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Lucio Zinna: elementi di navigazione

Nell’ostile bufera della dissonanza, della recita (proibita?), di ciò che potrebbe diventare paura dell’oggettività (e della sommersione), e insieme accostamento ad altro, nel pragma di tutti i calcoli della fuga e delle improvvise flessioni di ritmo, di lingua, di commozioni persino fiabesche, la navigazione di Lucio Zinna esce dalla Menzogna (equina) e dal fuoco che tutto spezza, e corrode nella stessa babele di sconnessioni post-belliche, racconta gli stati di divisione degli eventi, le sospensioni di gesto, il processo all’interno del clamore e del solco degli urti socio-emotivi i brevi arcobaleni e le medesime illusioni del soggetto.

Questo in Abbandonare Troia (luglio, 1986 Forum/Quinta generazione Forlì), su un esteso numero di versi a prescelto (e istintuale) espressionismo, dis/ottimistico, per riavvii totali (ed efficaci) di una collaborazione ispirativa ed episodica stretta ai suoi stessi stupori esistenziali, legittimi ma interlocutori, parlanti; più «marmoreo» che fluente, più fecondo che aforistico. L’idea fondamentale è la istituzione della salvezza (e in esso, l’immaginario coniugato ai contenuti che divengono esigenza tutt’altro che legnosa di raccontare «Troia»; la città di sempre che scotta in qualsiasi quotidiano, in modo razionale e senza perdere di vista la storia (d’ognuno).

La silloge potrebbe essere stata scritta da Enea o da Anchise, da Idomeneo o da Ippolito e Lucio; lo spavento epistemologico non avrebbe mutato alcunché e i concetti disperati (e quieti in fondo) si susseguono nel clima di una qualsiasi analoga esperienza, o di analoga fi-gura del dramma universale; sono riconoscibili la dilatazione dell’ansia, l’autoriflessività, l’immanenza (contemporanea e d’ogni tempo) dei simboli, la curva costa del viaggio, l’infelice onnipresenza del nocchiero.

Nel poema in più strati, la ribellione è un’istanza primaria, l’orizzonte ontologico il modello itinerale che accetta il rischio e la sedizione delle acque, e tutto ciò che si apre dinanzi ai suoi occhi insieme all’anima nascosta, in cui sono perscrutabili causalità di ruoli montaliani. Tutto questo rientra nel quadro di una poesia grave ma non falsamente ideologizzata, algida, o imperativa; i relitti (ulissiaci, perché no?) sono utili alla costruzione di eventi, sigilli, ironie, significati sociologici, allarmi specifici al gioco e allo status quo delle condizioni civili e umane attuali (e di ogni epoca); non esistono passi di danza «innamorata», né valenze speculari fine a se stesse. Ѐ proprio la ricchezza di scrittura che tenta di stanare la labilità, le scaltre esibizioni del perverso in area di impertinenza creativa e di maldestri fomiti da strutture fittizie.

Zinna rifiuta di possedere la metafisica del vuoto e sa garantirsi in più travestimenti culturali, movimenti di denuncia e di pronuncia avventurosa, cambi di voce, catene di sintagmi che potrebbero sfiorare qualcosa di declamatorio ma sono malinconie delle lamentazioni, esempi di tormento, fedeltà alle erranze a iconicità reale.

Indubbiamente il reale ha aperto a Lucio Zinna il diritto alla dialettica, non è poesia che si leva al crepuscolo, o che chiede accessi tecnici per manovrare la sua vorticosa fiction; abita un’elaborazione tesa e drammatica, istaura per se stessa una specie di machina mundi che coinvolge più circostanze nel testo e nel tetro e sfatto cosmo del finito, senza precipizî, né morbide comete: «L’odore grasso violento dell’acetilene per il lume / sulla bancarella del lungomare a rischiarare salati / semi di zucca casalinghi bombons grani di càlia / ottobre-novembre struggenti dopo il tramonto (si sa) / le onde in basso – oltre l’inferriata – percettibili / appena quasi musica tenue alle spalle dell’uomo / dal volto di bestemmia taciuta… ». (Da: Odore di acetilene, pag. 15). «Fontane di queste strade non altro che veloci sequenze / (frammenti appena di classicità residua confusi / tra i pensieri la fretta un suono di clacson qualche / segnaletica icona) nel tapis roulant dell’asfalto. / Quante volte non ti scorsi Fontana del Pescatore / alla prima curva dopo la Rocca salendo a Monreale». (Da: Fontana del Pescatore, pag. 23).

E così in «Estate longobarda», «Ode minima a Palermo pluvia», così come nelle «dediche» e nelle «epistole metriche», in odissee del frammento aggregato, alla cui non interpunzione quasi assoluta si affidano la proposta di provocazione del poeta e il segno lucido dei suoi ricordi, i riferimenti ormai di natura joyciana a luoghi multipli, rivisitati nei termini di continua magia personale, attraverso la ripresentazione letteraria di essi, i cui segni concludono la loro conflittualità appassionata nei «Sessantacinque versi per il treno della Maiella» sulle cui immagini, figure, utilizzazioni di materiali grezzi di realtà, dignità non esaltata di una Penisola, scabra, «Troia» diviene emblema di disobbedienza alle comunicazioni della prassi negativa, agli agguati, alle disattenzioni generali del male pubblico, e senza sia pur perentori ornamenti di stile, in cui il detto non potrebbe essere contraddetto da nessuno, e gli esempi rimandano all’ esperienza del poeta che medita sulle medesime intime motivazioni di amarezza italiana e di tutte «le stanche sorti del mondo» (comprese le rovine di Atene).

Nella stessa prospettiva del discorso (di poesia) in ambiguo, si situa la densità del racconto in versi estesi, mai coordinata in afasiche strofi o in passive sintesi, bensì in magmi effettuali, quasi indistinti, scagliati contro l’insofferenza, la condanna a morte della verità, la metamorfosi della fuga delle trasformazioni, in cui l’astrazione non è possibile e la morale caratterizza la posizione più insulare del dramma. A volte la speranza diviene esercizio e spasimo diaristico, e la nostalgia della fiaba si consuma tra sapienzialità connotante e usura naturalistica, proprie ad una possibile confidenzialità progettata da Orfeo, in cui 1’angoscia è anche cronaca di immolate atmosfere d’abisso, e il viaggio futuro una possibile incognita (purtroppo dopo ogni tragica, sentimentale, e non virtuale deriva).
Recensione
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