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Confortatemi con il tè© 2007 by Katia Brentani
«Ha un’altra». Livia appoggiò il piatto sul lavabo, mentre cercava di avvicinare la cornetta del telefono all’orecchio. Il guanto produsse l’effetto saponetta e riuscì, con una manovra stranamente agile per i suoi standard, ad afferrare la cornetta prima che si schiantasse al suolo. Chissà perché tutti telefonavano quando lavava i piatti. Livia rifletté sul fatto di essere l’ultimo reperto preistorico che amava lavare i piatti a mano, lo scorrere dell’acqua, le bolle di sapone la rilassavano e le permettevano di ripensare alla giornata appena trascorsa. Anche se trovava più divertente lavare i piatti in compagnia: qualcuno componeva pile improbabili di piatti sporchi, altri fingevano di offrirsi volontari per lavarli e i bambini e le nonne asciugavano, mentre il clima che si creava attorno facilitava confessioni e pettegolezzi. Un antico rito pagano molto coinvolgente. Non si può ottenere la stessa intimità con una lavastoviglie. «Livia ci sei?». La voce di Lavinia era irritata. Lei era fatta così, quando telefonava non si presentava mai. Che ci voleva a dire: “Ciao, sono Lavinia come butta?”. Invece ti obbligava, come nei quiz, a cercare la risposta giusta: è Lavinia, che essendo americana ha quell’inflessione particolare nella voce, o Doriana con il raffreddore? Ma Lavinia non si poneva questo dilemma, lei amava essere al centro dell’attenzione e i problemi erano solo i suoi. «Cosa ha fatto Gustavo questa volta?» domandò Livia rassegnata. Forse la sua voce aveva un tono un po’ canzonatorio perché Lavinia si mise subito sulla difensiva. «Lo so che tu nutri un debole per Gustavo» s’inalberò «ma sono io quella che lo ha sposato e sono io che devo difendermi dalle donne che tentano di portarmelo via». Livia bofonchiò una frase senza senso, mentre Lavinia, che non l’ascoltava, ma la stava usando come psicologo a gettone, iniziava a raccontarle della studentessa che telefonava a ogni ora e chiedeva del prof. Braschi e che poteva essere sua figlia visto che aveva la stessa età di Giuditta. Bla, bla, bla. «Ma sta preparando la tesi con lui?» azzardò Livia, tentando di inserirsi nei suoi lamenti. «Che c’entra?» e continuò a elencarle i motivi per cui sospettava che Gustavo avesse una relazione. Livia cominciò a chiedersi quali traumi infantili potesse aver subito Lavinia per comportarsi così. Conosceva Lavinia da dodici anni, da quando i loro figli, Riccardo e Francesco, avevano iniziato a frequentare la scuola materna e ancora non si capacitava di questa sua insana gelosia. La prima volta che la vide, davanti al portone della scuola materna, aveva pensato che sembrava Sharon Stone e se avessero fatto amicizia non sarebbe stato il caso di presentarla a suo marito Paolo: troppo bella per essere vera. Bionda, occhi azzurri, un fisico perfetto, quello che ogni donna vorrebbe avere e non avrà mai. Gli occhi degli uomini presenti erano solo per lei, sguardi sfrontati, fuggenti, già rapiti da quella sua aria tormentata. Lei sembrava non accorgersi di nulla, troppo presa dai suoi pensieri, ma Livia ancora non conosceva la sua gelosia malata. «Sei fortunata tu che non hai sposato un professore universitario » sospirò al telefono Lavinia prima di salutare, doveva scappare. aveva un appuntamento con una cliente. Livia rimase con la cornetta a mezz’aria. Considerati i risultati che otteneva, il metodo di Lavinia era buono, lei si sfogava e lasciava nei casini gli altri. «Già, io sono quella fortunata» ripeté a voce alta anche se ad ascoltarla non c’era nessuno. “Quella che ha sposato il “manager”, l’uomo valigia che mi permette di lavorare part-time, di essere quasi vedova e di avere un figlio quasi orfano di padre vista la frequenza con cui passa da casa”. «Mamma ci sei?». Francesco sbatté la porta, anche se Livia l’aveva pregato un miliardo di volte di non farlo. «Sono in cucina» urlò «non dovevi rimanere a scuola e mangiare un panino?» s’informò sempre urlando, mentre apriva il frigorifero per accertarsi se era possibile cucinargli qualcosa. Suo marito sosteneva che da quando era nato Francesco il tono di voce di Livia era aumentato progressivamente con la sua età, fino a raggiungere toni da altoparlante. Lei si limitava a elargirgli un sorrisino di compatimento quando se ne usciva con queste simpatiche battute, lui non era a casa con Francesco tutti giorni. La sua amica Federica, dopo anni di urli nelle orecchie insensibili di suo figlio Luca, aveva dovuto operarsi alle corde vocali e purtroppo ora non riusciva più a raggiungere i toni alti di un tempo. Francesco entrò in cucina, afferrò un pezzo di pane, si tolse le scarpe e si piazzò davanti alla televisione, tutto contemporaneamente. «Il professore aveva un impegno» informò la madre laconico, già assorbito dal cartone animato in tivù. Fine della conversazione. La donna riscaldò la pasta al ragù rimuginando su Lavinia. La prima volta che aveva visto Lavinia aveva immaginato una fata, una creatura incantata del bosco, mentre la prima volta che aveva incontrato Gustavo la sensazione era stata: “forse se lo bacio da rospo si trasforma in principe”. E per giorni Livia aveva continuato a chiedersi come poteva una donna splendida come Lavinia stare con un uomo come Gustavo. Fino a quando non li aveva conosciuti davvero. Lavinia era una donna bellissima, ma fragile e affetta da mille fobie, Gustavo un principe racchiuso in un corpo da gobbo di Notre Dame. Gustavo adorava sua moglie, viveva per un suo sorriso e soffriva in silenzio per questa sua mania di persecuzione, Livia era certa che non l’avesse mai tradita. Solo che Lavinia, come la goccia che scava la roccia, anno dopo anno, con le sue assurde scenate di gelosia, stava uccidendo senza accorgersene l’amore che Gustavo provava per lei. Livia aveva cercato mille volte di affrontare quest’argomento con lei, ma se Lavinia discuteva di figli, lavoro, casa, i suoi sentimenti erano off limits, al contrario di Sabrina, un’altra amica, che se non la fermavi, dopo averti descritto con minuzia le mutande del partner del momento, scendeva in dettagli che potevano