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Il coraggio di cambiare

filari d'uva si stendevano a perdita d'occhio, inframmezzati da campi di grano dorato. L'odore d'el fieno appena tagliato solleticava le narici riportando alla memoria antichi ricordi.

Emanuele Sormani stava ripercorrendo, dopo anni, le strade della sua infanzia. Riconosceva i campi di trifoglio, i contadini con i cappelli di paglia calcati sulle teste rasate, le donne chine a raccogliere fascine.

Quella terra, in un tempo ormai lontano, era stata la sua unica terra. Era lei a dettare il buono e il cattivo tempo. Nel suo ventre piatto, senza sorprese, era racchiusa la sopravvivenza degli abitanti di quella pianura. Allora erano tempi bui, ma quella terra generosa, originata da antiche paludi, era la loro unica certezza.

Certo era motto cambiata dall'ultima volta che lui aveva calcato quel suolo. Le potenti macchine agricole svolgevano ora, in un lasso di tempo molto breve, il lavoro di giorni e giorni dei contadini nel passato, ma era sempre la stessa terra arrendevole, pronta a donare il meglio di sé a chiunque sapesse amarla.

Eppure, quando quella terra era stata "sua", l'aveva odiata con tutta la rabbia che poteva provare un ragazzo troppo povero, con la testa piena di sogni. E l'aveva rinnegata, rincorrendo chimere argentate, senza sapere che poi un giorno sarebbe tomato da lei per tentare di ritrovare la pace perduta. Quel giorno era arrivato.

Emanuele Sormani svoltò per un viottolo non asfaltato, sollevando una nuvola di polvere. Alcune galline schiamazzarono fuggendo via, quando posteggiò nell'aia di un cascinale, e un cane venne subito ad annusargli i pantaloni appena scese dall'auto.

L'uomo che stava attingendo acqua da un pozzo appoggio il secchio, asciugandosi le mani in un grembiule logoro.

«Posso esserle utile?», domandò. osservando la macchina di lusso coperta di polvere.

Probabilmente stava pensando che lui fosse un forestiero che aveva sbagliato strada. Accadeva spesso, da quelle parti; la piattezza della pianura e il dedalo di stradine non asfaltate che si diradavano in ogni direzione rendevano il paesaggio uniforme a occhi non esperti.

Emanuele Sormani sorrise.

«Mi scusi l'intrusione, ma per motivi di lavoro mi trovavo da queste parti e non ho resistito alla tentazione di venire a vedere la casa dove abitavo», spiegò, stringendo la mano al suo interlocutore.

«Lei viveva qui'?», si stupì ]'uomo, indicando il cascinale alle sue spalle.

«Sì, tanto tempo fa, però», affermò Emanuele. «C'era la guerra, allora, e io ero poco più di un ragazzo. Certo non era bello come adesso, vedo che è stato ristrutturato».

L'uomo annuì, abbracciando con lo sguardo il cascinale.

«Quando l'ho acquistato cadeva a pezzi. così l'ho fatto demolire, mantenendo però la struttura di base», spiegò orgoglioso, addentrandosi in particolari del lavoro svolto.

«E in quel cascinale abita ancora qualcuno?». lo interruppe Emanuele, indicando una casa dall'aspetto dimesso, a qualche chilometro di distanza.

L'uomo spostò lo sguardo nella direzione in cui Emanuele guardava con insistenza.

.Vi ha abitato per anni una signora che, però, quando si è sposata si è trasferita nel paese vicino, quello accanto alla ferrovia. Suo marito era originario di là, almeno da quanto ho sentito dire in paese», lo informa l'uomo, abbassando poi il tono di voce. con fare confidenziale. «Pare che poi abbia avuto guai con la giustizia, una brutta storia, bah».

L'uomo fece un gesto vago con la mano.

«La ringrazio per la sua gentilezza e mi perdoni per il tempo chc le ho fatto perdere», si accomiatò Emanuele, come assalito da un'improvvisa fretta.

«Non vuote venire a vedere l'interno della casa?», si sorprese l'uomo.

«Le sono grato, ma devo rientrare in città prima di sera», si scusò Emanuele salendo in auto.

