto sistematico della parola `metodo' o `teoria' sembra mettere in crisi. Ma l'interpretazione stilistica ha a che fare proprio con tale dissidio o tale conciliazione. E qui mi sembra predomini la conciliazione; le style c'est l'homme: tutti conoscono questa celebre frase di Buffon (affine ad un'altra frase di Seneca, cara a Spitzer, e ricordata da Giachery: oratio vultus animi) [Omaggio a Leo Spitzer, ivi, p. 156.]. Non pretendo di dare a questa frase il valore onnicomprensivo di chiave di lettura dei lavori raccolti nel libro; tuttavia, il lettore si renderà conto che tale equivalenza, che considero di conciliazione (per poter dire che lo stile è l'uomo occorre sapere che cos'è lo stile, tecnicamente), non risulta mai smentita. Anzi, proprio nel capitolo introduttivo [Motivo e parola (e altro)], che può essere letto anche come un raccourci storico di quella che, negli anni Quaranta, Croce chiamava ancora la "cosiddetta critica stilistica", la definizione di Buffon mi sembra, da un lato, un utile richiamo dell'individuum – nell'accezione crociana, proposta da Giachery, di "tecnica interiore" – e, dall'altro, un'implicita spiegazione alle motivazioni della fase di "declino", delle "meritate fortune" della vicenda novecentesca della stilistica letteraria, nel momento dell'incontro tra stilistica e strutturalismo (in una fase, appunto, di eclissi dell'importanza dell' "etimo personale"). È dunque l'accento posto sull'idea del necessario radicamento dello stile nell'uomo che motiva il ritrovare insieme, compresi in un unico scenario, tutti i nomi aurei (da Htzefeld agli Alonso – Dàmaso, Amado e Martin – passando per Carducci, Croce, De Lollis, Petrini, Parodi, Schiaffini, fino a Terracini, De Robertis, Fubini e oltre: Contini, Peruzzi, Agosti...) antecedenti alla tentazione della scientificità più propria dello strutturalismo linguistico. Tuttavia ci si accorgerà che, per quest'ultima fase, pur riconoscendo, insieme a Segre, il "disagio dei letterati di ridurre a formule di matematica rigidità la fragile sostanza d'una lettura di poesia", Giachery si colloca tra coloro che valutano (come Avalle e lo stesso Segre) l'abbraccio con la linguistica strutturale (jakobsoniana, per intendersi) in senso non propriamente antagonista:

La convergenza viva e dialettica tra linguistica e critica, terreno d'elezione per la stilistica, appare dunque uno dei punti ed eventi chiave dell'umanesimo letterario del Novecento, in quella `storia del rinnovamento della critica, che costituisce uno dei fatti culturali più importanti del secolo passato', secondo la testimonianza di Segre. In un particolare territorio della cultura letteraria è maturato il `passaggio da una critica sintetica, a volta persino apodittica, a una critica analitica, fondata su rilievi testuali precisi, raggruppabili in serie [...] [Motivo, parola (e altro), ivi, p. 21.].