interessare solo in un sexy shop. Suonarono alla porta, Livia andò ad aprire, perché Francesco quando guardava la televisione era sordo a ogni altro contatto con il mondo, e si trovò davanti Riccardo, il figlio di Lavinia, biondo e occhi azzurri come lei. Giuditta e Riccardo, i figli di Lavinia e Gustavo, avevano preso il fisico della madre, ma l’anima di Gustavo; ragazzi davvero deliziosi. «Ciao, c’è Fra? Volevo chiedergli se viene ai campetti a giocare a basket». Livia lo fece entrare e sapeva già che, tempo cinque minuti, sarebbero usciti, insieme alle sue raccomandazioni di rientrare presto per fare i compiti. Frequentavano tutte e due il liceo scientifico, stessa classe, stessi impegni e voglia latitante. «Beata gioventù» sospirò infilando nel portabiancheria i vestiti, che Francesco aveva buttato sulla sedia, mentre le tornava in mente sua nonna che ripeteva spesso: “Beata gioventù che passa e non torna più!”. Livia si accorse di fare già considerazioni come una persona di ottant’anni pur avendone quarantadue, davvero edificante. Cercò di darsi una mossa invece di piangersi addosso, l’aspettava un pomeriggio di pulizia vetri e stiro. Il telefono squillò di nuovo. «Ciao, sono Sabri vieni a bere un tè, ho un diavolo per capello». «Dovrei stirare» buttò lì Livia, ma la sua voce era poco convincente. «Stiri domani, fra cinque minuti sono sotto casa tua». Si precipitò a indossare un paio di jeans e una maglietta pulita, sapeva che se Sabrina diceva “fra cinque minuti” era davvero così. «Edo mi fa impazzire». Sabrina si era seduta al tavolino centrale del bar e aveva acceso la sigaretta, fregandosene altamente del divieto di fumo, che aveva un diavolo per capello era evidente. I suoi capelli rosso fuoco erano più incandescenti del solito. «Hai cambiato colore?» domandò Livia, versando una bustina di zucchero di canna nel suo tè, l’odore di arancia si diffuse nell’aria. Era un tè aromatico, Livia adorava i tè aromatici e con l’amica Carlotta si divertiva a scovare sempre aromi nuovi. Sabrina bevve un sorso del suo tè deteinato con dolcificante e sbuffò. «Ma hai capito cosa ho detto, Edo mi fa impazzire». «Non mi pare una grossa novità» le fece notare Livia, pensando con simpatia a suo figlio. Era un ragazzino sensibile, che aveva sofferto molto per il divorzio dei genitori e non riusciva ad abituarsi alla nuova vita della madre: amici, viaggi, beauty farm. «Lo iscrivo ai Salesiani, questa volta è sicuro». Dovete sapere che Sabrina minaccia di mandare Edo a scuola ai Salesiani da quando lui aveva circa sei anni e ormai sortisce lo stesso effetto del governo sui cittadini quando promette che prenderà provvedimenti seri per fermare la delinquenza. A Bologna l’Istituto dei Salesiani è una scuola privata gestita da preti, famosa per la sua disciplina. Almeno una volta nella sua vita un genitore ha minacciato i propri figli di spedirli là. Fa parte del folklore cittadino. C’era gente che era uscita dai Salesiani ed erano professionisti seri e rispettabili e altri che l’avevano frequentata diventando atei convinti. «Mi stai ascoltando, Livia?» si spazientì Sabrina, avvolgendola in una nuvola di fumo. Lei annuì, tossendo. «Ho scoperto che fuma spinelli» la sua voce tremava e nonostante ostentasse una perfetta abbronzatura, impallidì. «Certo che anche tu non sei un buon esempio» le fece notare l’amica. «Vuoi dire che ho l’abitudine di andare in giro strafatta?» si offese Sabrina. «No, tu hai una droga naturale che ti mantiene su di giri tutto il giorno, però cara tutto questo fumo non è un buon esempio». Livia tacque, stava davvero diventando una moralista. Restarono in silenzio per un po’, Sabrina stava sicuramente riflettendo sulle parole di Livia, lo faceva sempre dopo averla mandata a quel paese. Livia mordicchiò i pasticcini che avevano portato con il tè. «Sabri, è un’età stupida, lo sai, basta un amico che t’incita a provare...» cercò di tranquillizzarla, ma capì che erano le solite frasi senza senso, mentre pensava che in fondo perché no? Anche suo figlio... Sabrina la guardò dritto negli occhi. «Francesco non lo farebbe mai» affermò, spegnendo la sigaretta nel piattino dove prima c’erano i bignè, era vietato fumare e non c’erano posacenere. Sabrina possedeva questa dote incredibile, molte volte riusciva a seguire il filo dei pensieri dell’amica. O Livia era una donna molto semplice o malgrado fossero tanto diverse esisteva questo strano filo che le univa. «Tu lo conosci, mio figlio non è mai stato come Francesco, Riccardo o i gemelli, Edo è sempre stato Edo quello che combinava guai già a quattro anni. È riuscito a farsi sospendere e ha cambiato cinque scuole in tre anni da quando ha iniziato le superiori». Sabrina sospirò e la sigaretta tremò fra le sue mani. Livia vorrebbe dirle che la colpa non era di Edo, ma sua e di Giuliano, il suo ex marito, che l’avevano usato come merce di scambio nella causa di divorzio, dopo anni di tensione, ma a che servirebbe? «Vuoi che parli con Francesco per capire se sa qualcosa, anche se i ragazzi fra di loro sono molto solidali...». «Ma può essere un’idea» Sabrina guardò l’orologio e si alzò con la velocità dello shuttle quando scompare nello spazio. «Dio, com’è tardi!» aggiustò la maglietta che a malapena le arrivava all’ombelico e lasciò le sue labbra stampate su una guancia dell’amica . «Scusa, ma devo scappare non voglio far aspettare Osvaldo». Mentre la osservava sculettare verso l’uscita e i pochi clienti di sesso maschile si voltavano a guardarla, Livia si chiese pigramente, raccogliendo le briciole del bignè rimaste sul tovagliolo, quanti anni avesse Osvaldo. Sabri era una di quelle donne che aveva fatto della fine del suo matrimonio un affare. Giuliano, il suo ex marito, pur di liberarsi di lei in fretta e rifarsi una famiglia con una giovanissima modella, l’aveva liquidata con la casa e una cifra astronomica lasciandole anche Edo. Dalla nascita del figlio avuto dalla nuova compagna aveva incontrato Edo due o tre volte in un anno. Poi ci chiediamo perché i nostri figli sono pieni di problemi. Livia non tentò un’uscita trionfale dal bar, sapeva che tanto non avrebbe sortito l’effetto di Sabrina.
