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L’occhio sulle circostanze (stati
d’ombra, ali di luce, creste di senso, i sapori del mondo, l’occasione
d’incontro con una civiltà comunque evocata, il germoglio della Natura, la
cronaca dei gesti e dei tragitti individuali, la morfologia dolente di ciò che
vive con noi, e quello che resta delle abitudini e delle scoperte umane e
quotidiane) è l’aspetto cruciale di un’assidua testimonianza poetica solerte
recentissima di Giorgina Busca Gernetti. Con esso costruisce un’idea
contemporanea della visione, un lungo corso di esperienze, emozioni, l’anima del
colore e della sostanza mentale che diviene aureola della sua vita e armoniosa
riflessione della propria solitudine (ma anche tra lune nuove). Ogni atto della
sua esistenza infatti non è mai ignorato dalla psiche, o autodistruttivo, ma
innocente, disegnato contro il malessere. C’è per la sua poetica chiaroscurale,
un richiamo (e a volte un incubo, una responsabilità trascrittiva) per
favoleggiare un momento intimo e assoluto dell’autobiografia, non stucchevole,
spesso idillico e angoscioso. Da esso l’intera testualità poematica si fa diario
e forse, inconsciamente, prepara dal vivo, in essenza sofferta e gioiosa, una
sensibile favola d’ansia, inesplosiva, ma non mite, né patetica o soltanto
emblematica e a rischio astratto-ermetico. I suoni e i colori raccontati sono
animati da una limpidità sostanziale, quasi una vittoria sull’idea di modernità,
interpretata da molti autori come soluzione lacerata e vicenda della
dissipazione del pensiero o sparsa lucidità correttiva della tradizione, da cui
un commento deriva, o da modalità atipiche e inappropriate. L’amore delle cose e
lo strazio privato evocano il male della vita e insieme contemplano le
suggestioni, gli eventi solenni, il coro delle intese con l’inconscio, comunque
trafitto o chiuso nel gorgo della sopravvivenza in varia forma.
In ogni caso, la passione diaristica
di questa Autrice continua con le “parole” una diffusa ricerca di temi e
tormenti attuali, collegati al vissuto, e ovviamente all’intellettualità
classica, dominante la memoria che la rivela per tessiture, tracce di antifone,
dediche minime e allusive, opportunità odisseiche inquiete, ebbrezze, maree
tematiche rinascenti, fiamme e automatiche controfigure del Mito e del presente,
che dovrebbero arginare – in qualche modo – la delusione in bilico sui tempi che
la emettono nella realtà più sterile o sconnessa. Questi turbamenti della
comunicabilità, offrono movimenti irsuti di una musica ininterrotta e forse
eguale a se stessa, dipinta, monoloquiale, tra purezza scritta e coerente
veemenza, percezioni conflittuali e impressioni non avare, anche per solerzie di
passione e di significato. Nel quadro delle contingenze, l’opera si annuncia
isolata e complessa, morbida e volitiva nei codici; cerca di risolvere la
materia dei dettati interrogando l’esistenza che ama, quella che incontra, o la
necessità di essa civilissima, anzi atto primario del fare poetico e concepito
come universo da imporre all’attenzione del lettore d’oggi, frastornato da
innumerevoli casi di linguaggio e di costellazioni verbali, concepite su
fattualità iperbolica, insidiosa, e in appunti frammentati per inventare una
maschera di ozi ameni o transitori, e dei sogni di chi, come Giorgina Busca
Gernetti, hanno un cuore antico.
La disquisizione quindi è, nelle
poesie di Parole d’ombraluce, elemento della vitalità del testo poetico.
Il discorso promuove effetti colti, stazioni del rammarico, effigi compromesse
con la rappresentazione epica del nostro tempo, eppure dedica spazi a un
disporsi solenne dell’io amaro, leggendo gli stessi anni meno lontani, quasi per
analogiche prove di riferimento al passato di anni assai distanti e tramiti di
frequentazione consegnati all’esperienza personale. Questo avviene in
prospettiva della ripetizione della storia, intrecciata alle nuove primavere, e
– in ogni caso – punto di riferimento della ragione poetica assunta, tutto
sommato, verso il nuovo millennio o epoca del dis-dire spietato e violento, non
sempre praticabile. Indubbiamente la società non aspetta il poeta che dica la
verità sulle vicende, ma questo genere di partecipazione è ancora vivido,
esplicitamente determinato e senz’altro esigenza naturale ed estrema, e
piuttosto neo-devota alle mimesi e ai sussurri del tempo, quasi all’aldiqua
diventato guscio d’ombraluce nella più serena inevitabilità novecentesca,
dove Fa più male scoprire | questa quiete ferale, | questa grigia | opaca
indifferenza. (da “Opaca indifferenza”, pag. 148). E da itinerari in
Calabria c’è attiva la descrizione di un regno magnogreco, dopo ogni caos
geologico e fenomenologia (anche dello spirito) mito-storica a sensazione
infinita, suprema, neo-classica, nostalgica ed esemplare. Così come, tra i suoi
forti amori, l’Epicedio per mia madre in cui stride e grida il midollo di
una evocazione, su visualizzazione invisibile e ascolti inaridibili, a
musicalità elegiaca profumata di affetto, prossima allo stesso alveo di
riflessioni commemorative: Baghdàd, Nassiriya, Beslàn,
Shoah, “foibe carsiche”, ed altro privatissimo non omnis moriar.
Questo genere di perlustrazione etica ed epica tout-court, non dovrebbe passare
sotto silenzio, sia per l’incanto salmico sommesso, sia per la nudità
cristallina dalla scrittura illesa, composita, interiormente dosata a un uso che
diventa immediatezza commovente, malinconica e vibrata.
Ma nel nostro tempo non bastano i
piaceri di un augurio per diventare complici di una poesia a respiro
dialettico-silenzioso, molto simile all’operazione di aedi e feticci non
trascurabili e persistenti alla fedeltà di se stessi. Così Giorgina Busca
Gernetti ha ormai un fiume di persone che navigano nel clima del suo non
eludibile riconoscersi; temo che l’ombra sia più forte della luce nella dicitura
del suo idioma poetico, quantunque ostinatamente profuso e immesso in circuiti
incorruttibili, ma quasi ingenui o del tutto onesti di simboli e di luoghi.
Questa elaborazione voluttuaria e dolce, acre e festosa, informativa per la
curiosità che desta nel lettore in equilibrio, domina comunque sia la produzione
più breve (incominciata nel 1998 con “Asfodeli”), sia i più recenti esiti letti
qua e là nell’ansa angusta delle più provvisorie attenzioni letterarie. Ma per
non perdersi attraverso passioni più private che clamorose, avrebbe bisogno di
una lettura meno sommaria, per costruire una gioia meno crepuscolaristica e più
incandescente, così come tocca ai poeti del nuovo secolo, tanto labile nelle
possibilità di letture e ascolti, nei confronti di coloro che sanno raggiungere
loro intrinseche scelte, e s’innalzano per la medesima sofferenza che li
promuove.
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Recensione |
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