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Da Poesie controcorrente a Ultima
fermata
Il disincanto incantato di Fabio Dainotti
panoramica sugli ultimi due lavori del poeta
salernitano
alla volta di leucade
Per avvicinarci alla poesia di Fabio Dainotti ritengo doveroso un preambolo.
Il nostro è un secolo nato nel segno del relativismo e molte poetiche sono
cresciute nel solco di quell'indirizzo culturale: da quelle paradossalmente
trionfalistiche, con la messa in scena di un Relativo tronfio di sé (di un
assolutismo ossia rovesciato), a quelle che puntano i fari sul Particolare,
sui dettagli, sulle tessere ritagliate nell'immenso mosaico, senza
tuttavia misconoscere il mistero universale. Futurismo da un lato e
Crepuscolarismo dall'altro hanno catalizzato la nascita e la
proliferazione di tutte le avanguardie (vitalistiche ed intimistiche a un
tempo), nell'entusiasmo per quel tutt'uno dell'uomo con le cose, per
quella ritrovata unità dell'uomo con il mondo, che, ribaltando la proterva
separazione antica (tesa al predominio), non è tuttavia riuscita ad evitare
la trappola depressiva del Nulla in cui siamo scivolati.
S'innesta qui la poesia delle piccole cose di Fabio Dainotti, con un
relativismo sui generis che niente ha a che fare con i minimalismi
sorti all'insegna della tracotante certezza del Nulla e del nonsense
della cultura attuale. Un diario, il suo, di vita vissuta e di meditazione
intima, un affresco che dipinge il difficile rapporto fra l'io e il mondo.
Un confronto vivo e incandescente, testimone di una crisi e di un fermento
intimo che non vanno assolutamente confusi con il clima di arido stallo
della cultura postmoderna. "Poesie controcorrente" è non a caso il
titolo di un recente lavoro del poeta salernitano – il penultimo, per
l'esattezza, edito da Biblioteca dei Leoni nel 2020, con prefazione
di Paolo Ruffilli e postfazione di Carlo Di Lieto. Controcorrente
perché? perché la scrittura è immersa in una salsa provocatoria ed ironica
che fa sobbalzare, rivelando sullo sfondo della palude esistenziale un
occhio vigile e attento, di osservatore smaliziato ed impietoso, ironico ed
autoironico, del quotidiano.
Un alterego invisibile, posto fuori dal tempo, ma radicato nel tempo, che è
in fondo la nostra vera natura morale. Un giudice fermo alle leggi
elementari, che non è affatto un alieno ed ama anzi vestirsi di panni umani.
Un consigliere beffardo e sardonico, pronto ad irridere le falsità
dell'umano (disumano). Sono quadretti di vita semplice, testimoni
dell'artificio e dell'inganno che assurdamente amiamo definire vita reale.
Uno sguardo al vetriolo, corrosivo, sui vizi, i difetti, i tic e le
ipocrisie del vivere quotidiano, additando con sorridente mitezza, e quasi
con complicità, le trappole piccolo-borghesi di sempre, con
particolare riguardo ai costumi attuali, dove l'omologazione la fa da
padrona, riducendo la varietà dei ceti ad un'unica, sconfinata classe
sociale, quella borghese appunto. Autenticità contro finzione, e il
perbenismo viene smascherato: «Charlie è francese; ha la erre moscia, /
biondino, il ciuffo avanti; / le ragazze lo guardano, estasiate. / Lui ne
sospinge una alla parete, / la fruga dappertutto, / la ragazza finge di
resistere, / emette gridolini, risatine».
E ancora: «Sulla corriera azzurra, / il ragazzino è biondo, ben vestito: /
indossa un farfallino. / Di fronte a lui sta seduta una donna, / un'aria
vissuta che intriga. / Il ragazzino stringe, tra le sue, / le gambe della
bella sconosciuta. / La donna dorme. Finge? Il sole, / nel tramontare,
incendia la pianura. / Il ragazzetto pensa: "E se si sveglia?" / Così lascia
la presa spaventato. / La luna sorge. Il sole è tramontato». E come è bello,
a contrasto, il richiamo delle cose semplici: «C'è una chiesa laggiù, ci si
arriva / da un vicolo in discesa, che costeggia / un giardino alberato con
le aiuole. / C'è uno zampillo chiaro nel giardino, / che canta una sua
canzoncina, / di sole quattro note, / ma vorresti ascoltarla sempre, sempre.