Pochi minuti dopo era di nuovo sulla strada polverosa e guidava in direzione del cascinale di cui aveva chiesto notizie. A mano a mano che si avvicinava era sempre più evidente lo stato di abbandono del cascinale. Emanuele parcheggiò dietro la casa: la porta non esisteva più e le imposte, corrose dal tempo. erano quasi divelte dai cardini. Cauto valicò la soglia, fermandosi al centro della stanza. Polvere e ragnatele ricoprivano ogni angelo della casa e un odore di muffa stagnava nell'aria, a il tetto lasciava intravedere ampi pezzi di cielo. Il camino, in fondo alla stanza principale, era solo un ammasso informe di mattoni anneriti, fra cui i topi si divertivano a nascondersi.

Emanuele rimase immobile nel centro della stanza, mentre i ricordi lo ghermivano catapultandolo indietro net tempo.

1945.

Emanuele correva con quanto fiato aveva nel suo giovane corpo. Quella notte aveva dovuto fare ritorno al cascinale per prelevare cibo e coperte, prima di ritornare sulle montagne dove suo padre e gli altri partigiani lo attendevano, sfiniti dal freddo e dalla fatica di quell'attesa senza fine. Stava recuperando alcune coperte dai letti, dove ormai non dormivano da mesi, quando intravide nel buio della notte il luccichio dei fucili brillare alla luce della luna e risate lontane che gli gelarono il sangue. Una pattuglia di soldati tcdeschi stava rastrellando la zona e certamente avrebhe ispezionato anche il suo cascinale.

Emanuele sapeva cosa l'attendeva se l'avessero fatto prigioniero, aveva assistito troppe volte a scene uguali a quella che stava vivendo. La sua vita valeva anche quella di tante altre persona che attendevano fiduciose il suo ritorno.

Impaurito, si mise a correre per i campi. Sentiva il cuore battergli in gola e martellargli le tempie. Pensava a suo padre, ai suoi compagni e a quell'assurda guerra che gli aveva impedito di essere adolescente, costringendolo a comportarsi da uomo ad appena sedici anni.

La luce che proveniva dalla cascina forò il buio all'improvviso, Emanuele ne fu attratto come una falena che danza attorno a una lanterna. Corse lungo il viottolo, i passi pesanti, bussando con viotenza alla porta. Era la sua ultima speranza trovare rifugio in quella casa, si sentiva spossato senza la forza di continuare quella corsa senza traguardo.

La ragazza che venne ad aprire sembrava un angelo. Doveva avere circa la sua età ma, fatto strano per le donne delta sua terra, aveva lineamenti delicati, una carnagione pallida e meravigliosi occhi azzurri.

«Mi chiamo Emanuele Sormani, tentò di presentarsi spezzettando le parole. La corsa fatta e il terrore che si annidava nei suoi occhi gli facevano tremare la voce.

«Entra», disse la ragazza, scostandosi.

La casa era calda ed accogliente, nonostante fosse arredata soltanto con un tavolo e una vecchia credenza.

«Sono inseguito da una pattuglia di soldati tedeschi; ti prego, nascondimi. Se mi prendono per me è finita, e anche per i compagni che mi aspettano sulle montagne», la supplicò, afferrandole le mani.

La ragazza ebbe solo un attimo di esitazione. Sapeva cosa accadeva alle persone che aiutavano i partigiani, ed era cosciente del fatto che, aiutando quel ragazzo, avrebbe messo a repentaglio anche la sua vita. E sul fatto che quel ragazzo fosse un partigiano non vi erano dubbi: il fucile a tracolla e gli occhi cerchiati di chi non dorme da molte notti non lasciavano incertezze al riguardo.

«Vieni», disse, prendendolo per mano.

Lo condusse in una stanza da letto dove, nascosta sotto una cassapanca, vi era una botola. Senza parlare, Emanuele si lasciò scivolare dentro quel buco nero che per lui rappresentava l'unica possibilità di salvezza.

La ragazza aveva appena terminato di rimettere a posto la cassapanca, che qualcuno bussò con insistenza alla porta. Un attimo dopo Emanuele udì i comandi secchi di un ufficiale e i passi dei soldati che ispezionavano la casa. Udiva anche le minacce che rivolgevano alla ragazza e lei che negava con ferma decisione.

Si chiese dove trovasse la forza di affrontare quei soldati con tanta calma e determinazionc, mentre lui sentiva un sudore freddo coprirgli ii corpo e lacrime di disperazione solcargli le gote.

Aveva paura, una paura dannata e pensava fra sé che, se l'avessero trovato, si sarebbe ucciso. piuttosto che diventare loro prigioniero.

Poi la casa ripiombò nel silenzio e, dopo un tempo che a lui parve infinito, udì i passi leggeri della ragazza, il suo ansimare nello sforzo di spostare la cassapanca e poi di nuovo la luce e con la luce il suo sorriso.