Francesco era rimasto a dormire da Riccardo, il giorno dopo partivano per la gita, sarebbero stati via una settimana a sciare e Lavinia si era offerta di accompagnarli al pullman, evitandole una levataccia. Livia aveva preso fuori un vecchio album di fotografie di scuola di Francesco, perché nonostante suo figlio riuscisse a esasperarla dopo cinque minuti, aveva già nostalgia del suo cucciolo. Le sembrava di sentire suo marito sogghignare “Chiamalo cucciolo un armadio di un metro e ottanta”. Beh, è noto a tutti che le madri sono sentimentali e si rifiutano di riconoscere la realtà, al contrario delle altre razze animali le mamme umane, e in particolare quelle italiane, si attaccano ai figli come cozze allo scoglio determinando poi rapporti pessimi con le future nuore. Sabrina era l’eccezione che confermava la regola. Sfogliò l’album fermandosi sulla foto scattata in prima elementare: nella fila davanti, tutti vicini, c’erano Francesco, Riccardo ed Edo nella fila dietro Carlo, il figlio della sua amica Tiziana e i gemelli, Saverio e Giovanni, figli di Carlotta. Avevano fatto subito amicizia alla scuola materna, tutti maschi, tutti vivaci e socievoli e quando, per puro caso, si erano ritrovati in prima elementare nella stessa classe era stato naturale frequentarsi fra mamme e piano piano, nel corso degli anni, diventare amiche. Certo ognuna di loro per carattere, hobby, affinità si sentiva più legata a una piuttosto che a un’altra, ma anche adesso, che erano passati tanti anni, e non si vedevano più tutti i giorni come prima al basket, ai giardini pubblici o dal pediatra, continuavano a organizzare “i sabati del tè” una volta al mese, fra sorrisini ironici e sfottò dei loro figli. Sfogliando l’album delle fotografie e riflettendo sul tempo che scorreva così veloce l’ assalì la malinconia. Il telefono squillò e Livia pensò che fosse suo marito Paolo, che lavorando a Milano, preciso come un cronometro svizzero la chiamava tutte le sere alle nove, cene di lavoro o riunioni improvvise permettendo. Prima di rispondere realizzò che era in trasferta in Malesia e con il fuso orario a quell’ora era ancora in cantiere. «Pronto?». La voce di sua madre che l’aggiornava allegramente sui decessi avvenuti in paese negli ultimi giorni, risuonò attraverso la cornetta. Raccontava di persone di cui ricordava a malapena l’esistenza e Livia si chiedeva malignamente se questa abitudine degli anziani di parlare sempre di funerali non fosse un modo per mantenere alto il morale; uno è andato ma io sono qui che tengo botta.
Il giorno dopo era sabato e Livia aveva promesso a Tiziana di accompagnarla in centro in un negozio specializzato per découpage per comprare delle nuove carte. Livia adorava Tiziana, una persona splendida, nonostante sgobbasse tutto il giorno e avesse un marito per cui lavorare era un optional, riusciva a essere ottimista e serena e a occuparsi di mille cose. Il suo aspetto fisico poteva trarre in inganno, piccola, minuta, grandi occhi azzurri e sguardo dolcissimo sembrava la fatina Trilli di Peter Pan e aveva la sua stessa determinazione. Tiziana era puntuale come sempre, si scambiarono un saluto affettuoso sfiorandosi con un rapido bacio sulla guancia. «La caccia è aperta!». Tiziana spinse Livia nel negozio dove altre signore stavano già aggirandosi alla ricerca di novità. Il découpage era una malattia e solo chi veniva colpito in forma grave poteva capirlo, infatti Sabrina le sfotteva continuamente: “Sembrate sartine, ma non vi viene la sclero a ritagliare bambole come quando eravamo piccole?”. “A noi rilassa” ribattevano con susseguo Livia e Tiziana, senza alzare gli occhi dalle immagini che stavano ritagliando. Carlotta lo considerava un innocuo passatempo, troppo presa da yoga e meditazione per seguirle in quella nuova avventura. Lavinia invece era la più artistica e capiva la loro voglia di pasticciare. Pasticciare era la parola che usava più frequentemente ricordando alle amiche che lei era laureata in Storia dell’Arte, mentre Tiziana e Livia avevano conseguito un più comune diploma in ragioneria. «Aspetta che arrivi il tempo delle dichiarazioni dei redditi» sibilava Tiziana ogni volta che Lavinia ricordava i loro pasticci «vedrai come striscia». Livia rigirò fra le mani una deliziosa carta con angioletti indecisa se prenderla. «Paolo è via?» sussurrò Tiziana, chinata accanto a lei, con in mano un tovagliolo di carta con Cenerentola. «Si capisce così tanto?». Livia provò rabbia, era possibile che dopo venti anni di matrimonio sentisse ancora così intensamente la mancanza di suo marito? Erano ormai dieci anni che Paolo, per motivi di lavoro, si era trasferito a Milano durante la settimana e veniva a casa solo nei fine settimana. Senza contare che il suo lavoro lo portava a viaggiava da una parte all’altra del mondo, a riempire e vuotare valigie e lei non si era ancora abituata. «Farò la fine di Penelope» sospirò. «Forse ti conviene trovare un procio per ingannare il tempo » scherzò Tiziana. Livia non riuscì a trattenere una risata. «Consolati ci rimangono più sere per decoupare» aggiunse l’amica, per consolarla.. «Credo che ci serviranno» considerò Livia «se vogliamo avere materiale pronto per il mercatino in parrocchia». «Pensi che melanzane e zucche possono servirci?». «È meglio che prendiamo gli angioletti». Livia si alzò e avvertì male alle ginocchia, forse era giunta l’ora di iscriversi a qualche palestra, era veramente fuori forma. «Io acquisterei anche delle candele, ti ricordi quante ne abbiamo vendute l’anno scorso?» le fece notare Tiziana. Zompettarono per il negozio scegliendo con cura quello che poteva servire. Organizzare il mercatino per la parrocchia le rendeva molto orgogliose e le faceva sentire utili. Inoltre consentiva di raccogliere un gruzzoletto da spedire a suor Viviana in Kenia che per ringraziarle inviava lettere coloratissime scritte dai bambini della missione su cui Livia e Tiziana si commuovevano sempre. La cassiera arrotolò con cura la carta da découpage, infilò con grazia i mazzetti di fiori finti in un sacchetto di carta e batté il tasto del totale con nonchalance. L’importo che apparve procurò a Livia un tuffo al cuore. “Abbiamo esagerato come al solito” sospirò Tiziana. Livia le diede ragione, mentre si affannava a racimolare la cifra necessaria. Nei suoi sogni proibiti esistevano negozi dove regalavano oggetti e carta da découpage. Solo nei suoi sogni proibiti però.