Il lettore non dovrà pensare che, in questo profilo della stilistica novecentesca, l'autore si limiti, con la sua usuale competenza e levità di scrittura, a portare alla ribalta gli aspetti assodati dell'avvicendamento di nomi e pratiche dell'interpretazione stilistica dal pre- al postrutturalismo: il suo quadro storico, in realtà, muove e riattiva quasi una "passione spenta", una pratica interprètativa che ha il merito di toccare aspetti tutti più o meno connessi all'esigenza di una rinnovata humanitas, che rischia (o ha rischiato) l'oblio. Per questo Giachery invita a guardare alla vicenda della stilistica novecentesca da storico, come a distanza, e riesce a vedere anche nelle premesse jakobsoniane, sulle teorie del linguaggio poetico, il vantaggio di un reciproco aiuto tra critica e linguistica, senza tradire l'un- per l'altra (l'una e l'altra) rimanendo, nella pratica interpretativa, fedeli alle prerogative tecniche, verbali ma anche di "forma interiore". Indubbiamente, però, Giachery, che non si richiama a Jakobson, quanto piuttosto alla fonte spitzeriana del Motiv und Wort ("motivo e parola") Motiv und Werk ("motivo ed opera") [Ivi, p. 22.], non sta solo ritornando sui passi del vaglio nell'interpretazione stilistica, principalmente affidato alla parola e al motivo, sta anche illustrando la propria via interpretativa: quella, appunto, che si vedrà applicata con maestria nei capitoli del libro (un esempio veloce lo si può vedere nel rilievo delle `parole-motivo' quali: "deserto-natura" o "godimento-rimorso", "pudore-tenerezza", rese attive nell'interpretazione dell'universo poetico ungarettiano) [Nell'universo di Ungaretti: 'il primo segno' (ivi, p. 113-115 e segg.)., inoltre: Ancora Ungaretti: peso e leggerezza (ivi, pp. 121-135).]. Ecco una ragione in più per considerare queste pagine come un avvio della verifica di un `metodo' sui generis – o meglio: "indirizzo", "apertura", come scriverà oltre, nella scia di Spitzer e Heidegger – e alla modalità di esecuzione dell"`explication de textes" nella propria stilistica letteraria [Si veda: Omaggio a Leo Spitzer, cit., ivi, p. 156.]. In breve, in che cosa consiste la peculiarità dell'interpretazione stilistica secondo Giachery? Innanzi tutto, è ovvio, nel ribadire le ragioni verbali, mai separate dal vissuto, dall'esperienza interiore di chi si esprime (e di chi interpreta). Non a caso, nell'offrire uno specimen interpretativo, applicato al rilievo dell'importanza dell'uso della negazione di alcune terzine dantesche (nel canto XIII dell'Inferno: "Non era ancor di là Nesso arrivato | quando noi ci mettemmo per un bosco | che da nessun sentiero era segnato [...]  | Non fronda verde ma di color fosco; | non rami schietti, ma nodosi e 'rivolti; | non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco [...]"), Giachery concluderà le sue osservazioni riconoscendo a Dante la prerogativa di un "uomo di linguaggio per antonomasia" e definendo Virgilio "sommo maestro della parola" [Motivo, parola (e altro), ivi, pp. 28-29. (A proposito dell'accento sull'importanza della negazione in Dante, mi permetto di fare un riferimento personale: il mio mémoire di Maitrise d'italien, discusso nel 1967 a Grenoble, aveva come titolo La forme négative dans la Divine Comédie!).]. Ma qui voglio sottolineare l'interesse per il modo con cui è spiegato il passaggio da "parola" a "motivo": la "parola" infatti risulta intrecciata da Giachery con il termine "motivo", che è, per altro, giustamente ricollocato nel terreno d'origine musicale (Wagner, Bach, Mozart...) ma di cui viene indicata, diversamente dal tema, la natura testuale, intrinseca, fatta verbo (e poi nota ricorrente).

Scrive Giachery:

Il tema è un elemento ancora estrinseco che si offre alla scrittore e all'artista [...]. Il motivo è il tema quando si è per così dire, interiorizzato, immedesimato nell'esperienza viva, ed è divenuuto attivo. Attivo — insisterei in questa circostanza — specialmente sul piano del linguaggio; e proprio questo è il punto dove si attua il rapporto tra motivo e parola, dove il motivo s'incarna in realtà formale, in `significante'. [Ivi, p. 22.]

Il lettore ritroverà, in queste pagine, termini e definizioni che, in tempi di "eutanasia della critica" e di "ingrati maestri" (è Giachery che ricorda sia il libro di Lavagetto che quello di Onofri), di postrutturalismo, postcolonialismo, neo-storicismo..., si sono come appannati. Certi nomi (persino quello di Lacan), certe pratiche e, soprattutto, certi termini, quali "significante" ("autonomia del significante") sono pressoché scomparsi dalla circolazione. Questo libro che rimette in circolazione termini e temi quasi tabù induce a respirare un'aria da anni Settanta, ma non malata, bensì salutare e come rigenerata.