«Puoi uscire. ora, se ne sono andati» disse aiutandolo a salire la scaletta. .Ho preferito far trascorrere qualche ora prima di liberarti per essere certa che non tornassero».

Emanuele l'abbracciò, piangendo sulla sua spalla.

«E tutto finito, stai tranquillo», lo consolò lei guidandolo in cucina, dove l'attendcva una tazza fumante di tè.

«Io mi chiamo Erica», si presentò, sorseggiando la bevanda accanto a lui.

Molto tempo dopo Emanuele, ricordando quella prima notte a casa di Erica. si era dato dello stupido per essersi lasciato sopraffare dalle emozioni. Lui avrebhe dovuto consolare Erica, tranquillizzarla dopo quei momenti da incubo che avevano vissuto, e invece era avvenuto il contrario! Quella straordinaria ragazza aveva una forza che lui non possedeva. Erica lo aveva stretto fra le braccia, accarezzandogli piano i capelli e infondendogli coraggio come avrebhe fatto quella madre che non aveva.

Emanuele si ferimò qualche ora a casa di Erica, prima di ritornare sulle montagne. E furono i momenti pia belli della sua vita.

Erica era orfana dei genitori, uccisi in un bombardamento che aveva distrutto la sua casa: così si era rifugiata nel cascinale di campagna che era stato dei suoi nonni. Per vivere faceva i lavori più disparati: aiutava i contadini nei campi, lavava la biancheria nell'acqua gelida del fiume e in città puliva le case della gente benestante. Erica possedeva già la serena rassegnazione delle donne della sua terra abituate alla fatica, eppure riusciva a mantenere intatta la speranza in un domani migliore, propria della giovinezza. Combatteva anche lei la propria guerra e non era meno dura della sua.

«Vorrei che tutte le persone si amassero e vivessero in pace», ripeteva, ed Emanuele le promise che avrebbe fatto quanto era in suo possesso perché ciò avvenisse.

Emanuele aveva poi imbracciato il fucile e preso to zaino pieno di provviste che Erica gli aveva preparato.

 In quelle ore che aveva trascorso con Erica aveva avvertito spesso il desiderio di baciarla, soprattutto quando le aveva raccontato episodi della sua vita mentre lei sferruzzava ascoltandolo attenta. Ma la limpida tranquillità dei suoi occhi chiari gli aveva impedito di farlo. Infine, vincendo la timidezza, e trovando il coraggio che solo l'incertezza del domani può dare, quel desiclerio tornò prepotente.

«Erica, ti devo la vita», disse abbracciandola.

Lei non si divincolò, appoggiando la testa bionda sulla sua spalla.

«Lo rifarei», mormorò rimanendo fra le sue braccia.

Emanuele le alzò il volto minuto, baciandola sulle labbra morbide.

«Ti voglio bene, Erica, e tornerò...

Lei gli mise una mano sulla bocca per fermare le sue parole.

«Non fare promesse, Emanuele, la vita è come un fiume, noi non sappiamo dove la corrente ci porterà, ma lo devi saperc che anch'io ti voglio bene e non ti climenticherò. Ti prego, non farti ammazzare, la guerra prima o poi finirà».

Emanuele era partito quella notte, protetto dall'oscurità. portandosi dietro il ricordo del calore delle labbra di Erica e del suo sorriso.

 Emanuele Sormani si riscosse, asciugandosi una lacrima di commozione. La botola dove Erica l'aveva nascosto, tanti anni prima, salvandogli la vita, era un buco pieno di ragnatele. Uscì dal cascinale, risalendo in auto. Doveva affrettarsi, se voleva raggiungere il paese vicino, prima di sera.

La prima cosa che notò, entrando in paese, fu che il tempo aveva apportato modifiche molto lievi atiche in quel luogo. Qualche villetta di recente costruzione, un parco pubblico: un supermercato all'angolo delta strada principale.

L'ultima volta che aveva visitato quel paese era stato con suo padre per la fiera agricola. quando la guerra era solo uno spettro da tenere lontano.

Emanuele parcheggiò l'auto davanti al bar-albergo. Le persone sedute ai tavolini si voltarono a guardarlo, mentre entrava. Lui sorrise, pensando che accadeva sempre così, quando uno "straniero" faceva i suo ingresso in paese.

«Buongiorno», lo salutò, il barista, gioviale, «in cosa posso esserle utile?»

«Un caffé doppio e una camera», disse Emanuele avvicinandosi al hanco.