«Ha un’altra» Livia alzò gli occhi dalla tazza di tè fumante per rendere partecipe Carlotta del fatto che era la seconda volta in una settimana che si sentiva ripetere la stessa frase. Il bel volto da madonna di Carlotta era teso e sofferente, gli occhi nocciola tristi e lei capì che non stava affatto scherzando. Del resto Umberto, suo marito, non era Gustavo. Non che Umberto avesse fama di sciupa femmine, adorava i suoi figli e Carlotta, ma aveva bisogno di una “corte” che gli ricordasse continuamente quanto era spumeggiante. In effetti lo era ed era anche socievole, il classico “compagnone” sempre pronto a fare amicizie nuove. «Avrà un po’ di simpatia per qualcuno» azzardò Livia «sai com’è Umberto, se non è al centro dell’attenzione non si diverte». «È vero» ammise Carlotta, infilando dietro l’orecchio una ciocca di capelli castani «ma questa volta sospetto che non sia solo simpatia», Livia si versò un altro po’ di tè alla menta, preparato con il metodo arabo da Carlotta che aveva seguito da poco un corso e mesciava con maestria, dentro l’apposita teiera orientale foglie fresche di menta, zucchero e acqua calda. «Questo tè è delizioso, elogi a profusione a te» aspirò l’aroma intenso e prese tempo. «Ho trovato un colletto di una camicia sporco di rossetto e poi è distratto, la notte, quando non è di turno, si rigira nel letto», Carlotta fissò la fetta di torta al cocco che teneva in mano. «Potrebbe solo trattarsi di abbracci fraterni, anche Sabri mi lascia sempre il suo marchio e Paolo non pensa male» scherzò Livia. «Dai non fare la scema». Carlotta tentò di non ridere, ma Livia capì che era riuscita a stemperare la tensione. La gatta di Carlotta, dopo aver studiato attentamente la situazione, decise di saltarle in grembo. Livia l’accarezzò pigramente, come gatta aveva davvero un nome particolare. Carlotta allungò una mano per accarezzare anche lei la gatta. «Ti ho mai raccontato la storia di codesto animale?» disse, ironica. «Solo un miliardo di volte, ma le persone anziane si ripetono quindi ti ascolto». «La portò a casa Umberto, che non sa resistere a un cucciolo in difficoltà, sia esso umano o no. Una sera uscito dall’ospedale trovò un batuffolo di pelo affamato. Allora Stella aveva appena cinque anni e s’innamorò immediatamente di quel piccolo gattino indifeso e fissandolo amorevole mentre l’asciugava con un panno, sentenziò: “Sembra una pallina pensierosa”. Tutti la guardammo sorpresi per una riflessione così profonda alla sua tenera età, ammettendo che Stella aveva colto nel segno, era davvero una palletta di pelo e aveva uno sguardo assorto». «E da allora è stata sempre Pensosa Pallina». «Sì, prima Pensoso Pallino perché eravamo convinti fosse un maschio poi quando la veterinaria ci ha informato che era femmina l’abbiamo volto al femminile». «Credo sia l’unica Pensosa Pallina di razza felina». Continuarono ad accarezzare la gatta in silenzio. «Forse dovrei procurarmi un gatto anch’io, di sesso maschile, e chiamarlo Uomo Valigia». «Paolo è via?» chiese Carlotta. «Esiste una possibilità che non lo sia?». Livia passò una mano fra i capelli. Le méchés rosse ormai si erano schiarite troppo e aveva anche bisogno di un buon taglio, non si stava prendendo molta cura di se stessa. «Paola è dovuto tornare in Malesia e il suo viaggio non era previsto, forse ha una tresca anche lui, pare che in questo periodo i nostri mariti non si occupino di altro». «Come direbbe Sabrina, tuo marito non può avere una relazione extraconiugale perché non rientra nel suo programma di vita». Livia sorrise. Sabrina si divertiva a prenderla in giro, lo sapeva che Paolo era l’uomo più metodico della terra e amava programmare tutto e lei gli diceva sempre che se avesse potuto programmare anche il suo funerale l’avrebbe fatto. Tante volte aveva immaginato la scena: lei che camminava affranta dietro la bara e lui che sollevava il coperchio e le faceva notare che le persone non erano allineate in maniera ordinata o il colore del cuscino non gli piaceva. Per fortuna gli uomini, anche metodici, sono esseri umani e l’imprevedibile può sempre accadere. Con questo non voleva augurarsi corna in regalo. Guardò Carlotta negli occhi. «Sai che ti dico, ne approfittiamo per andare al cinema a vedere l’ultimo film con Johnny Depp». «Mai decisione fu più saggia» concordò Carlotta «mi cambio il vestito e sono pronta, tanto i ragazzi rimangono fuori a mangiare». Carlotta e Umberto avevano quattro figlio: Massimo di vent’anni, Stella di diciannove e i gemelli, Saverio e Giovanni, stessa età di Francesco, Carlo e Edo. Carlotta era la classica mamma chioccia, si era sposata giovanissima e aveva deciso da subito di rimanere a casa da lavorare per seguire i figli. «Troppo azzardata?» chiese Carlotta facendo la ruota con la gonna etnica. «No, in linea con il tuo stile». Se Sabrina amava i vestiti firmati, Tiziana i jeans, Livia le giacche e Lavinia i golfini di cachemire, Carlotta non sapeva resistere al fascino degli abiti etnici. Carlotta afferrò le chiavi, si attorcigliò uno scialle attorno al collo e prese Livia sottobraccio. «Dai corri che Johnny Depp ci aspetta!».
Lavinia rifinì per l’ennesima volta il contorno attorno alla goccia, ma la mano le tremava. Appoggiò rassegnata la matita, accendendosi una sigaretta. Fuori cadeva una pioggerellina sottile ed era una di quelle giornate che Lucio Battisti aveva descritto così bene in una sua famosa canzone: uggiosa. In tono con il suo umore. Aspirò una boccata di fumo, provando a calmarsi. Il lavoro richiedeva di essere finito al più presto, la collana serviva alla contessa De’ Bianchi per l’inaugurazione della mostra entro il mese e lei doveva ancora consegnare i disegni agli orafi di fiducia. Lavinia si passò una mano fra i capelli, osservando le persone camminare veloci per la strada. Stava rovinando tutto, Gustavo l’avrebbe lasciata, anche lui come gli altri e sarebbe rimasta sola. Di nuovo. Non era colpa di suo marito, l’adorava, viveva per lei, ma della sua gelosia, del suo terrore di perderlo. Le persone che non la conoscevano la catalogavano come una donna fredda, controllata e priva di sentimenti. Forse a dare un’impressione così sbagliata di lei contribuiva anche il suo aspetto algido, lo sforzo che compiva per mantenere il controllo, sempre. Ma la vera Lavinia era una persona fragile, terrorizzata dall’idea di essere abbandonata da chi amava e questo era sicuramente dovuto ai traumi che aveva subito da piccola. Maledì la sua incapacità di confidarsi, non era mai riuscita a parlare con suo marito del suo passato e nemmeno con le sue migliori amiche nonostante tante volte fosse stata tentata di farlo. Quando Gustavo le chiedeva, soprattutto i primi tempi che si frequentavano, della sua famiglia lei si limitava a chiudere in fretta il discorso asserendo che non c’era molto da raccontare, i suoi genitori erano morti e lei era sola al mondo. Gustavo, con il tempo, aveva smesso di fare domande comprendendo che parlare della sua famiglia la metteva a disagio e di cattivo umore. Lei e Gustavo si erano conosciuti a Roma, dove lei, arrivata dall’America, si era stabilita per studiare storia dell’arte. Gustavo insegnava nel suo corso universitario letteratura. Lavinia si era sentita subito attratta da lui, per la prima volta in vita sua un uomo non la spaventava, anzi stare accanto a Gustavo le procurava una serenità mai conosciuta prima e si era quasi fidata di qualcuno, dopo tanto tempo. La vita le aveva insegnato che poteva contare solo su se stessa e questo aveva alzato come un muro fra lei e il resto del mondo e per quanti sforzi avesse fatto nel corso degli anni, malgrado desiderasse lasciarsi guidare completamente da Gustavo, era più forte di lei, in un angolo buio e recondito del suo subconscio una vocina cattiva le ricordava di non fidarsi di nessuno. «Ora rischio di perderlo per sempre» si angosciò. I volti di Giuditta e Riccardo, i suoi splendidi figli, la fissavano dalla fotografia in bella mostra sulla sua scrivania. Riccardo frequentava ancora il liceo, ma Giuditta, dopo il Dams si era iscritta ad Architettura a Firenze e progettava con energia e un pizzico di incoscienza tipica dell’età, il suo futuro. Peccato che venisse a casa soltanto per i weekend e a volte nemmeno per quelli, ma era la sua vita ed era giusto così. Quella sera si sarebbe scusata con Gustavo per la sfuriata del giorno prima. Si sentiva fiduciosa, alla fine Gustavo la perdonava sempre. «Lavinia». Sonia, la sua assistente, fece capolino dalla porta spandendo l’aroma del tè alla fragola in tutto l’ufficio. «Ho immaginato avresti gradito» sorrise, appoggiando la tazza e sbirciando il disegno sul tavolo da lavoro. «Problemi?» chiese, gentile. «Già» ammise Lavinia, spegnendo la sigaretta nel posacenere e afferrando la tazza con tutt’e due le mani, quasi per scaldarsi «ma niente che non si possa risolvere» aggiunse, rassicurante. «Sarà stupendo come sono sempre i tuoi lavori» la rincuorò Sonia, strizzandole l’occhio, prima di uscire. Lavinia fissò il disegno e lentamente il ciondolo prese una forma definitiva nella sua mente. Avrebbe accontentato la contessa De’ Bianchi e sicura si rimise al lavoro. Il lavoro era stato sempre importante per lei, adorava creare dal niente oggetti che ormai erano venduti nelle migliori oreficerie della città. Gli abitanti dei “colli”, le “signore bene” apprezzavano le sue creazioni e lei annoverava ormai fra i suoi clienti le persone più illustri di Bologna. Iniziò di nuovo a tracciare linee, con mano ferma, scacciando dalla mente le parole di una canzoncina che suo padre le cantava da piccola: “principessa, principessa mai sola tu sarai...”.
