| |
Nel
territorio del giallo, e senza dispersione di parole pronte a un qualsiasi
possibile allarme su un ipotetico uso dei contenuti, questo Ruvido lago
espone nei suoi diversi misteri culturali e umani, un tono calmo, a mementi
manzoniani, che fa prevedere una lettura lieve e conciliabile alla liricità e
alla meccanica del tema oltre che all’integrazione dell’episodio in causa in una
scrupolosa costruzione .
E’ una
costante che si avvicina a quella semantica “leggerezza dell’essere” che, credo,
sia la migliore ineffabilità di tanta narrativa contemporanea, la quale assolve
il “romanzo” dagli innumerevoli e convulsi atteggiamenti di artefatta
narratività o viaggio verso nessun porto. Questo incipit, o avvio semplice,
elabora, anche nel corso dell’intera testualità (non estesa, breve, senza dubbi
eccessi), l’importanza di un equilibrio della scrittura di Gemma Forti, già nel
2002 autrice di una parallela misura emotiva intercettabile ne’ “La casta pelle
della luna”: iniziale e adulto strato della sua evocazione poetica e letteraria
vivacemente dislocata. Qui, ciò che resta “ruvidità” è invece disegno di un
evento, razionalità di ogni accaduto, e insieme progetto (tecnico) del
raccontare, assediato dal caos dei fatti, delle figure, e ritmo di una coerenza
insistita nel cratere della realtà che la scrittrice fonda e guida
nell’interesse del lettore che, in ogni caso, trova informazioni sufficienti e
complete per capire (prive d’informalità) tensioni necessarie, e direi il suo
diritto alla conoscenza esatta dei casi in questione, oltre le varie descriptio.
C’è il caleidoscopio delle persone che compaiono sulle pagine in forma limpida
ed eloquente, mai rigide o soltanto sospirose, la quotidianità corrugata dai
conflitti civili, le luci e le ombre proprie di un messaggio che filtra da una
prosa lesta e meditata, inondata di proiezioni soddisfacenti, liberatorie,
aperte a una sorte che i diversi turbamenti propagano nell’assedio delle
ferocie, pencolanti dentro una morte quando somiglia alle cronache spontanee di
un vissuto esplicitamente noto, e diventato una caratteristica di tutto il
rien va dei nostri anni, e comunque problema comune della varia dissipazione
civile.
Gli
slittamenti emozionali non dimenticano quel farsi poeticistico della
sopravvivenza, che regge la serie sociale dei contrasti, le soluzioni difficili
e soddisfatte (ma tempeste gelose e suadenti), il senso della vita della gente,
le passioni e i peccati mai privi d’alba e di progress esistenziale (malizie e
adagi compresi).
La
vicenda è densa di non speciose memorie, e certi spunti deliranti della vita e
della morte, determinano quelle verità che ogni riflessione fa incombere su
tutti, vittime e stigmatizzazioni in più segni. Così, ai contrasti comunicativi
di valori scoperti da un concetto di disarmonia, che è favola amara a
espressività adeguata, il sogno scritto espone una visione del mondo tra gaudio
e affanno, sussurro etico, malinconia non casuale e sfondo all’attraversamento.
Su codeste stesse illusioni,
fermentano mozioni ed essenze di individualità in un universo infelice, non
fermo alla pantomima delle normali questioni. Esse soffocano la vita e la
rendono fitta di eventualità e vaghezze, piuttosto che sostanziale e aperta
teoria di un destino, assimilato caso per caso “da qui all’eternità”. Il
cortocircuito che ne deriva quindi, non è soltanto labile alterità di un gioco
o di una festa, ma estenuazione di un’epoca che non può sfuggire a provvisori
naufragi.
| |
 |
Recensione |
|