Devo dire che, personalmente, e credo di essere insieme ai più, di questo libro apprezzo proprio l'esplicita confessione – alcuni diranno, a torto, fuori tempo – di una mai abbandonata "gioia dell'interpretare", intesa, per altro, come mirabile leggerezza di parola e effettivamente comprovata dalla pratica sui testi [Ivi, pp. 57-72.]. Ecco il "filo conduttore", che si ritrova lettura dopo lettura, a partire dalle Convergenze su Aspasia" fino agli ultimi contributi dedicati a Gadda (Gadda: 'pastiche', pasticcio pasticciaccio; Tra Gadda e Machiavelli: un'ipotesi, quasi un `ghiribizzo') [Rispettivamente, pp. 57-72; pp. 137-154 (vorrei ricordare i titoli intermedi : Verga: il periodo lungo, Il capitolo finale dei 'Malavoglia', Nell'universo di Ungaretti: il primo segno, Ancora Ungaretti: peso e leggerezza).]. Naturalmente, non potrei qui render conto di ognuna di queste letture. Posso dire, però, che il lettore avrà modo di verificare come, ogni volta, Giachery mantenga la sua promessa di porre al "centro dell'attenzione il testo", partendo, talvolta, da un indizio lessicale (è il caso del termine pastiche nella lettura gaddiana) senza pretendere una parola ultima e senza accantonare la parola d'altri, degli "studiosi", dice Giachery, che sull'argomento "con interessi linguistici e stilistici hanno lavorato con approcci diversi e convergenti, o complementari" [Questo è detto, tenendo conto delle numerose letture – compresa quella di Peruzzi – del testo leopardiano nel corso degli anni Settanta. Si veda: Convergenze su 'Aspasia', ivi, p.57.]. Collocare "il testo al centro dell'attenzione", senza però isolarlo, usando la costanza e la pazienza di analizzare le interpretazioni altrui. L` "episodio" da interpretare, che può consistere in una parola (in Gadda), in uno stilema (nei versi di Ungaretti, nella prosa verghiana) in un prestito (il "sordo", il "ghiribizzo" lessicale, che accomuna Gadda e Machiavelli) in un brano, come nel caso dei versi di Aspasia che sta leggendo, è veramente "circoscritto" ma l'itinerario, che l'interprete mette in atto, non lo è. E non può esserlo, visto che ogni dettaglio, spitzerianamente, funziona come un filo conduttore, coinvolgendo l'opera tutta e gli antecedenti interpretativi e critici. Solo dopo questo largo processo (il "circolo ermeneutico"!) il patto dell'interprete viene considerato come onorato. L'interpretazione parte dal testo, inteso come depositario di un senso costituito da un'esperienza umana e da un fatto espressivo; il passo successivo consiste nell"`entrare nel mare aperto del dialogo critico", come egli avverte, sempre attento come è a dare consapevole misura dell'interpretazione e a indicarne i confini:

Mostrare in azione lo strumento analitico, lasciando intravedere aspetti della sua polivalenza, apporti e risultati concreti, ragioni della sua non facilmente sostituibile efficacia interpretativa. Offrire, anche, il compendioso spaccato di un'esperienza d'umanesimo dialogico: dialogo di studiosi col testo, dialogo tra testo e testo, dialogo tra studioso e studioso. In questo allettante tessuto dialogico occorreva inserirsi in modo discreto, anche se non neutrale, anche senza rinunciare, al momento opportuno, a sceverare, integrare, suggerire, sviluppare. E quanto ho tentato di fare, con rispetto e gratitudine. [Ivi, p. 71.]

Ecco ribadita la ricchezza e l'umanesimo della "cosiddetta critica stilistica". Qui mi sembra però utile anche sottolineare il gesto di modestia dell'interprete esperto nel mettersi al seguito di altri lettori (quale distanza da chi dichiara di non leggere la critica per evitare influenze!) avvalorando l'importanza del dialogo con la ricezione antecedente e coeva. Certo gli interlocutori non sono indifferenziati: ogni volta sono convocati i pareri dei cosiddetti "specialisti", considerati, ad ogni scandaglio, come i veri "apripista" del dialogo. Dire che fra tutti svetta l'esempio di Spitzer è riconoscimento facile. Giachery pone sotto il segno di Spitzer anche la funzione di quel "periodo lungo", visto nello stile verghiano e interpretato come impronta di una "tecnica espressiva", caratterizzata dalla "persistenza e varietà di funzioni di una struttura sintattico-melodica". Questa è la "spia" che guida l'interpretazione dell'universo primitivo di Jeli il pastore, dietro il percorso del "lento snodarsi di una coscienza da un mondo di immediata naturalità" [Verga: il periodo lungo, pp. 75, 81. (Spitzer è ricordato nel lungo pezzo introduttivo — pp. 73-74 e nella nota finale della bella interpretazione dello scritto successivo: Il Capitolo finale dei Malavoglia, a p. 91 e 109).]. Ma l'ombra di Spitzer, mai ignorata appare, per così dire, materializzata nel lungo Omaggio a Spitzer. Attraverso l` "evocazione" di colui che Giachery definisce come "personaggio simbolo", è tutta la stilistica ad essere convocata a testimoniare sul Maestro:

Mi è caro che concluda il libro proprio l'evocazione di Spitzer, che rappresenta ormai per me più il personaggio simbolo di una particolare consuetudine di praticare l'incontro con i testi che non una guida di metodo, dato che il cosiddetto metodo (lo stesso Spitzer più volta negò di averne uno) rinasce a ogni nuovo incontro con testi diversi. Meglio che metodo, in questo caso, potrei dire indirizzo, o apertura, con un bel vocabolo caro (con ragione) a Heidegger. [Omaggio a Leo Spitzer, cit., ivi, p. 155-156. Scritto in occasione del trentennale della scomparsa di Spitzer, nel 1990, dunque.]