Sabrina osservò con sguardo critico la sua immagine riflessa nello specchio ritenendosi soddisfatta. I jeans di Armani fasciavano alla perfezione le sue gambe snelle, tre mesi al centro estetico insieme a una dieta dimagrante avevano dato ottimi risultati. Passò un dito sul contorno degli occhi, l’ultimo lifting aveva cancellato rughe di espressione e reso la pelle più luminosa. Il chirurgo che le aveva rifatto labbra e seno assicurava che per parecchio tempo non avrebbe dovuto preoccuparsi di “cedimenti”. Stese il rossetto sulle labbra e con un sorriso soddisfatto si rimirò allo specchio. Osvaldo, l’ultima conquista, aveva la metà dei suoi anni e a volte le sembrava di parlare con Edo, suo figlio, ma il fisico bestiale e la sua dedizione a scodinzolarle attorno come un cagnolino rendeva piacevole portarlo a pranzo. Naturalmente nel ristorante preferito di Giuliano, il suo ex marito, che una volta era il loro ristorante preferito: tovaglie candide, fiori freschi, luci soffuse. Giuliano le aveva giurato di amarla da pazzi e per sempre un miliardo di volte in quel posto. «Bastardo». Adesso era il ristorante preferito di quella troietta ed era a lei che sciorinava le sue false lusinghe. Sabrina con rabbia slacciò un altro bottone della camicia e si avviò decisa alla porta. Spendere tanti soldi per l’operazione le dava almeno la possibilità di fare ammirare i risultati al prossimo. «Sabrina, esce?». Sabrina si voltò, Berenice, la fidata cameriera che più che cameriera faceva parte della famiglia, era ferma sulla soglia di cucina in attesa. Indossava la consueta divisa nera con grembiule bianco che portava da venti anni. Sabrina e Giuliano l’avevano assunta lo stesso giorno del loro matrimonio e nel felice periodo seguito Berenice era stata sua fidata complice nell’organizzare feste e cene. Quando Giuliano era entrato in casa, tre anni prima, informandola, lo stesso giorno in cui avrebbero dovuto festeggiare i venti anni di matrimonio, che la lasciava perché follemente innamorato della troietta Berenice, per fortuna, non era fuggita con lui. «Non avrei potuto sopportare due abbandoni in un giorno». Il commento di Sabrina era un modo un po’ burbero e impacciato di ringraziarla per la sua decisione. A Sabrina faceva sorridere il fatto che Berenice la chiamasse Sabrina e le desse del lei. Tante volte l’aveva supplicata di darle del tu, ma il massimo che aveva ottenuto era questo compromesso fra lei e tu. Berenice adorava Edo, l’aveva visto nascere e accudito molto più di lei, sempre troppo impegnata a seguire Giuliano a feste e cene di lavoro, ed era sempre pronta a giustificarlo. Sabrina sapeva che Edo quando era preoccupato o doveva risolvere qualche problema si rivolgeva a Berenice. Lei era un punto fermo nella vita di suo figlio più della madre. A volte portavano stampati sui visi l’espressione del gatto e la volpe e lei si sentiva molto Pinocchio. «Questa sera ceno fuori e non so a che ora torno» disse Sabrina «avverti Edo che se esce deve rientrare entro le undici, domani deve andare a scuola, anche se per lui questo significa dormire su una sedia invece che a letto». «D’accordo». Dal tono di voce Sabrina capì che Berenice non approvava il suo stile di vita, ma sapeva anche che non le avrebbe mosso alcun rimprovero. Sabrina si era imposta, comunque si concludesse la serata, di tornare sempre a casa a dormire. Potevano essere le due o tre di mattina, ma tornava a dormire nel suo letto, voleva che Edo al risveglio la trovasse in cucina a preparare la colazione. Era l’unico rito della giornata a cui si sottoponeva con gioia e anche l’unica occasione per scambiare due, ma proprio due, parole con suo figlio. A volte confidava ai suoi accompagnatori che si sentiva una Cenerentola a cui era concesso qualche ora di dilazione.