«Il caffé è pronto subito, per la camera dò disposizioni a mia moglie di prepararla».

Emanuele si sedette a un tavolino, il barista gli portò il caffé, sedendosi accanto a lui.

«Sa dirmi dove posso trovare la casa di Erica e Gino Scaletta?», chiese Emanuele, sorseggiando il caffé.

Il barista lo fissò sospettoso. «E' un giornalista a caccia di notizie?'», domandò.

«Sì», mentì Emanuele.

«Come mai il suo giornale si interessa a un fatto accaduto tanti anni fa?», si meravigliò barista.

«Sa come sono i giornali, ogni tanto si divertono a rivangare il passato. In questo caso, poi, essendo passati venti anni proprio in questi giorni, si tratta di una ricostruzione dell'episodio».

Il barista si alzò, iniziando a pulire i tavolini con uno straccio che portava appeso alla cintola dei pantaloni e raccogliendo tazzine sporche.

La casa degli Scaletta è l'ultima in fondo al viale, ma non so se riuscirà a trovare qualcuno in grado di darle notizie su un fatto successo vent'anni fa», disse allontanandosi.

Emanuele finì di bere e raggiunse la propria camera. Il barista, parlando di giornalisti, lo avecva aiutato senza volerlo.

Spacciarsi per cronista era un'ottima idea per avere informazioni.

Quali ancora non sapeva; la matassa che stava dipanando era motto aggrovigliata, non era facile rintracciare una persona dopo tanti anni, ma doveva riuscirci o non avrebbe mai avuto pace.

"Erica. dove sei?" La sua preghiera muta rimase senza risposta. Esausto si lasciò cadere sul letto.

La notte in cui era uscito della casa di Erica, tanti anni prima, non poteva immaginare che non avrebbe più visto il suo sorriso.

Poi la guerra era finita. Emanuele aveva ricordi confusi di quello che era successo dopo l'annuncio che poneva fine alle ostilità. L'euforia che aveva contagiato tutti, i progetti per il futuro, gli abbracci con persone sconosciute e quell'unico pensiero: tornare da Erica. Suo padre, invece, l'aveva trascinato a Roma dove era stato eletto fra i membri di una commissione incaricata per la ricostruzione.

Non erano neppure tornati al cascinale a prendere i loro oggetti personali; suo padre sembrava voler cancellare il passato e tutto quello chc glielo ricordava.

Gli anni erano volati via veloci, la povertà ormai era una parola che non pronunciavano.

Adesso Emanuele poteva frequentare l'università, abitare in un quartiere residenziale e conoscere gente importante. Erica era rimasta nel suo cuore. ma gli eventi incalzanti della sua vita lo sottoponevano a ritmi intensi che gli impedivano quasi di pensare.

Aveva deciso di far parte del mondo della politica e tutti i suoi sforzi erano concentrati in quella direzione: entrare come deputato al Parlamento. Solo alla sera, quando sfinito si abbandonava sul letto incapace di dormire per la troppa stanchezza accumulata durante la giornata, il pensiero di Erica tornava prepotente alla mente.

"Quando sarò deputato la cercherò per dividere con lei la mia vita", si ripeteva per tacitare il rimorso della propria coscienza per aver abbandonato Erica al proprio destino.

Poi, ormai aveva quarant'anni ed era alla vigilia di un'importante campagna elettorale in cui avrebbe raccolto finalmente i frutti di anni di lavoro e sacrifici, "qualcosa" era accaduto. Stava raggiungendo Roma in treno, dopo un comizio tenuto in una città del Nord e, sfogliando distrattamente il giornale, una notizia di cronaca nera aveva attratto la sua attenzione. "Donna uccide marito che la picchiava". L'articolo era corredato da una fotografia che ritraeva la donna durante 1'arresto. In quella donna dal volto stravolto dal dolore e dalla paura e con i vestiti dimessi, Emanuele aveva riconosciuto Erica, la "sua" Erica. Il primo impulso era stato quello di correre da lei. ma poi le conseguenze di un tale gesto l'avevano trattenuto. La sua carriera politica sarebbe finita se il suo nome fosse stato affiancato a quello di un'assassina.

Eppure Emanuele era certo che Erica fosse innocente. Certamente era stata la sua troppa bontà a trascinarla in quel tunnel fatto di violenza e miseria. Nei giorni che erano seguiti a quell'episodio, Emanuele aveva cercato febbrilmente sui giornali notizie sull'evolversi del presunto omicidio.