Questa riflessione preliminare, delle pagine dedicate a Spitzer, conferma l'importanza attribuita al solco tracciato dall'opera e dalla lezione del grande Maestro (concretamente, viene evocato l'episodio delle due lezioni spitzeriane, svolte presso la Facoltà di Lettere, a Roma, in presenza di Pasolini e di Angela Bianchini) [Angela Bianchini, che, in più occasioni, ha ricordato l' "indimenticabile maestro, conosciuto a Baltimora" (segnalo almeno il racconto del 1965, Le nostre distanze) – in una conversazione privata mi dà conferma dell'episodio.] e conferma anche la convergenza sui punti fermi che, nella pratica interpretativa, valgono anche per chi scrive, vale a dire il fatto di considerare come unica praticabile una "critica ed ermeneutica comunicativa, "umana", rispettosa dei testi e di ciò che essi stessi dalla loro alterità [...] vogliono dirci" [Omaggio a Leo Spitzer, ivi, p. 155.]. Nella scia della suggestione, del ricordo personale tutto partecipato, e delle manifestazioni di riconoscimento degli altri studiosi (Contini, Roncaglia, Schiaffini, Terracini, Scarpati, Wellek, Starobinski, Peyre ...) questo scritto conclusivo è una sorta di coup d'envoi finale che conferma gli aspetti fondanti della Stilcritik incarnata nell'esempio spitzeriano: da un lato l'idea di un "metodo non metodo"; dall'altro, come conseguenza, il fatto che la teoria non sia stata una prerogativa troppo seguita dal maestro svizzero. Entrambi gli aspetti, che, per altro, potrebbero valere per Auerbach o per lo stesso Contini, ricordano anche come il terreno d'elezione di chi interpreta (proprio come per i traduttori) sia soprattutto quello di una vocazione comandata dalla parola, dal testo. E rileggendo quest'Omaggio si capisce bene quale sia l'origine della gioia spitzeriana dell'interpretare:

Le discussioni sul metodo spitzeriano, che hanno imperversato e certo non sono cessate con la scomparsa del maestro, risultano sfocate e fuori centro se non tengono conto dell'amor vitae, della calda e non di rado ingenua umanità che vi circola dentro. Un metodo astrattamente considerato, al di fuori della sua immediata motivazione umana, e quasi dell'intonazione della voce dell'autore, se è impensabile per altri studiosi, è impensabile per un temperamento come quello di Spitzer. [Ivi, p. 157.]

Il rilievo implicito è forse riferito all'astrattezza metodologica rimproverata all'analisi semio-strutturale. Ma qui non è la polemica che vale (anche se è menzionato l'accenno garbato a certi distinguo di Devoto), bensì la puntuale e, direi, devota rilettura delle tappe del "testamento spirituale" del Maestro e, soprattutto, il fatto di mettere così in primo piano il radicamento del volto umano nell'interpretazione spitzeriana. Da qui emerge che il testamento è la sua opera, dove la brillante competenza filologica ed ermeneutica non appare mai scissa dalla saggezza dell'uomo, dalla sua "disposizione all'amore della vita" e persino dalla sua consapevolezza di comprendere, tra i suoi compiti di studioso, anche quello di illuminare, attraverso le sue interpretazioni, lo "spirito europeo". Risalire dal senso della parola a quello della civiltà e dell'umanità: è tutto l'uomo, l'orizzonte che dà la misura del lascito della lezione spitzeriana.

Ma tornando a Giachery interprete, vorrei terminare nel ricordare come nella sua stessa idea e pratica dell'interpretazione si ritrovi un identico interlocutore: l'uomo, cercato dietro il senso, la `parola' e i `motivi' delle sue letture. "Trovare l'umanità degli altri esseri umani" è la qualità attribuita a Giachery dallo stesso Spitzer, nel manifestare la sua gratitudine per l'articolo a lui dedicato. E facile dire che questa qualità è davvero un filo conduttore delle sue letture e in particolare in questo libro, che "tocca il senso di un lungo cammino di studioso e di docente". E, infine, l'umanità saputa trovare è ovviamente soprattutto quella cercata, come qui, nelle ultime battute della sua interpretazione verghiana, che vorrei citare, per concludere:

Che Verga e Pirandello siano profondamente (starei per dire ontologicamente), oltreché per contesto storico, diversi, è così evidente e palese che sarebbe assurdo spendere parole per ribadirlo. Entrambi però – unico intento di questa Postilla è rammentarlo – cercarono nell'arte letteraria uno strumento capace di cogliere l'autenticità di un volto umano dietro l'apparenza o dietro le coatte e riduttive maschere che gli altri, abusivamente, e banalmente, e spesso spietatamente, impongono al volto. [Il capitolo finale dei Malavoglia, ivi, p. 109.]

Recensione
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