Tiziana aprì la porta, tentando di non far cadere le pizze che teneva nell’altra mano. Appena entrata appoggiò le pizze sul tavolo di cucina e cercò la sua famiglia. Non che la sua casa fosse grande, Sabrina e Lavinia abitavano in villette a due piani e anche Carlotta e Livia possedevano appartamenti grandi il doppio del suo. La sua casa infatti era piccolissima: cucina, due camere e bagno, ma quello si poteva permettere ed era orgogliosa di essere riuscita a comprarla a costo di grossi sacrifici, suoi, almeno non aveva un affitto da pagare e poteva sempre contare su un tetto sulla testa. «Quando avrò solo cipolle da mangiare». Seguì il rumore assordante della musica e trovò Giuseppe, suo marito, e Carlo, suo figlio, impegnati in una partita di calcio alla play station a un volume tale che i concerti di Vasco Rossi allo stadio parevano musica da camera. «Ciao, ma’» urlò Carlo, senza togliere gli occhi dallo schermo. «Tutto bene?» gli fece eco suo marito Giuseppe, muovendo le dita sulla manopola a una tale velocità che le sembrava impossibile non riuscisse a trovare lavoro come tecnico inserimento dati o selezionatore di arance tarocco. Si astenne dal domandare se qualcuno, vedi Carlo, si fosse degnato di fare i compiti e se altri, vedi Giuseppe, fosse uscito a cercare lavoro. Avvertì la stanchezza impossessarsi di ogni fibra del suo corpo. Dopo una giornata infernale, con una riunione interminabile si era ritrovata con un leggero mal di testa. Se si fosse infuriata il mal di testa sarebbe diventato insopportabile. Tornò in cucina valutando che era stata previdente a prendere le pizze da asporto, come al solito Giuseppe non si era degnato di preparare qualcosa da mangiare e nemmeno preoccupato di apparecchiare la tavola. La sommerse per un attimo la rabbia, ma s’impose di non tornare di là e chiedere spiegazioni, Giuseppe si sarebbe, come al solito, giustificato lamentandosi che aveva male ai denti, un inizio di tifo o malaria che però non gli impediva di giocare a play station. “È meglio fare una bella doccia” si consolò infilandosi in bagno. L’acqua calda e cinque minuti dedicati a lei attutirono il mal di testa. Quando tornò in cucina la stanchezza si era attenuata e si sentiva più magnanima. Mancavano due pizze, evidentemente Giuseppe e Carlo non si erano premurati di aspettarla, lasciando i cartoni insieme alle lattine di coca-cola sul tavolo. Si sedette sconsolata mangiucchiando un bordo della pizza ormai fredda interrogandosi sui motivi esistenti per meritarsi un trattamento simile. Andò con la memoria ai primi anni del suo matrimonio, quando Giuseppe lavorava con regolarità e l’aiutava anche nei lavori di casa. Trascorrevano il tempo libero visitando paesini caratteristici nei dintorni di Bologna e sembrava che il mondo fosse perfetto. Poi era nato Carlo e tutto era cambiato. I figli ti obbligano a impostare la vita sulle loro esigenze e anche lei aveva faticato non poco per abituarsi ai nuovi ritmi, ma Giuseppe aveva reagito facendo finta che suo figlio non esistesse. Si era licenziato dalla fabbrica dove lavorava come magazziniere ormai da dieci anni senza dare spiegazioni e da allora aveva cambiato mille lavori, dal pizzaiolo al benzinaio, lavori molto saltuari che potevano durare solo giorni o al massimo qualche mese inframmezzati da anni trascorsi senza lavorare. “Almeno hai il marito casalingo” la consolavano amiche e colleghe, ma la verità era che Giuseppe si disinteressava completamente della loro vita familiare e se Tiziana si infuriava richiamandolo alle proprie responsabilità si limitava a uscire di casa e tornare dopo ore. Per amore di Carlo e quieto vivere aveva imparato a far finta di non vedere anche se questo logorava i suoi nervi. Tiziana, a volte, aveva l’impressione che Giuseppe volesse vendicarsi con lei perché la loro vita aveva preso ritmi diversi. “Non si può continuare così” ripeté Tiziana, mentre s’infilava il pigiama con le paperelle. Carlo qualche giorno prima, parlando con un suo amico al telefono si era augurato di finire presto la scuola per poter fare il disoccupato come suo padre. Tiziana aveva pianto dietro la porta della camera, rendendosi conto che tutti gli sforzi fatti per mantenere unita la famiglia erano stati vani e il suo esempio di madre premurosa e laboriosa non sufficiente. Sabrina, quando le aveva raccontato l’accaduto, come al solito era stata sincera e diretta. «Sai qual è il tuo problema tesoro? Che non vuoi ammettere di avere sbagliato a sposare Giuseppe e ti brucia più questo che tutto il resto» l’aveva guardata negli occhi, soffiando via il fumo della sigaretta «lascialo Tiziana, lascialo, prima lo fai è meglio è non puoi continuare a fingere di non vedere». Tiziana s’infilò sotto le coperte, sentiva Giuseppe e Carlo discutere per qualcosa accaduto durante la partita di calcio sulla play station. “Devo parlare seriamente a Giuseppe” decise, era sempre stata una donna forte e determinata e quella situazione familiare stava corrodendo la sua autostima. Era ora di cambiare.
Carlotta vide Arturo arrivare lungo il sentiero e si accorse, con un po’ di apprensione, che negli ultimi anni il suo passo elastico si era appesantito. Fece un cenno della mano per attirare l’attenzione e lui venne a sedersi di fianco a lei sulla loro panchina. «Ciao, Carlotta» la salutò, appoggiando il bastone di radica «Ornella, la fornaia, è riuscita a convincermi a comprare queste squisite raviole, ma ho bisogno di aiuto». Carlotta infilò la mano nel sacchetto, sentendosi già in colpa, erano anni che si riprometteva di iniziare una dieta. «Inizio lunedì» si ripromise, dando un morso alla raviola con il ripieno di mostarda, una delizia. Arturo fece altrettanto e i suoi baffi si riempirono di zucchero vaniglia. Carlotta aveva conosciuto Arturo quattordici anni prima ai giardini pubblici su quella stessa panchina, che ormai da anni era la loro panchina, quando i gemelli, Saverio e Giovanni, erano piccolissimi. Ricordava ancora la tristezza che l’aveva assalita dopo la loro nascita, non era accaduto con Stella e Massimo, gli altri figli, ma la dottoressa rassicurante l’aveva tranquillizzata. Accadeva spesso che le mamme si sentissero depresse, si chiamava stress post-parto. Il consiglio era stato di non drammatizzare troppo. Facile. Allevare due gemelli era un’impresa ardua e nonostante l’aiuto di Gustavo, quando era presente, e di sua madre, che all’epoca era ancora viva e viveva con loro, si sentiva sempre stanca, brutta e grassa e un milione di altre cose poco piacevoli. Poi aveva conosciuto Arturo. Arturo si era fermato a fare qualche complimento ai gemelli e Carlotta si era ritrovata a confidarsi con quel distinto signore brizzolato senza imbarazzi come non era riuscita a fare con suo marito e sua madre, confessandogli che quando augurava delle maledizioni a persone antipatiche augurava due gemelli. Arturo aveva riso e da quel giorno era nata una bell’amicizia. Arturo sosteneva che Carlotta con la sua simpatia e la sua allegra brigata lo aveva salvato dalla solitudine, Carlotta era certa di essere uscita dalla depressione per merito suo. Il loro appuntamento quotidiano sulla panchina rappresentava un’abitudine e d’inverno si trasferivano, quando pioveva, nevicava o faceva troppo freddo per restare seduti ai giardini, in un bar vicino a bere un tè o un caffè. “Vedi Arturo più di me” scherzava Umberto. “Potrebbe essere mio padre”» ribatteva Carlotta piccata e c’era un fondo di verità nelle sue parole. Carlotta era rimasta orfana di padre a quattro anni e conservava ricordi confusi della figura paterna. Arturo era un “padre” galante, le regalava sempre fiori per il suo compleanno e a volte si divertivano a passare pomeriggi al cinema assorbiti da film impegnati cinesi, francesi sperimentali infervorandosi a commentare trame e scene. Il massimo dell’impegno per Umberto era Vacanze di Natale che lei detestava. Non riusciva a capire come suo marito e i suoi figli riuscissero a ridere fino a scoppiare a quelle battute sceme. «Tutto a posto?». «No, per niente, Umberto ha una relazione». «Sei sicura?». Carlotta guardò i bambini giocare, provando un pizzico di nostalgia. «Diciamo che ho elementi che avvalorano questa ipotesi». Arturo rimase in silenzio un attimo «Umberto ti ama, Carlotta, vi conosco ormai da anni e sono sicuro di non sbagliarmi. L’unica condizione anomala che può aver portato Umberto a ponderare l’eventualità di tradirti è la paura di invecchiare. La