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Le vie interne d'una memoria sofferta
Nell’apparente passività di un “lago” lombardo,
l’evocazione di Giorgina Busca Gernetti riscopre una tragica memoria consumata
d’improvviso (e imprevista) in un tempo di guerra: il giovane padre della
poetessa in un’azione aerea perde la vita; lei ancora non – nata, ma poi
coinvolta in un assoluto dolore, che la sua “anima” rende attivo e minaccia una
spontanea e traumatica continuità! La sintesi del disegno permette di pensare a
un’interrogazione da cui è difficile distogliere sia la pena, sia la solitudine
che riavviano l’amara visione, il lacerato e multiplo codice dell’affetto
trafitto, e la stessa architettura del fato imposto alle persone che il padre ha
lasciato davanti alla sua scomparsa. Così, Giorgina Busca Gernetti ricompone la
persistenza acre che attraversa e accerchia la sua psiche e la dignitosa
disperazione. Ed ecco, nel secco silenzio del ricordo e di un’atroce pre –
neonatalità, tutti i momenti e i movimenti anche mentali della sua passione
indimenticabile. Nei versi di un poemetto (in tredici lasse intitolate)
conferisce l’immagine molteplice dello sfacelo familiare e ormai adulto quanto
mai. L’animazione quindi è rivolta ai modelli poetici ai quali l’Autrice è più
votata, in una rievocazione ritualizzante su verso limpido, luci non funeree,
ritmi metafisici a segno religioso, insonni e fantasmatici, anziché a cronaca
necrologica o a codici prestabiliti, scanditi dall’uso comune. In un “lago
grigio, | pallido, livido” || “ ancora un lampo | squarcia violento le nuvole
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e s’inabissa | nell’onde tumide” || “si gonfia minaccioso in onde nere
| e
schiaffeggia le rive” || “scrosci dal cielo nel grigio dell’anima
| che
s’annulla nel lago”.
E, nel continuum della comunicazione
conflittuale, la frequentazione ai riferimenti al lago oscuro, all’anima
oppressa, ritrova campi verticali e vibrazioni assidue di poeticità mai
fiaccata.
La morte è una fissità tutt’altro che utopica, e lo
svolgimento segnaletico affianca una soluzione ad assimilazione cristica, dove
l’evento è un ben decifrabile “crucifige”, sia per l’uomo-padre che ha
ispirato la “ricordanza”, sia per l’anima dolorosa che rinnova la mediazione
postuma, e un ridefinirsi angoscioso di quanto è accaduto nel medesimo frangente
ibrido e fosco: “ed io non sono più viva | sulla terra feconda”! Così, questi
graffi descritti per sensibilità e amore, non si sa quanto abbiano di
interiettivo jacoponico, e quanto della filmografia sulla storia contemporanea,
abituata a raccontare tutto di quello che rilegge della realtà direttamente, per
far spettacolo e rendere vividi gli stessi strappi di esistenza. Qui non ci sono
“anni solari” come accade al prolifico nonagenario fiorentino Giovanni Stefano
Savino, ma insospettabili, ipertrofici e insistiti tormenti, che fanno a meno
della letteratura e delle approssimazioni elegiache quotidiane.
E, intanto, dai versi campeggia, a conti fatti, una protesta contro la guerra
che, insieme all’urlo del tiranno, distrugge – in infiniti disastri – corpi e
risorse di ogni civiltà. La poesia è quindi al centro di ogni temperatura per
regolare le turbolenze epocali e le lotte per la pace. E questo è un
indubitabile senso per dissuadere da tutti i passati e fino al presente, colti
da tentazioni universali che, comunque, non possono insegnare qualsiasi
sopportazione per eliminare la vita di ognuno, fissata pertanto da palpitanti
cicatrici e scaraventata in qualsiasi suolo o tumido lago. | |
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Recensione |
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