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Chi intenda accostarsi alla poesia di
Lucio Zinna non potrà non tener conto del suo appartenere sia per comportamento
conscio-inconscio, sia per l’addensarsi inevitabile dell’origine (essenza
storica) alla cosiddetta “sicilitudine”, ben definita da Giuseppe Zagarrio nel
suo repertorio di recente pubblicazione. Il poeta colloca se stesso o meglio
percepisce intimamente di esistere «nel sesto continente del pianeta | piccolo e
clandestino» (da ‘Frammenti di una lettera’ in Sagana, Il punto, 1978),
indicando in tal modo la Sicilia come isola appartata, luogo della separatezza –
forse inevitabile – ma anche nostalgicamente amata. È da questa insularità
estesa con voce più ampia alla condizione universale dell’uomo immerso
nell’antico conflitto restare-partire che Zinna esprime ed alimenta il suo
lirico sogno, la “sua realtà”, nell’ultima silloge dal titolo volutamente
emblematico Abbandonare Troia.
Sono qui raccolte poesie di quasi un
decennio (‘77-‘86) disposte non cronologicamente ma per argomenti, poesie già
apparse su riviste letterarie quali Cronorama, Lunario Nuovo, Sintesi, ecc.
Dai ricordi d’amore di una giovinezza
lontana alle occasioni di viaggio (Venezia, Milano), alle “lamentazioni” nate
come grido di resistenza al sopravvivere nel degrado dell’oggi, alle “epistole
metriche”, la naturale vena elegiaca del poeta sorretta da un sottile processo
di malinconica introspezione, conduce la scrittura a continui confronti con la
perfezione della natura (in antitesi con la cronaca), adeguando via via la forma
personalissima al contenuto, verso una “lirica totale” che accetta come punto di
partenza il conflitto tra l’io antropomorfo e l’io dei piccoli eventi
quotidiani. Nella poesia non è l’intelletto puro che descrive, ma il blocco
psichico nella sua totalità, e le forme logiche non sono mai pontoni ancorati
nel fiume di Eraclito, ma onde della sua stessa corrente (Machado). Come dunque
l’uomo storico risale faticosamente la china constatando la propria mutazione di
evento in evento nella ricerca delle cause oscure della propria derivazione o
creazione, cosi il poeta di forma in forma procede alla ricerca del profondo
esistenziale, viaggio senza termine, ma certamente necessario e insostituibile.
Si giunge così al viaggio reale, viaggio di ritorno per la precisione, cioè a
quei sessantacinque versi per il treno della Maiella che con il titolo di
Abbandonare Troia concludono la raccolta. Il poeta raggiunge qui la sua più
alta misura espressiva, con versi di rara bellezza e sobria lucidità interiore.
Dal finestrino dello «Espresso Pescara-Napoli via Roccaraso | di laborioso
reperimento nel libro degli orari (...) | semideserto sfila a tratti | un paese
aggrappato a una collina diruto | inerme stanco di difficoltose |
sopravvivenze...» «Filtra lento un senso angoscioso di quiete...» Ed ecco a un
tratto il grido di ribellione, il sogno inattuabile: «Piantare tutto. Allogarsi
da queste parti | con la sacra famiglia nel più remoto villaggio | mettersi in
pensione anzitempo vivere del minimo | prima che entrino falsi cavalli
abbandonare Troia | con semafori zebre ciminiere mitragliette skorpion | e kermess mondane e sindacati autonomi e confederali
| e impossibili scuole
(elefanti di mala educazione | di presunzione e droga) recidere i fili | coi
tossici milieux culturali | di questo molle-agonizzante impero. | Comprimere la
fretta rallentare i gesti | reinventarsi le albe e i tramonti...» Da qui il
pensiero come il viaggio stesso di una vita corre al ricordo della madre, al
ricordo dei figli «...nella casa, lontana – questi figli che ci stiamo |
crescendo a poco a poco in maniera sbagliata | (pronti incapaci di menzogna
aperti agli altri | in un covo di lupi)...» Ed infine «per l’affranta Calabria
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e per lo Stretto – verso Palermo tradita moribonda...»
Ed è proprio qui che il
viaggio avrà termine, in quella Troia dolorosamente contestata e insieme amata,
qui ad attendere “con gli altri” i falsi cavalli che certo non tarderanno a
comparire.
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Recensione |
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