crisi dei cinquanta anni». «Invecchiare lo terrorizza?» ironizzò Carlotta. «Non conosco altri modi per fermare lo scorrere del tempo se non la morte e non mi sembra un’alternativa allettante». «Capitò anche a me sai?» Arturo sorrise al ricordo. «Mia moglie fu molto paziente, mi ero invaghito di una ragazza di almeno venti anni più giovane». «Non ci credo». «È vero» confermò Arturo «volevo conferme, sentirmi dire che ero ancora in forma per la mia età narcisistico ma umano non trovi? È la stessa cosa accaduta a te dopo la nascita dei gemelli». «Sì, ma io non sono andata a letto con nessuno per sentirmi Demi Moore». «Forse perché hai incontrato me» le fece notare Arturo «se su questa panchina quel giorno di tanti anni fa si fosse seduto un bel ragazzo premuroso?». Carlotta si fece un serio esame di coscienza. Se un bel ragazzo biondo l’avesse consolata facendola sentire una dea, sarebbe riuscita a resistere? E nel caso il tradimento fosse avvenuto la confessione a Umberto era dovuta? Dilemma amletico come da piccoli quando ti facevi il secondo panino alla nutella all’insaputa della mamma. «Chissà, non è successo...». La voce di Carlotta suonò incerta. Era così stanca dopo la nascita dei gemelli e confusa che poteva anche accadere. «E lui perché non si è confidato con una simpatica infermiera grassa vicina alla pensione» ribatté Carlotta, imbronciata «Perché con ogni probabilità ha incontrato prima la ragazza premurosa» scherzò Arturo. Carlotta gli lanciò un’occhiataccia. In effetti Umberto negli ultimi tempi si guardava sempre allo specchio, studiando con attenzione la calvizie che avanzava e sospirando sull’inizio di pancetta. «Meglio elaborare un piano» la riscosse Arturo. «Tipo cospirazione internazionale?» buttò lì Carlotta. «Qualcosa di molto più semplice» spiegò Arturo, serafico «mio nipote Antonio, il figlio di mia sorella, è laureato in Medicina e sta facendo uno stage nell’ospedale di tuo marito, magari con discrezione può captare informazioni...». «Forse non è una cattiva idea» ammise Carlotta «le relazioni negli ambienti di lavoro sono come il segreto di Pulcinella». «Non solo negli ambienti di lavoro» la corresse Arturo «ma anche sotto i portici, sai che la figlia del parrucchiere è figlia del fruttivendolo?». «Cos’è una sciarada?» Carlotta cercò di trovare un filo logico alla notizia. Sara, figlia dei parrucchieri Nino e Dalida, era invece figlia di Gigi il fruttivendolo? Anche se la bambina aveva solo qualche mese a ben pensarci il taglio degli occhi assomigliava in maniera impressionante a quello del fruttivendolo. Molte persone se n’erano accorte ma supponevano che fosse dovuto al fatto che Dalida vedeva Gigi tutti i giorni da anni aprendo il negozio. «Ma scusa, Nino e Dalila lavorano insieme, come è potuto succedere?» chiese Carlotta, perplessa. «Nino va a casa a fare un riposino dalle tredici alle sedici tutti i giorni e poi Dalida quando arriva Nino lascia il negozio per andare a preparare la cena e lui resta a lavorare fino alle venti» le spiegò Arturo. «Sì. però i fruttivendoli a quell’ora sono chiusi» sentenziò Carlotta ormai catturata dalla tresca «Appunto». Quindi Gigi nella pausa pranzo si richiudeva in negozio con Dalida. La mente umana era diabolica. «E Nino come l’ha presa?». «Non si sa» disse Umberto, mangiando un’altra raviola «è scappato con quel giovane avvocato che arrivava sempre a farsi i capelli quando il negozio stava per chiudere». Carlotta spalancò la bocca dalla sorpresa. «Gesù!» esclamò «e poi si lamentano se qualche volta sbircio le soap opere».
Livia salì sull’autobus strapieno di gente impegnandosi strenuamente nella lotta per non farsi pestare i piedi e infilare gli ombrelli fradici dentro gli stivaletti. Odiava la pioggia, quando pioveva Bologna sembrava un’altra città, abitata da incapaci di fare qualunque cosa: guidare, fare la spesa, pagare le bollette e prendere l’autobus. Forse perché i portici funzionavano come un guscio di protezione riparando dalle intemperie, ai bolognesi non piaceva, come ai gatti, bagnarsi. Realizzò con nostalgia che suo marito Paolo sarebbe tornato dalla Malesia il mercoledì successivo e fino a venerdì sera non rientrava a casa. Per fortuna quel sabato c’era l’incontro con le ragazze, il loro “sabato del tè” mensile, questa volta a casa di Carlotta. Era stata una buona idea istituire quella ricorrenza. Ormai da dodici anni s’incontravano a casa di una di loro a turno, nel pomeriggio, a bere tè e scambiare chiacchiere. Questa idea era venuta a Lavinia e Sabrina quando i ragazzi erano piccoli, come scusa anche per farli giocare insieme e avere intanto del tempo per spettegolare in libertà. Nel corso degli anni questa abitudine si era trasformata in un rito. Ormai non riuscivano a vedersi tutti i giorni come prima, quando chiacchieravano davanti al cancello della scuola aspettando i figli, ed era piacevole ritrovarsi, con novità da raccontare e ogni scusa era buona per farsi quattro risate. Qualcuno scese in fretta alla fermata, piantandole un gomito nelle costole e la punta dell’ombrello nelle gambe. Sicuramente si era smagliata la calza, realizzò contrariata, osservando la ragazza, tanto vicina a lei da sentire l’odore di menta del chewingum, che tentava di leggere in mezzo a quella ressa. Sbirciò il titolo del libro: Come sposare un miliardario e vivere felici. Nessuno scriveva libri del genere quando lei era adolescente e il massimo dell’aspirazione era cambiare il mondo o far vedere che le donne potevano essere pari agli uomini e per dimostrarlo le ragazze di allora lavoravano come mule occupandosi anche della casa, mentre loro gli uomini, che sicuramente erano nati più furbi, appoggiavano l’idea della parità che per loro consisteva semplicemente nel farti sgobbare. La ragazza sull’autobus sembrava avesse le idee chiare, ma avrebbe voluto metterla in guardia, Sabrina aveva sposato un miliardario e non era propriamente felice. “Perché chi lo è?” pensò. “Io lo sarei se Paolo fosse a casa più spesso”. Le sembrò di udire la voce sarcastica di Sabrina farle il verso. “Se Paolo fosse a casa tutte le sere si trasformerebbe da eroe da romanzo a un anonimo marito pronto a romperti sulle camicie stirate e le cene pronte”. “Sai Sabri tu non sei il consulente matrimoniale migliore per dare consigli” ribatteva lei non del tutto convinta che avesse torto. Guardò l’ora: quasi le sette e alle otto doveva essere a cena da Lavinia e Gustavo. I ragazzi erano ancora in gita, e stare in compagnia dei suoi amici era quanto di più piacevole le potesse capitare, anche perché Lavinia non ingrassando un etto, cucinava cene pantagrueliche. «Scusate devo scendere» saltellò fuori dall’infernale mezzo, scansando un motorino e due biciclette che, visto che pioveva, si divertivano a fare corse sotto il portico. Odiava la pioggia. Un’ora dopo era a casa di Lavinia e Gustavo. Lavinia, in cucina a montare la panna per le fragole, canticchiava una canzone di Jovanotti. Intonata naturalmente. La cena era al termine e Livia si sentiva un po’ intorpidita dal vino bevuto. «Allora come va?» chiese a Gustavo. «Hai notato come è gentile questa sera?». Gustavo avvertiva la frustrazione crescere dentro di lui. Quella notte Lavinia sarebbe stata ancora più gentile, quando doveva farsi perdonare si trasformava. «Io l’adoro, lo sai, farei qualunque cosa per lei e i ragazzi, ma sta rovinando tutto, queste continue scenate stanno distruggendo il nostro matrimonio». Livia rimase in silenzio. «Lo sai che è nata in America, anche se è in Italia da quando aveva diciotto anni, però io non conosco nulla del suo passato, soltanto che è orfana e se scavo più a fondo si irrigidisce. Non mi permette di aiutarla e non oso proporle di rivolgersi a uno psicologo, sai come la pensa». Livia sorrise, Lavinia e Sabrina scherzavano sempre sui psicologi asserendo che ne conoscevano un paio ed erano i primi ad avere bisogno di aiuto. Probabilmente era una forma infantile di difesa. «A volte ci sono fatti accaduti nella nostra vita che preferiamo non ricordare» azzardò Livia. «Molto spesso parlare di eventi che ci hanno segnato profondamente aiuta» rintuzzò Gustavo «non si confida mai neppure con te, Sabrina, Tiziana o Carlotta?». Livia scosse la testa. «Lo sai, Lavinia parla di tutto, ma mai di lei». Lavinia tornò nella stanza con una ciotola piena di panna. «Non avete ancora preso le fragole? Avanti pigroni!». Livia e Gustavo non si fecero pregare e si servirono abbondantemente.