Non dormiva al pensiero che Erica potesse essere condannata, eppure non trovava il coraggio di abbattere il muro delle convenzioni e correre in suo aiuto.

Poi, finalmente, era comparso un trafiletto a fondo pagina di alcuni quotidiani in cui si rendeva noto che la signora Erica Scaletta era stata prosciolta dall'accusa di omicidio del marito Gino, che veniva descritto come un uomo violento. dedito al bere, che picchiava la moglie senza ragioni apparenti. La causa della morte dell'uomo era stata accidentale: Gino Scaletta era scivolato lungo una rampa di scale, mentre, ubriaco, tentava di aggredire la moglie. Alcuni testimoni si erano decisi a deporre a favore di Erica che, quindi, era stata rimessa in libertà.

Emanuele aveva tratto un sospiro di sollievo anche se, nel profondo dell'anima, non era mai riuscito a cancellare la sensazione vergognosa della consapevolezza di sapere che, in seguito al suo disinteresse, Erica avrebbe potuto trovarsi ancora in carcere.

Questo senso di colpa in seguito gli aveva impedito di cercarla. In più continuava a domandarsi come mai una donna come Erica avesse sposato un tipo come Gino Scaletta.

"Non mi ha aspettato", aveva pensato sentendosi tremendamente ridicolo.

Emanuele si alzò dal letto per chiudere la finestra. le lucciole brillavano nei campi e le cicale cantavano la loro eterna litania. La notte era stellata e l'odore pungente del fieno appena tagliato aveva impregnato la stanza.

"Domani", pensò Emanuele. Forse domani avrebbe rivisto Erica.

Ormai era solo un vecchio in pensione disilluso dalla vita e non temeva più un incontro con Erica. Le avrebbe raccontato ogni cosa, parlando della incapacità di avere coraggio, il "vero" coraggio, quello che può permetterti di mettere a repentaglio ciò che abbiamo di più caro, ed era certo che. lei avrebbe capito e saputo perdonare.

La villetta era l'ultima in fondo al viale, come gli aveva indicato il barista. Emanuele parcheggiò l'auto davanti al piccolo giardino incolto. Spinse piano il cancello aperto e percorse il tratto di strada fino alla porta con la certezza che la casa fosse disabitata.

«Ccrca qualcuno?», chiese un uomo intento a zappare alcune rose nel giardino accanto.

Emanuele smise di suonare il campanello.

«Sì. Erica Scaletta'', disse avvicinandosi alla staccionata. Il volto dell'uomo si rabbuiò.

«Purtroppo Erica non abita più qui», rispose senza interrompere il suo lavoro. «Era la persona più buona chc abbia conosciuto. E lei chi è?»

«Sono un giornalista», mentì ancora una volta Emanuele.

«Sempre a caccia di notizie», borbottò l'uomo, iniziando ad innaffiare le rose. «Quanto ha sofferto Erica per colpa vostra! Non erano bastate tutte le calunnie scritte quando suo marito era morto, continuavate a venire anche dopo per scavare in una vita in cui non c'era proprio nulla da scoprire».

«lo sono qui solo perché faccio questo lavoro e sono ormai trascorsi vent'anni da allora», spiegò, Emanuele gentile. «E vorrei scrivere un articolo in cui sia messa in risalto la vera figura di Erica Scaletta e l'ingiustizia che ha dovuto subire».

«Erica non si lamentava mai. Lavorava notte e giorno per mantenere quel farabutto e pagare i suoi debiti di gioco e lui, per ricompensa, la picchiava».

«Ma perché non l'ha lasciato?», lo interruppe Emanuele, sorpreso.

«Gliel'ho detto, Erica era buona, troppo buona e sapeva che se avesse abbandonato Gino lui sarebbe sprofondato sempre più».

L'uomo smise di raccontare, il ricordo di quei giorni tristi faceva nascere in lui una rabbia sorda.

«Poi Erica è tornata qui?», domandò Emanuele, indicando la casa disabitata.

«Sì, e non sembrava più lei». L'uomo storse la bocca, accendendosi una sigaretta. «L'esperienza di quei giorni terribili l'aveva segnata irrimediabilmente, era invecchiata di colpo e la vita troppo dura e piena di sacrifici che aveva condotto fino a quel momento le aveva minato il fisico. Dopo due mesi, però, era di nuovo per strada a dare da mangiare ai mendicanti o all'ospedale ad assistere i malati e a consolare i bambini'», continuò a raccontare l'uomo. «il suo grande sogno era costruire una casa di riposo per anziani e una per accogliere i bambini abbandonati, con stanzette dalle pareti azzurre e rosa, e con grancli finestre perché entri tanta Iuce. Povera Erica», sospirò.