/ E' l'acqua primordiale della nascita, / che ti culla e t'invita ad
annullarti, / come una macchia, nella nuda terra».
Forse esagero, ma al di là dell'evidente epicureismo, io trovo alcunché di
socratico in questa mordace ironia. Parlo di quel Socrate che irrideva ogni
arrogante certezza, ma possedeva un'incrollabile fede nel daimon, nel
misterioso faro interiore distaccato dal mondo e paradossalmente voglioso di
vivere nel mondo le proprie avventure. L'illuminismo non c'entra,
considerata tale visione duale. L'eloquio poetico di Dainotti è tutt'altro
che perentorio o censorio, ideologico, unidimensionale. E' dialogante,
confidenziale, addirittura scanzonato. Scritto in punta di penna, senza
sbavature, è lieve e velenoso a un tempo, intimistico se vogliamo, mostrando
una sapienza pre-razionale che ama confrontarsi con la dea Ragione. Un
raccontarsi, un rammemorare, un essere presenti a se stessi, che di riflesso
diviene presenza orizzontale nella storia, nella vita sociale. Il disincanto
è totale, addirittura sistematico, ma è un disincanto che non taglia i ponti
con l'incanto, reclamandone la presenza e la vitalità in maniera ossessiva
(per riempire quel "vuoto dentro di me, nel mio cuore malato").
Un realismo sconcertante, fondato sul bifrontismo, sull'odio/amore,
sull'incontro/scontro tra vita interiore ed esteriore. Ed è ciò che affiora
prepotentemente in "Ultima fermata" (La vita felice editore,
2021, con nota di Luigi Fontanella). Qui il contrasto prende forma in un
dialogo ininterrotto tra cruda realtà e mondo ideale. L'ironia è ancora di
casa, come in Damerino azzimato: « E' il più giovane manager del
treno / e crede di piacere alle signore; / perciò si esprime con
affettazione, / si veste con ricercatezza. / Se sapesse il meschino
l'opinione / che hanno tutti di lui, / si getterebbe giù dal finestrino». Ma
perlopiù, in Ultima fermata, l'ironia lascia il posto all'amarezza, a
domande senza risposta, che tuttavia non demordono, restando vigorose
nell'animo, a dispetto di ogni delusione. C'è il dolore per la separazione
da persone care, per lo svanire di speranze amorose: «E tu, fuggita via,
forse per sempre. / Ingiustamente. Forse. Amaramente».
Ed ecco apparire uomini e donne con cui si è vissuto, rapiti nelle pieghe
del tempo, dopo aver conosciuto con loro stagioni indimenticabili: «Non
aveva nessuno; / quella donna attempata soltanto, / che gli donava uno
straccio d'amore, / come un profumo, / e noi. Perciò al funerale (era stato
/ un incidente d'auto, lui guidava / un furgone: il suo ultimo mestiere), /
c'eri tu, fratello, solo, dietro / al feretro, in una inclemente / giornata
di pioggia, su al Nord. / Sì, c'eri tu, fratello mio, fratello / strappato a
me, che non sei più tra noi». C'è sempre qualcosa di irrealizzato, amori
impossibili, promesse strappate.
«Salisti lo scalone / dell'antica magione signorile / (avevi la chiave di
casa / e conoscevi a memoria la strada). / T'avvicinasti svelta al suo
lettone / dove dormiva ancora della grossa. / E lo destasti con un bacio:
"Claudio, senti, ascolta / c'è uno che mi vuole... che vorrebbe / sposarmi".
Lui, allora, si girò dall'altra parte: / "Fa' un po' quello che vuoi!" / Ma
ti rimpianse; per tutta la vita». Memorie, rimpianti, speranze stroncate,
mentre la vita fugge e ti trovi all'ultima fermata con un bagaglio di sogni
nel cassetto da custodire sempre e comunque, ben sapendo che non si
realizzeranno mai. Un'umanità tradita nelle proprie aspettative,
"prigioniera di un carcere mentale / d'uno sgomento che sempre l'assale". Ma
il poeta sa che un pizzico di verità continua a vivere nel fondo di ogni
illusione. Il suo sguardo si posa sulla Natura, quasi a cercare conferme,
sulla vita semplice, elementare, sulla «grande madre che aspetta, / vestale
minuta in gramaglie, / laggiù, nella grande cucina».
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Recensione |
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