«Carlotta, sei un mostro!» strillò Sabrina deliziata, sorseggiando il tè bollente, mentre l’odore della menta impregnava la stanza. Quel pomeriggio si trovavano a casa di Carlotta e non mancava nessuna di loro. A volte succedeva che per un impegno imprevisto qualcuno dovesse disdire l’appuntamento, ma accadeva raramente. «Fare un corso di cucina araba è stata davvero una brillante idea» ammise Lavinia, prendendo una grossa fetta di torta al cocco. Carlotta la guardò con una punta di invidia, Lavinia mangiava come uno scaricatore di porto e non ingrassava un etto. «Forse è il fatto che è nata in America». «Allora, quali novità?» chiese Sabrina, impaziente. «Giuseppe ha perso di nuovo il lavoro» mormorò Tiziana, mentre studiava i biscotti al sesamo, alle nocciole e allo zenzero indecisa su quale assaggiare. «Ho detto novità» sbuffò Sabrina «tuo marito perde il lavoro con la stessa velocità con cui Edo cambia scuola». Lavinia le diede una gomitata: «Certo che sei proprio cafona quando vuoi» la rimproverò. «Umberto che ha una relazione è una novità?» s’intromise Carlotta sperando di aver avuto un tono di voce distaccato. «Sarebbe ora» esultò Sabrina versando la bustina di dolcificante «così non sarò l’unica divorziata della truppa». «Vuoi dire che mi dovrò rifare le tette e corrompere i compagni di classe dei gemelli?» buttò lì, ironica, Carlotta. «Ragazze mi sembrate un po’ nervose» si intromise Livia «forse è questa pioggia incessante che cade da giovedì a esacerbare gli animi, ma propongo una tregua». «A proposito Sabri» non riuscì a trattenersi Carlotta con un sorrisino sulle labbra «nel tè arabo lo zucchero è già incluso». «Che ne dite di giocare a bestia?» propose Tiziana che sperava di passare qualche ora tranquilla e non anelava di ascoltare battibecchi. Per quello poteva rimanere a casa e discutere con Giuseppe o Carlo. «Perché no?» risposero in coro le altre. «È vietato sbirciare carte, dire che si gioca poi ritirarsi...» iniziò Sabrina. «Da che pulpito!» alzò gli occhi al cielo Lavinia. Sabrina a bestia era spudorata. Se il bridge e il burraco erano i giochi di carte prediletti nei circoli e nelle case “bene” della città, la “bestia” era il gioco proletario per eccellenza, il poker dei poveri, giocato con le carte piacentine, la posta in gioco non raggiungeva cifre miliardarie e nessuno si buttava dalla finestra perché perdeva a bestia, ma la foga era la stessa e molto, molto più caciarona. Sabrina adorava giocare a bestia, le ricordava le sue origini proletarie, quando i nonni in campagna ammazzavano il maiale e tutti venivano invitati a festeggiare la ricorrenza. Si giocava a bestia fino a notte fonda e anche i bambini godevano di un permesso speciale per rimanere svegli fino a tardi. Dai contadini Sabrina aveva imparato trucchi utilissimi. Sabrina mescolò con cura il mazzo di carte, facendo tintinnare i numerosi braccialetti che portava ai polsi. «Che ne dite di iniziare con una posta di tre euro? » chiese, con lo sguardo famelico della cacciatrice. Tiziana e Livia si scambiarono uno sguardo d’intesa, un po’ pentite di aver proposto la partita, sapevano che per giocare a bestia non era sufficiente conoscere bene il gioco, ma essere sfrontati, incoscienti e un po’ bugiardi tutte doti che Sabrina possedeva in gran quantità. Un’ora dopo uscivano tutte insieme da casa di Carlotta, Sabrina euforica per aver vinto, Lavinia frettolosa perché stava arrivando sua figlia da Firenze e Livia e Tiziana, mogie, mogie. «Quanto hai perso?» chiese Livia a Tiziana. «Trenta euro e tu?». «Cinquanta» rispose Livia «sai quanta carta da découpage avremmo potuto comprare?» «Tanta da tappezzare tutta la camera da letto» rise Tiziana «però è stato divertente, certo che Sabri è diabolica a giocare a bestia» «Già» ammise Livia «che ne dici di accompagnarmi dalla Mariuccia devo comprare un bordo per un lenzuolo». «Da quando cuci bordi per lenzuoli?» si meravigliò Tiziana che conosceva l’incapacità cronica di Livia ad attaccare anche solo un bottone. «Da quando Nino e Dalida hanno chiuso il negozio per ferie » rispose maliziosa Livia. «Allora lo sai anche tu?» rise Tiziana. «Poi dicono che le città sono fredde, che tutti s’interessano solo a se stessi, questo quartiere è peggio di un bar di paese». «Credi che torneranno?» domandò Tiziana saltellando per evitare le pozzanghere. «Spero o ci toccherà procurarci un altro parrucchiere e sai che è un pericolo, non sai mai chi può capitarti e se sei nuovo fanno esperimenti sulla tua testa e rischi di uscire con pettinature spaziali» si preoccupò Livia. «Certo che se ritornano ne avranno da raccontare». |
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