«E ora dov'è? Potrei incontrarla?» , domando Emanuele.

«Certo, venga, l'accompagno», disse l'altro dopo un attimo di esitazione.

Il cimitero era piccolo, abbarbicato su una collinetta spazzata da un vento caldo ed amico. Entrando Emanuele provò una sensazione di pace ritrovata. Non sembrava un luogo di morte: tutto, attorno a lui, parlava soltanto di pace e serenità.

«Erica è qui», disse l'uomo inclicando una croce di legno con incise la data di nascita e di morte, risalente a tre anni prima, e una fotografia in cui sorrideva una donna dai grandi occhi chiari. La tomba era ricoperta da uno strato d'erba tenera e vi erano mazzolini di fiori di campo nei vasi.

«Chi ha portato questi fiori?»', chiese Emanuele, notando la cura con cui era custodita la tomba. Per quanto ne sapeva lui, Erica non aveva parenti.

«La gente del paese», precisò l'uomo, rigirando il cappello fra le mani. «Tutti amavamo Erica e, ogni volta che qualcuno viene al cimitero, porta un mazzolino di fiori anche sulla sua tomba. Non è nulla in confronto a quello che lei ha fatto per tutti noi. E ora, se vuole scusarmi, io devo tornare al mio lavoro».

La sua voce nascondeva una commozione a stento trattenuta.

«Lei amava Erica, è vero?» domando Emanuele.

«E' vero, la volevo sposare, ma lei non ha mai voluto. Ho sempre avuto la convinzione che portasse nel cuore il ricordo di un uomo che aveva molto amato e che probabilmente era morto in guerra. Diceva che era un ragazzo meraviglioso e che, aiutando gli altri. le sembrava di aiutarc lui».

Emanuele sentì lacrime sgorgare dagli occhi; era lui quel ragazzo, Erica dunque non l'aveva mai dimenticato.

L'uomo fissò senza capire gli occhi di Emanuele che si riempivano dli lacrime e, senza una parola, si allontanò. Emanuele rimase immobile davanti alla tomba di Erica, fissando smarrito la sua fotografia, come a chiederle aiuto. Lui l'aveva tradita mille volte a ora il rimorso per le assurde bugie che aveva raccontato a se stesso per salvare la sua onorata "carriera", gli apparivano come un fardello troppo pesante da portare.

«Cosa devo fare, Erica?'»

Lei, dalla fotografia, sorrideva confortante, come quella notte di tanti anni prima, in cui si erano stretti in un intimo abbraccio. Non lo stava rimproverando, ma solo rammentandogli che esiste sempre un'opportunità per rimediare ai propri errori, basta volerlo.

Emanuele si asciugò le lacrime con il dorso della mano, domandandosi come potesse trovare il coraggio, che era stato di Erica, di cambiare la propria vita. Accarezzò i fiori di campo, trovando conforto negli occhi cli Erica. Ormai aveva preso una decisione: venire ad abitare in quel piccolo paese dove l'odore del fieno impregnava l'aria per realizzare il sogno di lei: costruire una casa con stanzette dipinte in azzurro a rosa e ampie finestre dove la luce sarebbe entrata a illuminare ogni cosa e i bambini senza famiglia avrebbero potuto finalmente avere una casa e affetto, tanto affetto.

Il bene che Erica aveva donato a piene mani tutta la vita non era stato vano e neppure la sua generosa offerta di aiuto a un ragazzo impaurito, quella notte di tanti anni prima. Emanuele ora aveva capito come avrebbe dovuto impiegare gli anni che gli restavano da vivere. Non aveva importanza se qualcuno dei suoi "importanti" amici avrebbe pcnsato a una sua pazzia senile. E se in questa sfida che stava per intraprendere fosse caduto preda di attimi di sconforto, sapeva che gli sarebbe bastato venire su quella collina, a parlare con Erica, per trovare il coraggio di continuare.

Il fiume della sua vita. dopo correnti tumultuose, l'aveva portato finalmente fra le acque di un lago tranquillo, attraverso errori e sofferenze. Un lago dalle acque trasparenti, dove poteva di nuovo unirsi ad Erica, e questa volta per sempre.

«A domani, Erica» la salutò chiudendo il pesante cancello in ferro battuto alle sue spalle.

Sentiva il cuore leggero e carico di promesse e la certezza che Erica l'aveva perdonato.

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